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PARAGRAFO I: LUCI ED OMBRE DELLA POLITICA FRANCESE NEL SETTORE MANIFATTURIERO

XIII: GLI ASPETTI NEGATIVI

Sicuramente è più agevole mettere in luce gli aspetti negativi del dominio napoleonico in Italia che quelli positivi, per la semplice ragione che i primi si manifestarono immediatamente, mentre i secondi furono costituiti dall’innesco francese di processi socio-economici lunghi e meno evidenti, che avrebbero però avuto come esito finale il potenziamento di una nuova borghesia in grado di dare nei decenni successivi un assetto politico ed economico moderno al nostro paese, processo che va comunemente sotto il nome di Risorgimento. La retorica ha finito per nuocere ad esso, facendolo apparire un contenitore vuoto, mentre nei fatti esso è stato la nostra rivoluzione borghese (259), soprattutto per gli esiti economici e politici che esso ha comportato e che hanno permesso il definitivo reinserimento dell’Italia nel novero dei paesi avanzati, sia pure in posizione subordinata rispetto alle potenze otto-novecentesche.

Questo fatto incontrovertibile è oggi messo in discussione da rigurgiti localistici che sono in parte l’effetto della mancanza di un riferimento unificante per larghe fette di persone, provate dal fallimento delle grandi ideologie e private delle stesse. Non è questa la sede opportuna per approfondire questo discorso, sta di fatto che l’imperialismo transalpino con la sua rapacità e la sua politica smaccatamente filo francese ha apportato danni anche notevoli a buona parte dei territori da esso dominati, senza per questo conseguire la tanto desiderata egemonia sull’Europa, svanita già in seguito alla battaglia di Trafalgar del 1805. Da questo punto di vista il tentativo egemonico di Bonaparte si era risolto in un completo fallimento, assimilabile a quelli precedenti di Carlo V e Luigi XIV e successivi di Napoleone III e di Hitler (260). Del resto l’attuale politica di integrazione europea altro non è se non la certificazione storica del fallimento di ogni progetto imperialista sul suolo

259: G. Candeloro, Storia dell’Italia moderna, Feltrinelli, Milano, 1966, vol. I, pp.13-15

260: L. Dehio, Equilibrio o egemonia. Considerazioni sopra un problema fondamentale della storia politica moderna, Il Mulino, Bologna, 1991, pp. 39-243

europeo, cui si è contrapposta nel tempo la teoria dell’equilibrio, pensata da Lorenzo il Magnifico e puntualmente ripresa dalle diplomazie europee (in primis quella inglese) nei secoli successivi. Quest’ultima è stata poi superata dal salto di qualità rappresentato dalla dottrina Schumann e dai suoi sviluppi successivi sino ai giorni nostri. Tornando a Bonaparte, il fallimento delle sue pretese egemoniche, che finirono per risvegliare lo spirito delle nazioni oppresse e per propagandare la cultura romantica in Europa, rese ancora più intollerabile agli occhi dei contemporanei come dei posteri il carico di sacrifici economici ed umani imposti all’Europa intera dalla grandeur francese. Gli effetti negativi di questa spirale, che rappresenta indubbiamente il fallimento di Napoleone, si riverberarono sulle attività economiche, danneggiate dal perenne stato di guerra degli anni 1796-1815 e dalla politica doganale francese.

Il Regno d’Italia ad esempio era debitore negli scambi commerciali verso la Francia di 20 milioni di franchi nel 1805 (261) per effetto dell’esportazione forzosa delle proprie materie prime e dell’acquisto, sempre forzoso, dalla Francia di prodotti finiti.

Le fabbriche tessili, fiore all’occhiello del sistema economico lombardo, diminuirono e con esse il numero di operai che andarono ad ingrossare le fila dell’esercito o dei disoccupati. Tanti vincoli imposti al mercato, aggravati dal blocco continentale francese, cui si contrapponeva quello marittimo inglese, finirono per rendere floridissimo il contrabbando, più facile però da mettere in pratica sulle coste che non nell’interno. Questo ulteriore fattore geografico rese ancora più difficile la situazione economica in valpadana, da cui si differenziavano Parma e il suo territorio, che sfruttarono il blocco per dare nuovi sbocchi alla loro industria tessile, la cui esistenza era relativamente recente. Ciò non toglie che anche le manifatture del Taro ebbero a soffrire alcuni aspetti della politica napoleonica, nonostante gli elogi del blocco continentale contenuti sul Giornale del Taro (262) ( che del resto altro non poteva dire) secondo cui l’Inghilterra si sarebbe dovuta per forza piegare, negando clamorosamente che il decennale blocco marittimo inglese avesse arrecato danni al

261: A. Fugier, op. cit. vol. II, pp. 179-204 262: Giornale del Taro, numero 41, 23 luglio 1811

sistema produttivo imperiale, che anzi con l’autarchia permetteva di soddisfare agevolmente i bisogni di 60 milioni di consumatori. Se essa infatti apportò vantaggi alle aree economicamente meno sviluppate, danneggiò invece fortemente le zone produttive più dinamiche, generando un saldo ovviamente negativo nel complesso dell’Impero. Ciò in piccolo si vide anche nel Dipartimento del Taro. Parma, più arretrata dal punto di vista industriale, ebbe un vantaggio dall’autarchia perché essa permise di trovare uno sbocco ai prodotti della nascente industria tessile, il cui livello qualitativo e quantitativo non era così alto da poter permettere una competizione in condizioni normali con la più titolata manifattura dei tessuti lombarda, per non parlare di quella francese.

Per il piacentino il discorso era diverso: la dogana imperiale separava crudelmente le produzioni piacentine da quelle lombarde e le sottoponeva ad un esoso fiscalismo. Si assistette negli anni del Taro ad una diminuzione di popolazione e ad un progressivo impoverimento degli abitanti delle campagne, le cui entrate supplementari determinate dal buono stato dell’industria tessile diminuirono sensibilmente. La situazione venne aggravata dal fallimento dell’introduzione dei merinos, che arrivarono a costituire al massimo l’1% del patrimonio ovino complessivo, dalla mancata riuscita della coltura cotoniera, dalla decadenza dell’industria del fustagno, annichilita da quella del Regno d’Italia.

L’industria serica perse il 10% della produzione negli anni 1790-1810, mentre le industrie del cuoio e del cotone soffrivano la concorrenza francese, favorita ad ogni livello dal potere centrale. Per il piacentino il calo del settore industriale fu notevole, e ciò fa registrare un quadro simile a quello descritto da Tarle per lo stesso tipo di manifatture presenti nel Regno d’Italia (263). Il dominio francese colpì le strutture produttive più dinamiche, senza che per questo una società con un ancora scarso tasso di mobilità interna riuscisse ad apprezzare le riforme giuridiche e amministrative napoleoniche. Queste ultime del resto erano meno avvertibili in un centro avente tradizionalmente un carattere militare, cui in tempi più recenti si era affiancato un settore industriale che non a Parma, sede amministrativa e prefettizia per eccellenza e

263: L. Bulferetti, L’economia piacentina nel periodo napoleonico, in “Studi parmensi”, IX, 1959, p. 39

quindi in grado di sentire meglio a livello socio-economico gli effetti positivi del nuovo corso napoleonico. Anche nel Taro dunque la zona più promettente dal punto di vista industriale finì per essere mandata volutamente in debito d’ossigeno dal protezionismo napoleonico, che invece favoriva con l’autarchia lo sviluppo dei piccoli centri produttivi. Gli esiti negativi di questa politica non condizionarono però la crescita demografica del Taro, che proseguì costante per tutto il primo ventennio dell’800 e questo dimostra come, sia pure lentamente, sia proseguito durante la dominazione francese il processo di limitato ma progressivo aumento della disponibilità di beni primari per la popolazione.

I numeri infatti parlano chiaro: la cifra fornita da Lucia Pelegatti ci dice che nel 1809 il Dipartimento, ancora sotto la guida di Nardon, contava 368.084 anime, ascese a 426.512 nel 1815 e poi nuovamente accresciute dal 1825 in poi (264). L’aumento di popolazione è a ben vedere consistente e ciò in una società composta per il 90% da agricoltori, ossia da persone che legavano strettamente lo strumento lavorativo di sostentamento al sostentamento effettivo stesso, significava che la produzione agricola nel suo complesso era stata incrementata quel tanto che bastava a sfamare quasi 60.000 bocche in più. Questa positiva tendenza demografica verrà interrotta nel 1820 a causa di un’epidemia di tifo petecchiale che fece 14.000 morti, prima di tornare alla crescita degli anni belli di Maria Luigia, già consorte di Napoleone e duchessa di Parma dal 1816 al 1847. L’epidemia del 1820 evidenzia ancor di più l’assenza delle stesse e della carestia dai territori parmensi e ciò anche per effetto delle politiche sanitarie eseguite da Delporte che sfociarono nelle vaccinazioni estensive delle persone e dei bovini, con vantaggio notevole per la popolazione e la sua economia.

La buona amministrazione francese era tuttavia inserita in un quadro a volte costrittivo e negativo per lo sviluppo socio-economico complessivo, che anche a Parma risentì di alcune decisioni dell’imperatore. I restauratori infatti, per conquistare facile consenso, abolirono subito nel 1814-15 alcuni provvedimenti napoleonici invisi

264: L. Molossi, op. cit. p. XXIV

ai più e a volte effettivamente dannosi. Per esempio, subito dopo l’entrata delle truppe austriache di Nugent a Parma il governo provvisorio appena costituito decise di pubblicare gli atti amministrativi esclusivamente in italiano, cassando il francese che era stato per oltre un decennio la lingua ufficiale dell’amministrazione. Poco dopo venne messa nel mirino la politica doganale napoleonica, del resto naufragata assieme all’Impero a Fontainebleu prima e a Waterloo poi. Poco dopo la sconfitta definitiva di Bonaparte il 17 novembre 1815 viene inviata, su preciso input del governo provvisorio, una missiva a Serventi, capo della commissione esaminante le tariffe daziarie (265). Il senso della comunicazione è chiaro: tutte le restrizioni al commercio esterno volute da Napoleone sono da considerarsi decadute, perché decaduta è la politica centralizzatrice e autoritaria che pretendeva di ingabbiare i flussi commerciali del mercato, ora più libero che in passato.

Da questo punto di vista, quando si parla di nascita parziale di una nuova borghesia grazie all’età francese, è opportuno ricordare anche che alcuni provvedimenti dell’età della restaurazione e il buon governo di Maria Luigia hanno contribuito al rafforzamento di questo ceto, per altri versi penalizzato da svariati provvedimenti, in primis quelli che restituirono alla Chiesa (e quindi alla forza economicamente meno produttiva) parte dei beni alienati dai francesi. Giova ricordare ad esempio che il Codice Napoleone fu sostituito da un altro testo nel 1820, che accoglieva i principi del legislatore corso e migliorava alcuni suoi aspetti giuridici, qualificandosi come moderna e lungimirante legge del restaurato (più nominalmente che praticamente, almeno nel campo del diritto) Ducato.

Tuttavia valutare gli aspetti negativi del domino francese nel parmense significa allargare la visuale al Regno d’Italia, sia perché esso costituiva la punta economicamente più avanzata del paese, sia perché verso di esso si orientava una parte consistente del commercio parmense, danneggiato dalle dogane imperiali, come nel caso del commercio di vino con Reggio Emilia (266).Parma, non ancora collegata del tutto alla Liguria durante gli anni di Delporte finì con il risentire di alcuni aspetti

265: Vedi supra nota 68

266: A. De Maddalena, op. cit. p. 65

negativi della politica napoleonica nel vicino e potente Regno, dalle cui difficoltà trasse qualche vantaggio per la vendita dei prodotti della propria industria tessile, ma notevoli svantaggi in termini di difficoltà nei commerci e quindi nell’approvigionamento di materie prime e soprattutto di prodotti finiti che avrebbero fatto molto comodo a larghi strati della popolazione. In questo settore le note dolenti non mancano: commercianti e industriali del Regno se la passavano male, perché l’Impero ostacolava le importazioni dall’estero e quindi indirettamente incentivava un diffuso contrabbando, del resto praticato in grande stile dagli inglesi e dai loro referenti territoriali, bravi come nessuno a piazzare le proprie mercanzie sul mercato nero. Ad esempio Malta visse negli anni del blocco un’eccezionale periodo di floridezza economica, essendo quest’isola diventata la capitale del contrabbando internazionale sotto la guida inglese. Questo commercio nero ovviamente metteva in difficoltà molti produttori lombardi, stretti tra l’incudine del proibizionismo napoleonico e il martello degli operatori economici che lavoravano nell’illegalità.

A ciò s’aggiungeva la politica doganale favorevole all’ingresso di merci francesi nel mercato del Regno, essendo queste ultime immuni da dazi che invece colpivano i prodotti lombardi destinati al resto dell’Impero, visto che al di fuori di esso era proibito commerciare (267). Nei fatti le merci del Regno potevano concorrere ad armi pari sui mercati solo con quelle provenienti dagli altri paesi assoggettati alla Francia, cui era applicato lo stesso regime coloniale-doganale, che danneggiava l’Impero nel suo complesso pur di assicurare vantaggi immediati alla Francia. Questa politica mostra come al di fuori della Francia esistessero realtà produttive anche più avanzate di quella oltralpina, che del resto scontava gli anni dello sconvolgimento rivoluzionario e non era quindi così salda dietro l’Inghilterra a livello di produzione economica nei primi anni dell’800. Ad esempio la cantieristica navale olandese e l’industria tessile lombarda erano pari quando non superiori ai rispettivi settori produttivi francesi, favoriti però da un potere politico tanto forte quanto miope, perché non in grado di assicurare una crescita armoniosa e complessiva alle parti più sviluppate dell’Impero, con evidenti ricadute negative anche in termini di consenso

267: E. V. Tarle, op. cit. pp. 147-152

in numerose e cruciali aree. Su questa linea si situava anche l’ostacolo posto da Bonaparte all’esportazione di macchinari, che giunsero agli industriali tessili lombardi che li richiedevano con il contagocce. Quando le macchine arrivavano, spesso erano mal funzionanti e comunque si trattava di pezzi scartati dai produttori francesi, tanto da far asserire a numerosi imprenditori lombardi di non fare investimenti in mezzi di produzione, perché ritenuti economicamente rischiosi in quanto inadeguati dal punto di vista delle esigenze produttive e inaffidabili da quello tecnico (268).

Va anche detto, a parziale conferma di quanto poco sopra asserito circa lo sviluppo economico francese post-rivoluzionario, che la cattiva fornitura di mezzi meccanici al Regno come altrove era anche la conseguenza della grande penuria degli stessi, specie quelli tecnologicamente avanzati, nel cuore stesso dell’Impero.

Solo quando divenne necessario accelerare lo sviluppo dell’autarchia Napoleone si decise a mandare a Milano un certo numero di macchinari, permettendo lo sblocco di una situazione sempre più insostenibile per gli industriali lombardi. Anch’essi, come quelli parmensi, traevano vantaggi dall’autarchia, ma ciò non toglie che essa complessivamente costituì un freno allo sviluppo dell’economia dell’Impero, già di per sé impegnata in una lotta impari con l’Inghilterra, che diveniva ancora più impari a causa della politica coloniale imposta da Napoleone a molti territori conquistati, che invece potevano essere autentici polmoni produttivi dell’organismo imperiale. Il blocco invece si riverberò creando solo danni e nessun vantaggio sui commercianti, autenticamente vessati da Bonaparte (269). Nel Giornale del Taro sono molto frequenti trionfalistici articoli che ci parlano di roghi di merci inglesi avvenuti tanto nel Dipartimento del Taro, quanto nel resto d’Italia, e principalmente nei porti di Livorno, Trieste, Venezia. In realtà si trattava di vere tragedie economiche per i commercianti, sottoposti a pesanti controlli, su cui gravava anche l’arbitrio di alcuni funzionari francesi, avidi approfittatori della subordinazione economica e politica dei produttori del Taro in particolare ed italiani in generale.

268: Ivi, pp. 74-75 269: Ibidem, pp. 168-177

Alla fine, come già mostrato da Fugier, il settore tessile lombardo soffrì gli anni di Napoleone, ma nonostante ciò era in grado di occupare 90.000 operai in circa 400 aziende, cui si affiancava il lavoro a domicilio. Il sistema di fabbrica che aveva fatto la gloria dell’Inghilterra e che si era affermato a Lione e Saint-Etienne era stato ostacolato vigorosamente in Lombardia, determinando l’allargamento del gap economico tra l’Italia nel suo complesso e i paesi più progrediti. Questo gap avrebbe segnato i decenni successivi, durante i quali però la borghesia produttiva, per altri versi incentivata dai francesi, avrebbe finito per affermarsi e porsi alla testa del processo risorgimentale, portato a termine grazie all’accordo con la nobiltà progressista e l’utilizzazione strumentale del popolo nel meridione.

Oltre a ciò è bene ricordare che, nonostante tutti gli ostacoli frapposti da Napoleone alle manifatture tessili lombarde, esse avevano in ogni unità produttiva un numero di addetti alla tessitura superiori alle concorrenti ed ultrafavorite fabbriche francesi (270). Il fatto che tutti i vincoli imposti da Napoleone all’industria tessile lombarda non abbiano determinato il suo pesante ridimensionamento era anche il frutto della robustezza della stessa, che poteva vantare già un secolo di storia, durante il quale il tessile lombardo era cresciuto grazie all’interscambio continuo e reciproco di materie prime e prodotti finiti con l’Inghilterra. Parma non poteva contare su origini così lontane (i primi tentativi manifatturieri tessili furono fatti da Du Tillot) né su un cliente commerciale così avanzato, dato che la capitale del Ducato, per questioni dinastiche e politiche, aveva rapporti commerciali con la Francia d’ancien regime e la Spagna borbonica, assai più indietro dell’Inghilterra nel promuovere la cultura del libero mercato e quindi lo sviluppo combinato dei vari contraenti.

Napoleone fu inflessibile con le esportazioni inglesi, ma si mostrò tollerante nella vendita di merci prodotte nel parmense ai britannici, come nel caso del tessile prodotto nel guastallese (271) perché faceva comodo all’apparato economico dell’Impero nel suo complesso. Ciò non toglie che l’interruzione del libero

270: Ivi, ad esempio per il settore serico, pp. 255-256 271: Ibidem, pp.138-140

commercio tra Inghilterra e Lombardia danneggiò seriamente gli impresari di tutto il nord Italia, che su questa direttrice basavano anche gli altri traffici e commerci locali.

Napoleone era ben contento di ciò perché concepiva il Regno d’Italia come semplice mercato d’assorbimento dei prodotti dell’industria francese, dimenticando che la mancata creazione di ricchezza in loco fiaccava anche le capacità d’acquisto della popolazione del Regno “amorevolmente” rifornita dalla Francia. Queste imposizioni forzose furono manna dal cielo per il contrabbando, che scelse come punto strategico Novi Ligure, arricchitasi notevolmente il quegli anni di assedio burocratico ed autoritario per i produttori del nord Italia e di Parma e Piacenza in particolare, tagliate fuori dalle rotte commerciali del Regno d’Italia che, per evitare le temute dogane napoleoniche, preferì spostare i suoi traffici su Modena e su Mantova (272). Lo stesso discorso valeva per il commercio fluviale che si dipanava sul Po, comportando una diminuzione del volume degli scambi tra il Dipartimento del Taro e il Regno d’Italia.

Tuttavia il grande fiume di Riccardo Bacchelli andava oltre le forzose divisioni politiche e amministrative di Napoleone, scorrendo placido anche all’interno di altri dipartimenti imperiali.

Ciò permise di rimodulare il commercio fluviale parmense verso il Piemonte e la Liguria, visto che esso si giovava anche dei lavori pubblici di sistemazione delle dighe e degli argini del Po eseguiti negli anni francesi e particolarmente in quelli di Delporte. Il Po offriva la possibilità di un commercio tranquillo, grazie al fatto che esso era interamente sotto controllo francese. In mare era tutta un’altra storia, segnata dalla guerra permanente tra Francia e Inghilterra, combattuta a colpi di blocco continentale e marittimo con la differenza che le vittime sacrificali non erano i soldati, ma i commercianti.

Ogni nave italiana era sotto perenne rischio di attacco corsaro inglese e l’un tempo superba Genova precipitò in una gravissima crisi, soffocata com’era dalle dogane imperiali in terraferma e dagli attacchi britannici in mare (273). Non molto migliore

272: Ivi, p. 155 273: Ivi, pp. 192-194

era la situazione di Trieste, Livorno e Venezia (dove tutti i settori manifatturieri si contrassero in una misura compresa tra il 10 e il 70%) in cui i roghi di merci inglesi obbligarono il Taro a sviluppare l’autarchia, specie nel settore dello zucchero, ora ottenuto dalla barbabietola, ora dall’uva, ora dal miele.

Le difficoltà produttive di Venezia, come quelle di tante altre città costiere, permisero all’industria autarchica del Taro di avere nuovi sbocchi per i suoi prodotti, ma ciò non cancella l’incontrovertibile fatto per cui questo progresso fosse pagato da un ben più numeroso regresso in luoghi un tempo importanti e floridi, resi invece ora rachitici dalla politica di Bonaparte.

PARAGRAFO II: LE CONDIZIONI GENERALI DELLA MANIFATTURA E LE