• Non ci sono risultati.

PARAGRAFO I: LUCI ED OMBRE DELLA POLITICA FRANCESE NEL SETTORE MANIFATTURIERO

XII: GLI ASPETTI POSITIVI

PARAGRAFO I: LUCI ED OMBRE DELLA POLITICA FRANCESE NEL

anche come stimolo per l’arricchimento personale, su cui si basava tutta la politica imperiale da Parigi in giù (233). La molla dell’interesse personale, vero mantra dei liberisti, era utilizzata per la prima volta nel Taro dalle autorità francesi ed era del tutto aliena dalla mentalità del clero, della nobiltà e del defunto duca baciapile.

Si aprivano spazi di arricchimento per i singoli che collaboravano alle iniziative economiche dello Stato, il che presumeva una possibilità di mobilità sociale per i privati del tutto sconosciuta alla società parmense d’ancien regime. Del resto, al di là delle attività produttive dei singoli e del ruolo dello Stato, non va sottovalutato l’impatto dell’alienazione dei beni ecclesiastici, per cui si era battuto, avendo la peggio, Du Tillot nei decenni precedenti. Con Napoleone numerosi beni ecclesiastici (principalmente terre, ma anche immobili) furono alienati dalla Chiesa allo Stato (234) e questi provvedimenti comportarono un indebolimento sostanziale della Chiesa, anche se ciò non significò nuovi spazi e risorse per gli spiriti più intraprendenti dal punto di vista delle attività economiche, a causa del fatto che essi furono incamerati dal demanio pubblico e quindi tenuti fuori dal mercato.

Questo esito dell’alienazione dei beni ecclesiastici si può forse spiegare con la volontà dello Stato di avere un ruolo sempre preponderante nella produzione economica, orientata sulle esigenze dell’esercito imperiale, ma ciò non toglie un dato di fatto: se i produttori privati non beneficiarono delle alienazioni, sicuramente furono avvantaggiati dall’indebolimento economico della Chiesa e dal supporto che veniva offerto loro da uno Stato avente ora una molto più solida base patrimoniale.

Lo Stato aveva ora molte più risorse e questo permetteva ad esempio a Delporte di liquidare i creditori privati che aspettavano i loro soldi dai tempi di Moreau de Saint Mery (235), cioè da quasi un decennio. E’ evidente che uno Stato in grado di

233: Vedi p. 102 cap. I, a proposito delle proposte di collaborazione con il Deposito di mendicità di Borgo San Donnino fatte dalla Società d’incoraggiamento dell’industria nazionale ai privati, in cui si facevano balenare grosse possibilità di guadagno per i singoli produttori di barbabietola da zucchero.

234: F. Pomponi, Napoleone a Parma nel sistema degli stati italiani (1800-1806) in Un borbone tra Parma e l’Europa. Don Ferdinando e il suo tempo, a cura di Alba Mora, Reggio Emilia, Diabasis, 2005, pp. 256-258

235: Giornale del Taro, numero 70, 31 ottobre 1812

rimborsare i suoi debiti permetteva l’ingresso nel circuito economico di denaro circolante in grado di contribuire all’aumento degli investimenti come in quello della produzione e dei consumi, per quanto una mentalità di questo tipo fosse appena nascente e quindi ben lontana dall’essere egemonica. I contadini furono quindi lasciati a bocca asciutta, il clero e la nobiltà furono danneggiati e ciò permise tra il 1808 e il 1814 la nascita di una borghesia agraria (236) che avrebbe nei decenni costituito il gruppo sociale di riferimento dello sviluppo economico, che farà il salto decisivo solo alla fine del XIX secolo.

Questa nuova borghesia agraria investiva tempo e denaro nelle produzioni agricole in grado di rifornire la nascente industria tessile locale. E’ il caso dei produttori di seta, affermatisi nell’età di Dupont Delporte (237) ed in grado di avviare una produzione serica locale incoraggiata dalle autorità perché in armonia con gli obiettivi del blocco continentale, che contemplavano ogni sforzo pur di ridurre la dipendenza dell’Impero napoleonico dai tessuti inglesi. In questo ed altri casi, la sinergia tra obiettivi politici dei francesi e le possibilità di impresa, di arricchimento e di guadagno personale dei singoli produttori privati portava a risultati apprezzabili dal punto di vista economico e produttivo. Laddove possibile, lo Stato incentivava direttamente i produttori e per farlo ricorreva all’espropriazione sistematica dei beni della Chiesa, che già ai tempi di Du Tillot aveva rappresentato un volano per il primo sviluppo proto-industriale del Ducato borbonico. In questo senso, le misure d’espropriazione erano ampiamente riportate dalla pubblicistica locale e quindi in primo luogo dal “Giornale del Taro”, che ingigantiva i benefici effetti di questi provvedimenti. Nel settembre 1811 esso scrive con soddisfazione in prima pagina che

“le Decret d’institution du Depot de Mendicitè a ordonnè un prelevament de 150.000 fr de rente sur les biens des Confrieres pour etre appliques à l’entretien du Depot de Mendicitè. Un autre Decret à determinè que les biens des Confrieres qui existent dans l’Empire seraient remis aux fabriques (238)”. Il governo imperiale non si limita

236: M. Meriggi, Antichi Stati. Ducato di Parma, Piacenza e Guastalla. Ricci, Milano, 1995, p. 28 237: L. Montagna, op. cit. p. 92

238: Giornale del Taro, numero 55, 10 settembre 1811

quindi alle espropriazioni ma utilizza gli immobili della Chiesa per impiantarvi all’interno attività produttive, che a Parma videro il concorso dei privati e dello Stato.

E’ quindi giusto sottolineare le possibilità aperte da questi provvedimenti alla nuova borghesia produttiva di matrice agraria ma anche manifatturiera che sarà il lascito più duraturo e importante della dominazione francese nel parmense e nel piacentino. Già negli anni di Delporte del resto questi provvedimenti fungeranno da valido stimolo all’economia manifatturiera e alla produzione agricola locale, entrambe favorite dalle sinergie di sviluppo dovute alla compenetrazione tra settori produttivi diversi perseguita dalla mano prefettizia di Delporte. L’esposizione dei prodotti dell’industria, pensata da Nardon e organizzata nel corso del 1811 da Delporte, ci rivela parte del mondo della borghesia produttiva parmense, portata come fiore all’occhiello dal governo francese, mentre in precedenza essa era stata compressa il più possibile dall’imperante potere clericale.

E’ da notare che l’esposizione non racchiudeva soltanto i prodotti dell’industria, ma anche i lavori artistici, marcando la volontà di nobilitare anche dal punto di vista della creazione il lavoro produttivo dei nuovi opifici. Tra questi spiccano quelli producenti tessuti alla maniera inglese, laboratori di produzione dello zucchero (tra cui quello del Deposito di mendicità) e dell’indaco. Come si vede, si tratta di produzioni incentivate dalla politica autarchica logica conseguenza del blocco continentale, che permise ad esempio alle produzioni tessili di assumere un carattere ed un’organizzazione del lavoro di tipo industriale, che invece fu minore nel settore dello zucchero e del pastello (239). Ne consegue che si moltiplicano gli spazi per le produzioni seriali e per lo sviluppo di una nuova organizzazione del lavoro adeguatamente supportata dalla presenza dello Stato.

Nei fatti si assiste alla nascita di nuclei di borghesia produttiva “teleguidata” dai desiderata parigini, il che però nulla toglie all’importante fatto storico rappresentato dalla nascita di questo gruppo sociale, anche se esso, come tutte le creature appena nate, non era in grado di camminare sulle proprie gambe autonomamente. Mario

239: Ivi, numero 86, 28 dicembre 1811

Zannoni a proposito degli anni centrali del dominio francese sostiene che la burocrazia e la borghesia produttiva appoggiavano i francesi, anche se il loro peso sociale era relativo poiché si trattava di ceti in formazione, frenati tra l’altro dalla decisione di Napoleone di far pagare ai paesi occupati quell’80% del bilancio dell’Impero destinato all’esercito (240). Tuttavia i nobili e il clero, fieramente avversi ai francesi, pagarono di più il costo dell’occupazione, mentre tra i borghesi si aprirono quelle opportunità di sviluppo economico e di guadagno personale che abbiamo accennato in precedenza. La volontà napoleonica di assoggettare tutte le economie dei paesi conquistati ai bisogni e agli interessi francesi permise nei posti arretrati dal punto di vista produttivo uno sviluppo, orientato quanto si vuole, ma pur sempre sviluppo, che invece fu frenato laddove esso si era sviluppato in modo autoctono, come ad esempio nella Lombardia austriaca. In breve si può sostenere che le politiche economiche napoleoniche siano state tanto una iattura per Milano quanto una fortuna per Parma, con ovvi distinguo a seconda dei settori in questione.

Questa considerazione, che emerge in modo chiaro dall’analisi quantitativa delle strutture produttive del Dipartimento del Taro, è a livello di metodo estendibile anche al resto d’Italia. Il nord produttivo e dinamico già dall’età delle riforme in alcune sue componenti localizzate ebbe a soffrire il prepotere napoleonico, come dimostrato da Tarle, dando fiato a tutta quella corrente storiografica che vide nell’arrivo delle armate rivoluzionarie francesi un danno per un paese che si stava avviando verso la modernizzazione attraverso le lente ma sicure riforme dell’assolutismo illuminato di marca austriaca (241). Viceversa il sud murattiano fu infinitamente migliore di quello borbonico e diede una scossa potente alla società meridionale nel suo complesso. In generale il minor peso specifico nell’ambito dell’economia delle parti arretrate d’Italia ha portato molti storici a focalizzarsi solo sugli aspetti negativi del dominio napoleonico sul tessuto economico delle parti più sviluppate del paese, dimenticando che tanti pezzi d’Italia furono inseriti nella modernità economica dal dittatore corso e

240: M. Zannoni, op. cit. p. 22

241: Ad esempio questa visione è stata sostenuta da Umberto Benassi, figura fondamentale dell’ambiente storiografico parmense, nelle sue opere di carattere generale e non locale.

anche Parma fu tra questi. Un fine osservatore come Aldo De Maddalena nota i chiaroscuri del dominio francese sull’economia dell’ex Ducato borbonico (242).

L’arrivo di Bonaparte nella penisola, fu l’equivalente della calata di un satrapo: a Parma come ovunque intollerabile fu il peso di contribuzioni e requisizioni che sfibrarono del tutto un’economia già arretrata di per sé ed ora messa in condizioni di non potersi risollevare per anni. A Parma si ridusse la domanda di cera per le locali fabbriche, mentre aumentò quella del ferro, segno tangibile dell’occupazione militare francese e dei suoi perniciosi effetti. L’agricoltura produsse a prezzi salatissimi e inaccessibili ai più, in conseguenza delle requisizioni di grano e di altri generi di prima necessità destinati all’Armata d’Italia, il commercio e l’industria languirono e furono legati a doppio filo alla Francia direttoriale, che vedeva nell’Italia un paese da spremere, al contrario di quanto sosteneva la retorica rivoluzionaria dei portatori della libertà (243). Moreau attaccò la Chiesa e promosse la libertà di commercio, dando nuovo ossigeno all’economia parmense, che però vide una massiccia esportazione di grano, bovini e suini che aggravò la condizione economica dei più.

Tuttavia l’esportazione della seta semilavorata era indice di una limitata ripresa delle attività manifatturiere, agganciate ad un quadro che vede le importazioni sopravanzare le esportazioni, comunque ora frutto di una modesta attività produttiva e non più esito finale di ruberie mascherate di ogni tipo, come era avvenuto in passato. Il settore tessile cominciava a dar segni di vita, con le iniziative del conte Stefano Sanvitale nei suoi opifici di Fontanellato (1801) e con la conceria industriale di Antonio Pontes, che fruì della protezione governativa, impegnata anche nel controllo della qualità dei pellami prodotti. Con la dipartimentalizzazione introdotta sotto Nardon, il Taro si vide diviso dalle sue principali rotte commerciali (Milano e Bologna, principalmente, ora annesse al Regno d’Italia) e quindi danneggiato dalle dogane imperiali. Il commerciò ne risentì molto, ma seppe orientarsi su Genova (244), tanto da far riprendere i lavori della Parma-La Spezia, completata nel suo

242: A. De Maddalena, op. cit. p. 72

243: C. Zaghi, La repubblica cisalpina e il direttorio francese, Istituto storico italiano per l’età moderna e contemporanea, Roma, 1992, vol. I pp. 23-24

244: Giornale del Taro, numero 60, 28 settembre 1811

primo tratto proprio sotto Delporte.Ciò prova la vitalità della borghesia commerciale, supportata dalla politica dei collegamenti tra i centri imperiali voluta da Bonaparte, quanto ostacolata dalla politica doganale dello stesso imperatore. Le manifatture pian piano ripresero slancio, favorite, come già detto, dalla politica autarchica del blocco continentale, congeniale ai territori che avevano un sistema produttivo prossimo allo zero e che ora erano incentivati a produrre in loco ciò di cui avevano bisogno. Si tratta, come si vede, di un processo guidato dall’alto che nulla ha a che vedere con le categorie del mercato e dei suoi operatori; ciò non toglie che questo fu lo stimolo per la formazione di nuclei di borghesia modernamente produttiva nel parmense. Difatti il settore della produzione agricola e industriale di cotone fu avvantaggiato dal blocco continentale, perché permise al Dipartimento del Taro di allargare notevolmente le sue esportazioni nel resto d’Italia, privato ora del cotone inglese e coloniale.

Aumentarono le produzioni nei settori della bachicoltura e della canapa, principalmente all’interno di centri statali con cui comunque la borghesia agraria sviluppava sinergie e faceva affari. A Piacenza questo processo assunse caratteri più marcatamente industriali rispetto alla produzione tessile parmense, ancora legata a stilemi post-artigianali (245) e ciò si evince dal fatto che a Piacenza il numero di lavoranti per unità produttiva era più alto che a Parma, così come il salario medio di ogni singolo operaio del settore tessile. Un ulteriore aspetto forse fin qui troppo poco considerato nell’ambito della ricerca storica è costituito dall’estensione a Parma della certezza del diritto.

La nuova borghesia uscita dalla rivoluzione per affermarsi non aveva bisogno solo di uno Stato presente e vicino o di nuove opportunità imprenditoriali, frutto delle migliorie tecnologiche che investirono in seguito anche l’area del Taro. Aveva bisogno anche di un diritto certo e inalienabile, di una legge unica per tutti i gruppi sociali che spazzasse via una volta per tutte favoritismi, clientelismi e pietismi vari elargiti a piene mani ai tempi di don Ferdinando. Essi finivano per dar vita a svariati abusi, di cui si avvantaggiavano i gruppi sociali dominanti e improduttivi, ossia la

245: A. De Maddalena, op. cit. p. 70

nobiltà e il clero. Invece, con i francesi, entrò in vigore il codice napoleonico che normò vasti aspetti della vita associata, permettendo agli operatori economici di poter lavorare in un quadro legislativo chiaro e certo, con benefiche ricadute rese apprezzabili nei decenni successivi.

In questo senso le integerrime amministrazioni di Moreau e di Delporte apportarono benefici sostanziali alla società parmense e quindi di riflesso alla sua economia. A questo proposito giova ricordare la solerzia del nostro prefetto, intenzionato in una sua circolare del 21 luglio 1813 redatta da Ferdinando Cornacchia (246) a far rispettare in tutto il territorio del Taro l’articolo 538 del Codice civile che avocava allo Stato e solo allo Stato la facoltà di imporre tasse sul territorio, frustrando così le iniziative dei proprietari delle terre di confine di imporre una tassazione abusiva ai commercianti che volessero far circolare le proprie merci nelle zone di confine ed anche in quelle adiacenti al Po. Si trattava di un grosso passo avanti, che metteva definitivamente fine agli abusi di discendenza feudale che rallentavano lo sviluppo dell’economia e dei commerci nel Dipartimento.

Lo Stato non si preoccupava soltanto di far rispettare ai privati l’autorità pubblica e la sua conseguente sovranità territoriale, ma cercava ove possibile (cioè dove già erano presenti operatori economici in numero sufficiente) di frapporre meno ostacoli possibili al libero commercio tra Stati e all’interno dello Stato stesso. Già Moreau nel 1804 (247) risponde picche alle tradizionali corporazioni commerciali (fatte fuori da Napoleone una volta per tutte con l’adozione del Codice civile negli ex stati parmensi) che chiedevano di vietare le esportazioni della seta grezza dallo Stato, ancorate com’erano ad una logica iperprotezionista e quindi dannosa allo sviluppo dei commerci, in cui invece Moreau e molti della sua generazione venuta da oltralpe, credevano tanto. A questo proposito offre un saggio di fede ideologica nelle magnifiche sorti progressive del mercato l’anonimo autore autodefinitosi “L’ennemi de l’oisivitè” (248) che il primo maggio 1804 indirizza a Moreau una lettera a

246: ASP, Fondo Governatorato di Parma, busta 196 247: Vedi supra nota 89

248: Ibidem

sostegno delle tesi liberoscambiste. Esse sole possono assicurare felicità e ricchezza agli stati parmensi, legate dall’autore allo sviluppo manifatturiero del territorio, possibile attraverso una formazione accurata della manodopera in sede di avvio delle attività produttive. Si tratta in definitiva di risvegliare le attitudini di un popolo da troppo tempo avvezzo all’assistenzialismo della corte e per questo fiaccato da anni di assenza di una mentalità se non imprenditoriale, di certo poco o per nulla dinamica. A smuovere quelle stagnanti acque contribuirono due provvedimenti importanti: il primo è la costituzione del settore delle fabbriche e manifatture nella pancia del ministero dell’interno (da cui poco dopo si renderà del tutto autonomo) (249), operazione che consentirà allo Stato di guidare con più controllo ed efficienza l’attività produttiva nei territori sottoposti, mentre il secondo consiste nello stabilimento di fabbriche all’interno dei beni immobili sequestrati alla Chiesa. In questo caso vi fu il diretto intervento di Delporte, che tramite il tribunale parmense faceva pervenire d’autorità al Deposito di mendicità spazi e mezzi necessari per avviare da subito, ossia nel novembre dell’11 (e a spese della Chiesa e del suo immenso patrimonio lasciato al di fuori del circuito del mercato) la produzione dei beni richiesti dalla situazione economica determinata dal blocco continentale, che permise anche ai privati di inserirsi in questo affare di Stato, ricavandone guadagni, vantaggi ed opportunità (250). Tutto ciò sarebbe stato impensabile senza un radicale intervento dello Stato contro le proprietà immobiliari ecclesiastiche, obiettivo che a Parma non sarebbe mai stato raggiunto senza la traumatica rottura tra vecchio e nuovo regime. Il dibattito sulla naturale evoluzione verso la modernità delle strutture socio-economiche d’Italia antecedente la rivoluzione francese (che quindi sarebbe stata un danno per il nostro paese) poteva in questo campo essere valido per la Lombardia austriaca e la Toscana leopoldina, non certo per la fratesca Parma e per il suo territorio, che solo ora vede crescere opportunità e sviluppo attraverso la sinergia Stato-privati, a detrimento della Chiesa e della nobiltà improduttiva, dalle cui fila cominciarono a differenziarsi taluni spiriti intraprendenti come Stefano Sanvitale,

249: ASP, Fondo Dipartimento del Taro, serie II, busta 68, fascicolo 102, lettera da Parigi del 7 giugno 1810 250: ASP, Fondo Dipartimento del Taro, serie II, busta 79, fascicolo 119

che con la sua scelta di collaborazione con il nuovo regime e di lavoro nel tessuto economico locale, sanciva la marcescenza dei renditieri titolati del parmense.

Abbiamo già detto come questo nuovo circuito economico potesse essere sviluppato solo se ad un debole ceto privato si fosse unito uno Stato forte, in grado di organizzare e guidare i processi produttivi. In questo senso l’esercito costituiva un committente eccellente per ogni economia locale dell’Impero e non solo un ente dragatore di tasse e contribuzioni. Nel Taro ad esempio ci si appella a maniscalchi, fabbri e sellai per svolgere lavori retribuiti all’interno dell’esercito, con la possibilità di rimanervi, fare carriera e presumibilmente stare lontano dalla prima linea (251). La piccola borghesia aveva così una possibilità nuova di occupazione, pur restando lontana da un’evoluzione imprenditoriale del proprio mestiere. Allo stesso modo operai legnaioli e nuovamente i maniscalchi sono pregati dal giornale il 22 giugno 1811 di presentarsi in prefettura per andare a lavorare a Piacenza agli equipaggiamenti militari.

La medesima offerta viene fatta pochi giorni dopo (252) agli stessi soggetti economici, ancora una volta inviati a lavorare a Piacenza. A ben vedere, una delle poche cose che il regime francese abbia mantenuto in continuità con l’età farnesiana e borbonica è il carattere delle due città principali, conservatosi anche ai giorni nostri, del Dipartimento: amministrativo e culturale per Parma, militare per Piacenza.

L’attenzione strategica per l’esercito di Napoleone aveva come conseguenza anche la cura notevole delle vie di comunicazione, decisive per la guerra di movimento che aveva determinato i fasti dell’imperatore.

Ne conseguivano benefici non solo di carattere bellico, ma anche commerciale, visto che le strade erano utilizzate, com’era ovvio, anche in tempo di pace per gli scambi economici. Il cattivo stato delle stesse aveva afflitto l’economia parmense per tutta la seconda metà del ‘700, mentre adesso i floridi bilanci dell’amministrazione imperiale permettevano uno sviluppo di lavori pubblici benefico per l’economia nel suo

251: Giornale del Taro, numero 20, 11 maggio 1811 252: Ibidem, numero 35, 1 luglio 1811

complesso. Difatti aumentarono di molto i fondi destinati alla cura delle infrastrutture all’interno dell’Impero: nel 1810 alle opere idrauliche furono destinati 5,7 milioni di franchi, ascesi a 7 nel 1811. Nello stesso periodo il fondo per le scuole di arti e mestieri decuplica, passando da 1 a 11 milioni di franchi dal 1810 all’anno successivo.

I fondi per le strade passano da 36 a 40 milioni di franchi, quelli per i ponti da 4,5 a più di 5, quelli per agevolare la navigazione da 11 a 18, quelli per le città del Dipartimento, unico dato locale di cui disponiamo, da 19,7 a 20,2 milioni di franchi (253). Mezzo milione di franchi in più in un solo anno costituiva un aumento considerevole delle disponibilità finanziarie utilizzabili per sanare il tallone d’Achille dell’economia parmense, ossia il tradizionalmente pessimo stato delle vie di comunicazione, con cui avevano dovuto fare i conti anche Du Tillot e il suo progetto riformatore.

Tanti nuovi denari per l’Impero non potevano non avere una ricaduta economica positiva su tutte attività lavorative nel loro complesso, permettendo cosi’ l’apertura di nuovi spazi e opportunità colti dagli elementi più dinamici presenti sul territorio e provenienti anche da file diverse da quelle della borghesia. Il fatto che i dati sopra esposti siano in massima parte aggregati, non toglie nulla al valore di queste rilevazioni, poiché, per la prima volta dopo secoli, l’economia parmense era inserita all’interno di un contesto molto vasto e non più racchiusa dentro angusti confini, il che permetteva di beneficiare indirettamente anche degli investimenti infrastrutturali che venivano effettuati ad esempio nei dipartimenti imperiali adiacenti. Del resto alcuni inoppugnabili fatti dimostrano il progresso economico del Taro: il giornale locale (254) riporta alcuni dati comparsi sul Moniteur di Parigi relativi alle manifatture nel 1810.

Parma viene citata per la produzione dei berretti di seta e dei cappelli, mentre tutto il Dipartimento è considerato per l’attività industriale serica, che produce

253: Ivi, numero 39, 16 luglio 1811 254: Ibidem, numero 80, 7 dicembre 1811

complessivamente 16 milioni di franchi di beni prodotti in 4.300 fabbriche da 43.089 operai in tutto l’Impero. Ciò prova quanto il Taro avesse acquisito un peso rilevante statisticamente nel più sviluppato settore industriale dell’epoca, cioè quello tessile, in cui brillavano le stelle del lavoro associato lionese e lombardo, cui però si affiancava anche la produzione del Taro.

Dai dati sovrastanti ci appare un Impero in progresso economico complessivo, in cui anche Parma seguiva la tendenza positiva diffusa e incentivata dagli scambi commerciali interni alla compagine napoleonica. Del resto, lo stesso Giornale del Taro si differenziava dalla vecchia Gazzetta di Parma per il respiro europeo delle sue notizie, che riguardavano anche i successi economici raggiunti negli altri dipartimenti, con l’obiettivo di promuovere l’emulazione anche sul territorio locale.

E’ questo il caso della notizia riguardante l’apertura di una fabbrica per la produzione di barbabietola con annessa scuola di formazione a Magdeburgo. Vengono riportati i dati dell’estrazione dello zucchero dalla barbabietola e i programmi della scuola di formazione, con l’intento di stimolare l’attenzione e lo spirito d’emulazione presso il lettore parmense (255). Nello stesso numero si parla altresì della prostrazione del commercio inglese e dei licenziamenti di massa subiti dagli operai, in quelli che erano i giorni delle agitazioni luddiste. Nel complesso il quadro che emerge raffigura un Impero economicamente ed armoniosamente in crescita, in cui il Dipartimento del Taro fa la sua parte, spiccando in alcuni settori, come quello della seta o della vaccinazione antivaiolosa di massa della popolazione. La committenza dello Stato costituisce il punto di partenza per lo sviluppo economico del territorio, in special modo per quanto concerne il rapporto agricoltura-industria, diversamente definibile anche come materia prima-prodotto finito. In questa dinamica lo Stato assume un ruolo decisivo attraverso le iniziative prefettizie.

Il Deposito di mendicità, trasformato in un centro di produzione, fornisce risultati soddisfacenti e permette di far sviluppare molteplici affari tra questa struttura e i coltivatori privati. Essi forniscono barbabietole grezze al Deposito, coltivate

255: Ivi, numero 19, 5 maggio 1812