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I FORAGGI E LE STATISTICHE SULL’ALLEVAMENTO

PARAGRAFO IV: NOTIZIE E STATISTICHE SU AGRICOLTURA E ALLEVAMENTO

X: I FORAGGI E LE STATISTICHE SULL’ALLEVAMENTO

contraria all’integrazione economica d’Italia voluta da Napoleone, esposero il Dipartimento di Delporte alla necessità di dover provvedere in casa alle necessità di garantire determinati livelli di produzione pur in presenza di situazioni ambientali o sanitarie del tutto particolari .

Abbiamo già accennato all’epizoosia che colpì le campagne parmensi a più riprese tra il 1796 e il 1801: essa provocò una sensibile diminuzione del parco di bovini che costituivano un’insostituibile fonte di reddito, nonché un valido aiuto nel lavoro dei campi dei contadini, che già non navigavano nell’oro. In breve l’epizoosia causò la carestia: ciò non sarebbe avvenuto in un contesto agricolo sviluppato, ma in un luogo come quello del parmense, segnato da sei anni di contribuzioni forzate imposte dai francesi e da venticinque di bigotteria filo-clericale dannosa allo sviluppo economico e favorevole a quello della rendita, era fatale che una malattia diffusa dei bovini si rivelasse una tragedia per tutte le famiglie che abitavano le campagne degli stati parmensi. Per prevenire questi inconvenienti, senza ovviamente rivedere l’assurda politica doganale, concepita da Napoleone in funzione protezionistica e quindi complessivamente miope per tutto l’Impero, si decise di sviluppare l’arte veterinaria in modo da combattere con il sapere della scienza gli scherzi della natura e prevenire per quanto possibile l’insorgere di nuove carestie ed epidemie dagli effetti potenzialmente devastanti.

L’obiettivo nel complesso potè dirsi raggiunto, visto che gli eventi bellici del 1813-14 non portarono con sé le conseguenze degli scontri avvenuti tra il 1796 e Marengo.

Ciò si verificò sia per lo sviluppo della prevenzione rispetto alle epidemie attuata da medici e veterinari (pensiamo anche ai successi nella vaccinazione dal vaiolo che proiettarono il Dipartimento del Taro ai vertici di questa speciale classifica riguardante tutti i territori dell’Impero (205)) sia grazie all’incremento complessivo di produzione, produttività e diversificazione dell’economia agricola messo in atto dai francesi con i buoni risultati conseguiti da Delporte che ebbero come effetto ulteriore quello di mettere al sicuro le popolazioni locali dai tempi di vacche magre vissuti alla fine del settecento.

205: L. Pelegatti, op. cit. pp. 70-71

Si cercò in ogni modo di formare veterinari per proteggere le specie che alimentavano i contadini e a questo proposito da Parigi il ministro dell’interno scrive a Delporte il 13 marzo 1813 per fare attuare anche nel Taro il decreto di Napoleone del 15 gennaio dello stesso anno mirante ad introdurre una nuova organizzazione delle scuole veterinarie. Compito specifico del prefetto è “assurer le paiement des traitemens des Medecins et Marechaux veterinaires qui pourront etre entretenus dans votre Departement”, (206) oltreché selezionare i candidati espressione delle competenze maturate sul campo ad esercitare l’arte veterinaria, operazione questa che richiedeva comunque il placet delle autorità centrali. La questione era seria e quindi la selezione rigorosa: i candidati dovevano presentare il certificato di nascita e quello di buoni costumi, avere almeno vent’anni, avere assolto gli obblighi di leva, dimostrare la conoscenza del francese, avere svolto un apprendistato, lasciare seicento franchi di cauzione, impegnarsi a risiedere per almeno sei anni nel Taro al momento dell’inizio dell’attività ed altri requisiti tesi a formare un contingente affidabile in grado di proteggere dalle malattie gli animali e con essi il lavoro, l’economia e la vita stessa dei cittadini del Taro. Questa rigorosa opera di organizzazione della formazione veterinaria provava la serietà degli intenti francesi (che avevano di mira anche il valore strategico degli approvvigionamenti per l’esercito) che non poterono però essere realizzati a causa del crollo del potere napoleonico. I veterinari già attivi sul territorio (per quanto con requisiti probabilmente inferiori a quelli richiesti dal decreto napoleonico del 15 gennaio 1813) erano impiegati anche per fare incroci e per cercare di migliorare le razze di animali da lavoro presenti sul territorio, sempre con l’obiettivo del miglioramento della produzione sotto i diversi aspetti più volte richiamati.

Un documento anonimo (207) descrive i cavalli parmensi come tra i meno validi d’Italia, il che richiede la necessità di incrociare più razze in modo da migliorarne le prestazioni. L’anonimo scrittore propone l’incrocio con le razze del Regno d’Italia e la creazione di una struttura apposita incaricata di confrontarsi con i contadini, di

206: Vedi supra nota 50

207: ASP, Fondo Governatorato di Parma, busta 215

reperire quindi i dati specifici necessari a catalogare ogni singolo equino presente sul territorio e poi decidere a tavolino a quali incroci procedere. Tra gli animali da coinvolgere in questa operazione troviamo i cavalli della Normandia, della Svizzera e della Baviera, necessari ad elevare la qualità del bestiame equino impiegato nelle campagne del Taro.

L’estensore di questo documento, scritto in francese, propone altresì il coinvolgimento dei sottoprefetti dei tre circondari del Taro, soprattutto per quanto concerne la loro capacità di coinvolgere i proprietari e di dare l’ausilio necessario all’istituzione delegata alla realizzazione degli incroci. Questo progetto rimase sulla carta: ciò non toglie che esso fotografasse bene la situazione e costituisse comunque un importante strumento conoscitivo da parte delle autorità del Taro circa la qualità dei cavalli presenti nel Dipartimento. In queste pagine anonime si respira quell’idea di sinergia tra istituzioni così largamente praticata dalle autorità francesi negli anni di Delporte (tanto da farci pensare che l’autore dello scritto provenga dall’ambiente istituzionale parmense) e la necessità di un’interconnessione profonda tra cultura, scienza, proprietari e interessi economici che aveva informato le proposte dello spirito enciclopedista di Moreau in anni passati ma vicini. L’anonimo scrittore se la prende anche con i contadini che peggiorano le condizioni dei cavalli lavandoli frequentemente, non somministrandogli con regolarità l’avena e sente il bisogno di collaborare anche con gli altri stati della penisola in modo da definire di concerto l’esistenza di una unica razza equina italiana. Non mancano negli anni di Delporte come in quelli di Nardon e Moreau varie memorie scritte da privati cittadini miranti a sensibilizzare le autorità pubbliche sui problemi dell’allevamento. Essi ci forniscono notizie preziose e suggerimenti accolti in parte dalle autorità, solerti nella protezione del patrimonio zootecnico del paese.

Tuttavia si è ancora lontani dalla creazione di un’unità centralizzata di formazione dei veterinari, di cui c’era anzi penuria nel Taro, dato che le autorità li cercavano con il lanternino, un po’ come Diogene di Cirene cercava l’uomo. Si procedeva di fatto a tentoni, facendo di necessità virtù, raccogliendo suggerimenti di privati cittadini

sensibili al problema dell’allevamento e cercando di valorizzare le competenze disponibili sul territorio. Nel marzo 1806 Petitot scrive a Moreau (da poco defenestrato da Napoleone) chiedendogli di adottare per l’allevamento le stesse misure pensate per l’agricoltura mediante la creazione di una società economico-agraria (208). Peccato che le proposte di Petitot erano peggiori del male, visto che la società agraria non era mai decollata e non era pensabile, visti i risultati, di replicare l’esperimento a proposito dell’allevamento, sicuramente bisognoso di sollecitudine, da concepire però in un modo completamente diverso. C’era poi il fatto non trascurabile del licenziamento di Moreau da parte di Napoleone e del suo richiamo a Parigi, che fece rimanere la richiesta di Petitot (necessaria ma inefficace) lettera morta.

Lo spirito d’osservazione di coloro che invitano Moreau ad interessarsi delle sorti dell’allevamento spinge una serie di anonimi scrittori a produrre memorie che sarebbero tornate utili anche negli anni successivi. Una di queste (209) descrive le zone appenniniche del parmense, quelle in cui i suoli erano più avari, ma in cui gli animali da lavoro erano più preziosi e robusti. In montagna è diffusa la grande proprietà, effetto della scarsa resa dei suoli, la qual cosa non garantiva larghe rendite improduttive ai proprietari, che se la passavano meglio dei braccianti, costretti ad un’emigrazione stagionale molto diffusa nelle aree montagnose degli stati parmensi (210). La salubrità dell’aria, la presenza di ottimi prati contribuisce alla crescita di bestiame erbivoro robusto e in salute, che rende molto da un punto di vista di produzione di beni alimentari e di supporto alla forza-lavoro umana. Come si vede, le stesse agricoltura e allevamento del parmense presentavano caratteristiche molto differenti che rendevano difficile un intervento organico in materia di miglioramento delle razze bovine, specialmente a causa della carenza di figure professionali che avessero seguito un organico corso di studi. Avere un buon risultato dall’allevamento non significa solo incrociare razze o lasciare spazio alle conquiste della scienza e

208: Vedi supra nota 88 209: Ibidem

210: P. Spaggiari, L’agricoltura cit. pp. 136-139

della tecnica al servizio della produzione economica, ma anche saper diffondere quanto più possibile le conoscenze della coltura contadina. Moreau, per il suo spirito d’osservazione ed enciclopedico leggeva di buon grado relazioni di questo tipo, che gli venivano mandate con una certa frequenza.

Una di queste, al solito anonima ma scritta stavolta in italiano, (211) è prodiga di consigli sui buoi. Un bue che si voglia sano e produttivo dev’essere cosparso di sale alla nascita, per favorire la pulizia da parte della madre, dev’essere castrato dopo due mesi con un metodo meno crudele dell’incisione praticata in Francia (dunque il nostro scrittore doveva essere ben informato e quindi o un intellettuale o un proprietario sensibile al progresso socio-economico come pochi ce n’erano al tempo, di certo non un contadino, se non altro per la sua padronanza della scrittura) in modo da rendere l’animale mansueto. Il bue viene fatto lavorare fino ai dieci anni, poi lo si manda in pensione nella stalla e lo si ingrassa in modo da ricavarne nell’arco di due o tre mesi più carne possibile, prima di procedere alla sua soppressione. A Piacenza i buoi sono diversi, perché originari dall’oltre Po, tuttavia la durata della loro vita e le loro prestazioni lavorative sono molto simili a quelle dei loro omologhi nel parmense.

Lo scritto infine lamenta l’assenza totale di veterinari negli stati parmensi, il che ci dà l’idea della situazione in cui si trovò Moreau e il punto di partenza con cui dovettero fare i conti prima Nardon e poi Delporte.

L’autore anonimo si scatena poi contro l’Università di Parma che è “soverchia di scolastici, di mistici, e di dogmatici [mentre] trascura le scienze naturali che sono le più utili e le più dilettevoli” (212). Di certo se la riforma dell’Università concepita da padre Paciaudi e voluta da Du Tillot avesse avuto corso, il sapere tecnico-scientifico avrebbe occupato ben altro posto nell’ateneo parmigiano dal 1769 in poi. Tuttavia la svolta reazionaria di Don Ferdinando, definito protettore degli studi da Masnovo (213) che compie l’errore di trascurare le conseguenze dei furori clericali dell’ultimo duca di Parma, fece accumulare trent’anni di ritardo agli studi scientifici nel Ducato,

211: Vedi supra nota 89 212: Ibidem

213: O. Masnovo, La riforma della regia università e delle scuole nel Ducato nel 1769, in “Aurea Parma”, 1913, p. 133

con conseguenze sull’economia molto pesanti. La cappa di clericalismo nell’Università era così forte che uno dei pochi medici formati a Parma, Giovanni Rasori, scappò a Milano, dove iniziò la sua carriera di patriota su posizioni giacobine, che mantenne con ammirevole coerenza durante gli anni di Napoleone e della Restaurazione, fino alla morte avvenuta a nella città meneghina nel 1837. In un contesto come quello parmense degli ultimi decenni del ‘700 era logico che i pochi uomini di scienza scappassero da quel convento a cielo aperto che era il Ducato di Parma e Piacenza. Ecco perché ai tempi di Moreau non si trovava un veterinario e verosimilmente anche i medici dovevano scarseggiare.

Ecco perché l’epizoosia fece molti danni e se è giusto fare carico ai francesi delle sofferenze che le campagne parmensi ebbero a patire negli anni 1796-1801 è anche vero che esse furono amplificate dalla totale mancanza di formazione presso la locale Università di personale tecnico e scientifico adeguato alle esigenze di uno stato settecentesco. Ciò era tanto più incredibile quanto più era la conseguenza di un furore ideologico clericale che aveva trasformato nel giro di pochi anni quella che fu da molti definita “Atene d’Italia” in una grottesca pantomima del medioevo. Il nostro autore giustamente continua allibito notando l’assenza di qualunque studio di agronomia, nonostante essi fioriscano da circa un secolo nella vicina Francia, imitata invece nei suoi aspetti inutili alla corte di Ferdinando. All’Università manca l’insegnamento della fisica sperimentale, della storia naturale e della chimica, cui Moreau cercò di porre rimedio nei suoi anni di governo. Tuttavia non era facile riparare ai tanti guasti dell’età ferdinandea e il Taro continuò a sopportare sulle sue spalle la scarsità di studiosi delle più varie discipline scientifiche nel corso degli anni di Nardon e Delporte.

Le cause profonde dell’arretratezza dell’agricoltura e dell’allevamento parmense non potevano essere rimosse con facilità nel giro di pochi anni e del resto i tentativi modernizzatori in tal senso praticati da Du Tillot prima e da Moreau poi avevano avuto scarsi esiti. Nei fatti una produzione così soggetta alle bizze del tempo o alla diffusione di malattie dei bovini che rischiavano di precipitare nel baratro molte

migliaia di persone in pochissimo tempo portò come conseguenza la richiesta a gran voce di politiche protezioniste, pur invise al liberista Moreau. Era infatti insostenibile presso l’opinione pubblica la libera esportazione di generi di prima necessità in un contesto così arretrato da far temere la carestia ad ogni piè sospinto. Del resto la fiducia nelle virtù taumaturgiche della libera circolazione delle merci era stata frustrata dallo stesso Napoleone con il suo protezionismo filo francese, per cui molto opportunamente, almeno in alcuni ambiti, Moreau non fece del suo liberismo un paletto ideologico e acconsentì a limitare esportazioni di generi di prima necessità indispensabili al sostentamento immediato della popolazione e difficilmente reperibili in altri mercati a causa delle politiche napoleoniche.

Difatti tra le esportazioni troviamo grani, formaggi, opere di stampa, pochi maiali e montoni, vino e poco altro per un totale di quasi sette milioni e mezzo di franchi. Le importazioni riguardavano invece argenteria, qualche suino e bovino, cotone, cuoio (di questi ultimi due con il tempo il Dipartimento del Taro diverrà produttore), tinture, medicinali, acquavite, stagno, piombo, salnitro, tabacco in foglia proveniente dall’America (anch’esso destinato ai successi del cuoio e del cotone) e qualche genere di prima necessità. In tutto le importazioni ammontavano a nove milioni e trecentomila franchi, segnando un passivo complessivo di un milione e ottocentomila franchi, notevole se si pensa alle piccole dimensioni degli stati parmensi e alla loro esigua popolazione. I dati con cui dovette confrontarsi Moreau erano aggravati dal fatto che gli stati a lui sottoposti esportavano materie prime agricole e importavano prodotti finiti, configurando nel commercio con l’estero la propria condizione di stato coloniale, incapace di avviare processi di trasformazione interni delle materie prime disponibili in prodotti finiti da immettere poi sul mercato (214). L’unica soluzione era diminuire i consumi importati e mantenere in loco le materie prime prodotte, specialmente per quanto concerneva i prodotti agricoli e l’allevamento, in modo da garantire il minimo indispensabile alle comunità rurali, già da anni messe in bilico dalla guerra e dagli sconvolgimenti politici connessi alla discesa di Bonaparte inItalia dal 1796 alla morte di Don Ferdinando. A dire il vero, la situazione era già critica ai

214: Vedi supra nota 89

tempi dell’ultimo duca, prima dell’arrivo sul palcoscenico della storia dell’Armata d’Italia. Nel 1795 Parma importava 2.174 lire parmensi di cera, Piacenza 1.762, Guastalla 310. Più grave la situazione per il ferro: nello stesso anno Parma lo importava per 14.267 lire, Piacenza per 21.304 e Guastalla per 1.144 (215).

L’economia del Ducato era del tutto dipendente dall’estero e questa era la conseguenza dell’aver favorito la rendita al posto del profitto voluta da Don Ferdinando, che per di più non poteva contare su entrate in grado di far acquistare tutto il necessario quando ve ne fosse stato bisogno, essendo il suo un piccolo Stato protetto per di più da una Spagna da tempo in decadenza, mentre invece il suo consanguineo Luigi XVI era già stato giustiziato da due anni. Quando Moreau dovette far fronte a questo e ad altri sfaceli combinati da Ferdinando e dal suo bigottismo, non potè far altro che imporre la sorveglianza dello Stato sulle transazioni di generi di prima necessità, se non altro per motivi di ordine pubblico. Troviamo così una serie di documenti datati 19 novembre 1802 in cui sono indicate tutte le compravendite di maiali, da cui risulta che tutti i compratori fossero privati residenti negli stati parmensi. A Moreau continuavano ad arrivare relazioni su come allevare i maiali (216) ricche di particolari, utili a diffondere la conoscenza per ottimizzare la produzione suina, ma comunque frutto di uno sforzo casereccio, mentre era necessaria anche per l’allevamento la creazione di un’istituzione di riferimento in termini di formazione di personale veterinario adeguato. Invece il massimo che si poteva fare era diffondere il più possibile le massime della saggezza contadina, messe su carta da intellettuali o funzionari animati da spirito di servizio nei confronti della comunità e dell’autorità.

Non a caso buona parte della relazione sopra citata si soffermava sulle malattie dei maiali (febbre, lebbra, peste, gonfiore delle ghiandole e via discorrendo) e sui possibili rimedi, ma ben si capisce che questi erano pannicelli caldi che non risolvevano il problema della formazione di un corpo di veterinari, cui rispose Napoleone con il decreto del 1813, tardivo però rispetto alle sorti dell’Impero e

215: Ivi

216: Vedi supra nota 88

del dominio francese a Parma. Nel 1803 vennero esportati fuori dallo Stato 577 suini provenienti dal circondario di Parma e 733 dal piacentino, mentre oltre 3.500 capi venivano allevati e macellati negli stati parmensi; nel contempo nel novembre dello stesso anno altri duemila suini circa venivano esportati all’esterno dello Stato, contribuendo all’impoverimento del patrimonio zootecnico locale, già falcidiato dall’epizoosia, senza che ciò permettesse alla bilancia commerciale di tornare in attivo.

Abbiamo visto come la conseguenza di questa situazione risaliva alle politiche ferdinandee, ma sicuramente la mancata adozione di una decisa politica protezionista in materia di allevamento (a dire il vero difficile da attuare, visto che le importazioni superavano già di gran lunga le esportazioni, contribuendo all’indebitamento dello Stato) finì con il peggiorare la già critica situazione delle campagne parmensi e piacentine, che pure da quegli anni cominciarono un processo di risalita in termini di produzione economica complessiva. Dieci anni dopo tuttavia il quadro non appariva cambiato (217): il progresso nel Taro non pare avere sfiorato il settore dell’allevamento. Nel parmense i bovini continuavano a vivere in media nove o dieci anni, mentre le vacche, non impiegate in lavori pesanti, arrivavano a vivere fino quasi a vent’anni. Non ci sono dati quantitativi sufficienti a capire se il fabbisogno delle popolazioni fosse soddisfatto, mentre era sicura l’assenza di un corpo di veterinari solidamente formato.

Nel piacentino si distinguono i buoi a seconda che appartengano ai territori di montagna e pianura ma non si dice molto altro, il che fa presumere che la situazione sia rimasta stabile, ossia stagnante, il che è un cattivo risultato a dieci anni di distanza dai problemi che dovette affrontare Moreau. Nel 1813 l’estensione dei prati, da cui si ricavano i vari tipi di foraggio per le bestie da allevamento, ammontava a circa 2.000 biolche di prato e a quasi 1.000 di pascolo, mentre erano previste e praticate forme di integrazione per la produzione di foraggi qualora le aree ad essi destinate non avessero dato le quantità sufficienti per l’alimentazione di tutti gli animali. A riprova di questa ipotesi sta l’esplicita dichiarazione secondo cui non c’è mai stata

217: Vedi supra nota 49

un’eccedenza nella produzione foraggiera (218). In conclusione possiamo osservare come la situazione dell’allevamento fosse critica sotto tutti gli aspetti per l’effetto del venticinquennio ferdinandeo e delle sciagure inflitte dalla guerra alle campagne parmensi. In seguito Moreau prima e i suoi successori poi hanno tentato di raddrizzare la barca senza riuscirvi, poiché negli anni francesi non si è riuscito a mettere su una scuola per veterinari, perché sono continuate le esportazioni di suini e perché il parco bestiame del Taro ancora nel 1813 aveva problemi in termini di approvvigionamento degli animali, il che indica l’assenza di sviluppo di sinergie nel settore dell’allevamento, al contrario di quanto avvenuto per l’agricoltura e per l’industria.

218: ASP, Fondo Governatorato di Parma, busta 231