• Non ci sono risultati.

PARAGRAFO I: LE COLTURE TESSILI

III: LA CANAPA

coltura e dell’indotto ad essa collegato, anche perché la canapa era prodotta in maniera uniforme e abbondante in quasi tutti i comuni rurali del parmense e non andava incontro alle difficoltà di ambientamento che avevano ad esempio frenato la diffusione del lino. Queste premesse promettenti erano comuni a varie aree dell’Impero, tanto che era stato presentato un progetto per lo stabilimento della canapa in tutti i dipartimenti imperiali che però pare non abbia avuto effetti apprezzabili (89)

. Nel parmense da questo punto di vista la situazione era positiva: da Sala Baganza il 29 luglio 1811 il sindaco scrive a Delporte per informarlo della produzione di canapa nel suo comune. Essa è stata introdotta in tempi lontani, tanto da non poter prendere una data precisa a riferimento, ed occupa una superficie di ben 34 ettari di terreno. Le sementi sono indigene (come era facile da immaginare per una coltura già radicata nel territorio da tempo) e permettono di ricavare da ogni ettaro di terreno ben 246 chili di canapa grezza (90).

Questa produzione viene venduta principalmente al mercato di Parma o durante le fiere che si svolgono nei paesi vicini ad un prezzo medio di 0,75 franchi al chilo. In tutto a Sala Baganza si arriva a produrre 27 tonnellate di canapa semilavorata, nonostante le tecniche di preparazione del terreno e di semilavorazione del prodotto ottenuto siano sconosciute alla maggior parte dei contadini. Ritroviamo qui il tema della formazione professionale dei lavoratori delle campagne, scoperto da Du Tillot e mai risolto nei decenni seguenti. Anche i tentativi in tal senso di Delporte e delle strutture istituzionali presenti sul territorio pare abbiano dato buoni risultati più in alcuni esperimenti-pilota che non in modo sistematico e diffuso. Ciononostante si assiste a Sala Baganza ad una produzione robusta, cui sarà utile confrontare quella dei più importanti comuni del parmense, in modo da tracciare un quadro chiaro e sufficientemente variegato di una coltura assai generosa nelle rese quanto necessaria alle esigenze della popolazione parmigiana ed imperiale. A Vigatto notiamo alcune

89: ASP, Fondo Carte Moreau, busta 18-19 90: Vedi supra nota 87

sostanziali differenze: le sementi provengono dal vicino Regno d’Italia o dal più lontano Dipartimento del Reno, nonostante ve ne siano alcune di matrice indigena. Il prodotto dei campi viene venduto non solo sul mercato di Parma, ma anche su quello di Langhirano e di Tizzano ad un prezzo vicino ai 65 centesimi di franco al chilo, quindi molto più competitivo di quello praticato a Sala, che pure si distingue per l’abbondanza delle rese. La canapa serve per il vestiario dei contadini, per le suppellettili domestiche, per fabbricare tele e vele del cui acquisto e smercio si occupano dei mercanti genovesi molto attivi presso le fiere che periodicamente si tengono nel territorio, dimostratosi invece ostile alla coltura del lino, più per ragioni sociali che non ambientali e climatiche (91).

Anche a Fornovo la canapa fa parte delle tradizionali attività produttive agricole da tempo immemorabile e ad essa sono destinati quasi dieci ettari di terreno, da cui si ottengono annualmente circa 10 tonnellate di prodotto, i cui usi, i cui acquirenti e le cui piazze di smercio sono i medesimi di quelli visti per i comuni precedenti. Ciò che si può notare con facilità è la presenza di uno stesso sistema di lavorazione e di commercializzazione della canapa raccolta in tutto il Dipartimento. Solo raramente esso dà vita ad un processo produttivo centralizzato e quindi già per questo motivo proto-industriale; in genere sono i contadini ad effettuare una prima fase di lavorazione da cui si ottiene la filassa che, successivamente lavorata, darà vita ai prodotti finiti prima citati.

Colpisce come alla presenza di una produzione così robusta e tradizionalmente affermata faccia da contraltare un sistema di trasformazione e vendita del prodotto avente caratteristiche artigianali nel migliore dei casi. Basti vedere la descrizione della tecnica di lavorazione del prodotto praticata a Fornovo ed esemplificativa di quanto avveniva contemporaneamente negli altri comuni del Dipartimento: la canapa grezza veniva lasciata macerare in delle fosse appositamente preparate per otto giorni, dopo i quali la filassa veniva separata dal resto della canapa con degli strumenti rudimentali utilizzati dai contadini nelle proprie case (92).

91: Ivi 92: Ibidem

Non c’è traccia di lavorazione collettiva ed anche solo parzialmente meccanizzata, ma evidentemente questa arretratezza produttiva era meno avvertita a causa delle alte rese agricole, che rendevano comunque disponibile un’ampia quantità di canapa grezza o semilavorata, più che sufficiente ai bisogni della popolazione e dell’esercito napoleonico, che, grazie alla leva, in un’ottica meramente economica, altro non era che un grande collettore di popolazione. A Tizzano la produzione di canapa era notevolmente diffusa ed accanto ad essa si era sviluppato un settore di commercializzazione attivo specialmente durante i giorni della fiera del paese. Essa rivestiva un’importanza cruciale per l’economia della comunità, che viveva anche grazie allo smercio in loco delle produzioni agricole del territorio, come quella della canapa e di altri prodotti, principalmente commestibili, che davano vita ad un animato mercato. A Colorno, la Versailles dei duchi di Parma, la coltivazione della canapa interessava quasi cinquanta ettari di terreno, ad essa destinati da tempo immemorabile. Le sementi sono indigene, di miglior qualità di quelle provenienti dal Regno d’Italia, pur richieste in altri comuni del parmense, e permettono di ottenere ben 263 chili di prodotto di ottima qualità per ettaro.

Inoltre i semi di canapa venivano utilizzati anche per la cura di alcune malattie del bestiame bovino, anche se pare che quest’uso fosse limitato soltanto a Colorno e a pochi comuni limitrofi. Questa abbondante produzione viene commercializzata in casa, ma buona parte di essa, a causa della sua buona qualità prende la via del Regno d’Italia, dove trovava un apparato produttivo in grado di trasformare a dovere la canapa, nonostante le difficoltà in cui l’industria tessile lombarda era costretta dalle politiche napoleoniche volte a sfavorire ogni potenziale concorrente delle manifatture tessili di Lione (93). Tuttavia una parte della produzione di canapa grezza va ai commercianti e fabbricatori di Tre Casali, figure intermedie tra quelle dell’imprenditore, dell’artigiano e del commerciante, presenti comunque in un settore la cui consistenza produttiva evidenziava la possibilità della nascita di un apparato

93: E. V. Tarle, op. cit. p. 222

produttivo nel Taro che poteva con l’abbondanza della materia prima disponibile compensare parzialmente i ritardi tecnologici di processi di organizzazione produttiva ancora per molti versi in fase embrionale.

A San Pancrazio la canapa occupa 10 ettari di terreno e la sua produzione ha caratteristiche molto simili a quelle di Tizzano e Fornovo. L’unica particolarità di questo comune consiste nell’accoppiare alla tradizionale produzione della canapa anche un certo interesse di alcuni proprietari alla coltura del lino, verso cui molti altri territori si erano mostrati impenetrabili, anche a causa del successo nella produzione di canapa che rendeva molti poco inclini alle sperimentazioni sponsorizzate da Delporte e dalle autorità locali.

A Sissa, territorio tra i meglio disposti ad assecondare le innovazioni produttive prefettizie, erano seminati a canapa ben 31 ettari di terreno, le cui rese davano un prodotto simile per quantità, prezzo e processi di lavorazione a quello dei paesi prima menzionati. A San Donato (94) 28 ettari di terreno sono seminati da secoli a canapa, favorita dalla buona qualità del terreno e dalle sementi indigene. Il prodotto semilavorato viene venduto al mercato di Parma a 0,62 centesimi di franco al chilo, il più basso prezzo tra quelli riscontrati finora, determinato però anche dalla qualità della canapa venduta.

A Montechiarugolo sono 44 gli ettari destinati alla canapa, venduta sul mercato locale allo stesso basso prezzo riscontrato a San Donato. Essa viene utilizzata anche per la produzione di corde, assente in tante altre realtà, e dà vita ad una produzione in tal senso destinata in parte anche all’esportazione in virtù dell’alta qualità del prodotto, evidentemente apprezzato anche all’estero, tanto da essere venduta come prodotto finito a quattro-cinque franchi al chilo, con un prezzo ben superiore a quello della vendita del prodotto grezzo. Sfortunatamente non abbiamo notizie specifiche dei produttori locali di canapa e quindi non possiamo mettere a fuoco con la dovuta chiarezza l’apparato produttivo esistente. E’ certo però che esso costituiva un’eccezione in un quadro fatto di esportazione grezza, che confinava

94: Vedi supra nota 87

nell’arretratezza economica un intero territorio produttivo, tanto da costringere Moreau a prendere misure protezionistiche in tal senso. Esse però non devono aver ottenuto i risultati sperati, poichè negli anni successivi continuò questa prassi, sostituita da una tenue produzione in loco di canapa lavorata soltanto a Montechiarugolo (per altro impermeabile alla coltivazione del lino) e in pochi altri posti. A Langhirano (95) vengono destinati alla canapa 14 ettari, da cui si ottiene un prodotto venduto al mercato del paese a 0,8 franchi al chilogrammo. Anche negli altri comuni del parmense si ottengono risultati simili a quelli descritti, per quanto riguarda lo spazio delle coltivazioni, le rese, le tecniche di lavorazione e i prezzi. Si tratta quindi di una produzione diffusa, che non ha riscontrato grossi cambiamenti nel tempo.

L’intervento francese pare limitato a raccogliere e analizzare i dati in modo centralizzato, il che costituiva senza dubbio un enorme progresso rispetto al passato perché permetteva a partire dalle colture esistenti di individuare quali mantenere, quali incentivare e quali sostituire nell’ottica di una modernizzazione produttiva funzionale all’interesse dei francesi. A parte ciò, questi dati ci fanno notare come si tratti di volumi di produzione stabili, e di tecniche di lavorazione del prodotto altrettanto stabili, ossia arretrate.

Le campagne parmensi lavorano la canapa nel solco della tradizione e dei vecchi metodi di coltivazione, che del resto garantivano rese più che sufficienti per i bisogni della popolazione. Ciò costituiva paradossalmente un ostacolo alla crescita, ostacolo che diveniva sempre più grande quanto più era mancante una produzione destinata non solo all’esportazione o al consumo, ma alla creazione di manufatti in loco che fosse organizzata e non solo conseguenza del lavoro artigianale dei contadini.

Orbene, di questa produzione, tranne forse qualcosa nel comprensorio di Tre Casali e in qualche altro piccolo comune non c’è traccia. La stessa città di Parma, dove pure si concentrava il grosso delle attività produttive esistenti, è citata a proposito della canapa solo come principale mercato di vendita del prodotto grezzo o semilavorato e mai come centro di lavorazione di questa materia prima, la cui abbondanza unita

95: Ivi

all’assenza di mentalità imprenditoriale ritardava l’organizzazione di una struttura produttiva efficiente. I francesi dal canto loro sembra che si siano limitati a fotografare la situazione, traendo informazioni di tipo quantitativo e lasciando che le cose restassero come erano sempre state. L’abbondanza di canapa giustificava questa visione lassista e del resto soltanto imperiose esigenze produttive riconducibili a fattori in buona parte politico-militari spingevano i dominatori a far produrre in loco ciò di cui essi avevano urgente bisogno, permettendo così lo sviluppo di un apparato produttivo locale. In casi di non urgenza si preferiva far lavorare in Francia le materie prime prodotte dai vari dipartimenti (96) in modo da perpetuare quel colonialismo economico che aveva fatto la fortuna politica della dittatura di Bonaparte in Francia oppure di non prodigarsi per far sviluppare settori produttivi che non avessero un’importanza immediata e strategica per i francesi.

Del resto essi comportandosi in tal modo non attuavano nessuna azione frenante nei confronti delle campagne e dei ceti produttivi parmensi, i quali per i motivi così bene fotografati da Gialdi nelle sue lezioni di economia agraria nel 1818 (97) erano ben lontani da una mentalità imprenditoriale e avvezzi al rischio d’investimento. I francesi lasciarono volentieri le cose come stavano nel settore della canapa come in altri che già fornivano a sufficienza ciò che serviva principalmente all’esercito napoleonico, puntando a stimolare l’interesse individuale e le possibilità di guadagno dei produttori soltanto nei settori che potevano nuocere al commercio inglese. In questo caso essi giocarono la carta della produzione autarchica, come nel caso dello zucchero e di alcune fibre tessili ( in primo luogo la lana, specie in preparazione della campagna di Russia) contribuendo al progresso dei dipartimenti sottoposti, abbandonati a loro stessi qualora le produzioni tradizionali avessero raggiunto i livelli richiesti per gli approvvigionamenti ritenuti necessari dall’autorità.

96: A. Fugier, op. cit. vol. II, p. 190 97: P. Spaggiari, L’agricoltura cit. p. 59