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Alcuni capitoli della fisica classica

Nel documento 8 Nuova Secondaria (pagine 90-93)

In quanto precede, col tentativo di analisi dell’origine e della formalizzazio-ne dei concetti di spazio e di tempo, ho in qualche modo posto la cornice in cui tutti i fenomeni fisici devono essere in-quadrati. Essa appare da sola già suffi-ciente per una corretta collocazione della Meccanica, che considera gli oggetti esclusivamente dal punto di vista della loro disposizione nello spazio e del modo in cui questa cambia con il tempo. Altri capitoli della Fisica, come l’Acustica, l’Ottica, la Termodinamica, hanno biso-gno di un appello ad ulteriori esperienze originarie, anche esse per se incomuni-cabili, come sono la percezione del suo-no, della sua altezza, del suo timbro, quel-la dell’armonia e delquel-la dissonanza, delquel-la luce e del colore, del caldo e del freddo. Alla base dell’Ottica vi sono le nostre per-cezioni visive, la percezione appunto del-la luce e del colore, queldel-la delle forme. È da queste che si deve necessariamente partire per tutte le successive costruzioni. Dapprima compare l’Ottica Geometrica, la scienza della formazione delle imma-gini, forse la più antica scienza naturale dopo i primi tentavi di modelli cosmo-logici. Già notevolmente sviluppata nel mondo ellenistico, essa è inizialmente

considerata un semplice capitolo della Matematica.

È essenziale a questa teoria il concetto di raggio luminoso, che ancora una volta nasce dalla idealizzazione del sottile fascio di luce che si materializza sul pul-viscolo dell’aria quando il sole filtra in una stanza buia attraverso un foro o la sconnessione di un’imposta.

In epoca molto più recente ci si è posti il problema di cosa sia luce e di che cosa sia il colore ed è nata quella che oggi chia-miamo l’Ottica Fisica.

Dapprima si sono tentati vari modelli meccanici, per poi arrivare alla concezio-ne moderna della luce come radiazioconcezio-ne elettromagnetica; come manifestazione cioè di una entità nuova, il campo elet-tromagnetico, distribuita nello spazio ma non riconducibile a localizzazione o de-formazione di oggetti. In questo contesto si parla di lunghezza d’onda e si mette in relazione tale grandezza con il colore della luce, senza che questo, naturalmente, pos-sa significare la riduzione della nostra fondamentale esperienza del colore ad un puro apprezzamento quantitativo. In modo simile la termologia prima e la termodinamica dopo, sono costruite a partire dalla nostre sensazioni di caldo e di freddo, dalla constatazione del raffred-darsi di un corpo caldo posto in un am-biente freddo, del riscaldarsi di un corpo freddo posto in un ambiente caldo. Queste esperienze sono successivamente formalizzate nel principio 0 della

Termo-dinamica, nel concetto di equilibrio e di

temperatura, nelle appropriate definizioni operative che saranno date delle varie grandezze (la temperatura misurata dalla dilatazione di un corpo campione, la quantità di calore posta in relazione ai cambiamenti di temperatura, ecc.). È su questo principio e su questi concetti che l’intera teoria viene progressivamente fondata.

Indipendentemente da ogni successiva si-stematizzazione, reinterpretazione o

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luppo, comunque, i concetti della Termo-dinamica, come quelli dell’Ottica o del-l’Acustica, si riallacciano a esperienze pri-mitive, senza riferimento alle quali il di-scorso non si può neppure iniziare.

La Fisica Quantistica

Ancora più evidente la necessità di un appello all’esperienza comune e al lin-guaggio naturale appare nella fisica quantistica.

Degli oggetti quantistici non è possibile dare un semplice modello spazio-tem-porale. Nella Meccanica Quantistica la particella è ancora concepita come un’entità individuale e indivisibile. Essa però non può essere visualizzata come un corpo puntiforme, che descrive una traiettoria continua ed è dotato in ogni istante di una posizione e una ve-locità determinate. Con un fascio di par-ticelle noi possiamo realizzare

esperi-menti di interferenza e di diffrazione che sono appunto in contraddizione con la stessa possibilità di immaginare un pre-ciso percorso per le particelle stesse. In una esperienza del tipo di Young, ad esempio, ottenuta facendo passare il fascio attraverso un diaframma su cui sono praticate due fenditure, non è possibile porsi, neppure idealmente, il problema di quale fenditura sia percorsa da ogni singola particella.

Se non si vuol cadere in contraddizione, è necessario far riferimento esplicito solo agli effettivi esperimenti che si possono eseguire sulle particelle. Si può dire che una particella è passata dall’una o dal-l’altra delle due fenditure, solo se si immagina di aver posto davanti a queste degli strumenti effettivamente in grado di discriminare le due situazioni e questo distruggerebbe l’interferenza.

Sul risultato degli esperimenti, inoltre,

la teoria fornisce solo delle previsioni di carattere statistico, cioè previsioni che si riferiscono alla distribuzione dei risultati nel caso di molte ripetizioni di un dato esperimento nelle stesse condizioni. La possibilità a lungo inseguita di immaginare un qualche ragionevole modello che, attraverso l’introduzione di opportune ulteriori variabili non osservabili (il famoso problema delle variabili nascoste), potesse ristabilire il carattere deterministico della teoria classica si può ritenere ormai sostanzialmente eliminata dai recenti esperimenti di correlazione a distanza legati a un famoso paradosso formulato da Einstein, Podowski e Rosen. Ma cosa significa fare un esperimento su un oggetto microscopico?

Significa evidentemente fare interagire l’oggetto con un apparato o un sistema di apparati macroscopici che possa su-bire, per effetto di tale interazione, delle modificazioni percepibili dai nostri sensi. Secondo Bohr, il dispositivo spe-rimentale e il risultato di un esperimento devono poter essere descritti con il

lin-guaggio della Fisica Classica, cioè

speci-ficandone lo stato attraverso un certo nu-mero di variabili a cui sia possibile at-tribuire, istante per istante, un valore de-terminato, indipendentemente da una loro effettiva osservazione.

Per Bohr questo linguaggio classico è ap-punto il linguaggio della nostra esperien-za ordinaria a cui si dovrà in ultima ana-lisi far riferimento, perché si possa par-lare di esperimento e di risultato di un esperimento.

Qui nasce naturalmente un problema: essendo gli apparati costituiti essi stessi di quelle particelle per descrivere il comportamento delle quali la teoria quantistica è stata creata, deve essere, in linea di principio, possibile applicare la stessa anche ad essi. Per quanto detto d’altra parte, se così facciamo, anche tutte le affermazioni fatte sull’apparato

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ERCORSI DIDATTICI steranno significato solo con riferimento

ad un secondo apparato che sia usato per monitorare il primo e sia descritto classicamente; similmente, se vogliamo applicare la teoria quantistica anche al secondo apparato, dovremo farlo con ri-ferimento ad un terzo apparato. Si genera in questo modo una catena di apparati, ciascuno dei quali usato per monitorare quello precedente che, da una parte deve ricollegarsi alla particella, o al sistema originariamente oggetto del nostro interesse, dall’altra necessaria-mente estendersi fino agli organi di sen-so e al sistema nervosen-so dello stessen-so os-servatore umano. Perché si possano interpretare i risultati, è pero essenziale che questa catena, possa essere suddivisa in due parti, l’una che include l’oggetto originario su cui si voleva fare l’esperi-mento e che viene trattata coi metodi della fisica quantistica, l’altra, che si ri-collega all’osservatore umano, e che deve essere invece descritta con il guaggio classico, che è appunto il lin-guaggio della nostra esperienza. Come e dove possa coerentemente porsi una tale divisione è uno dei punti nodali e sostanzialmente irrisolti dell’in-terpretazione della fisica quantistica. J. Von Neuman, che per primo ha af-frontato questo problema, ha mostrato che, data nell’ambito della Teoria Quan-tistica un’appropriata caratterizzazione dell’apparecchio di misura, la linea di demarcazione tra ciò che si considera oggetto e ciò che si considera apparato può essere arbitrariamente spostata. Resta però il problema del rapporto tra i due tipi di descrizione che Von Neu-mann ritiene di poter risolvere con un appello esplicito a un principio di

pa-rallelismo psico-fisico e all’atto di presa

di coscienza dell’osservatore umano. Una tale soluzione però, anche ammesso che si possa realmente considerarla coerente internamente, appare muoversi in una prospettiva quasi berkeliana in cui solo alla realtà spirituale è in sostanza attribuito un carattere di autonomia; essa non è perciò comunemente condi-visa. All’atto pratico nell’attesa eventual-mente di una modifica o di una rifor-mulazione della Teoria che contenga quella attuale come limite nel caso di si-stemi costituiti di pochi componenti, si può prendere un atteggiamento prag-matico che consiste nell’osservare che per il comportamento macroscopico di un sistema formato da un numero di particelle molto grande essa non è in pratica distinguibile da una teoria di tipo classico.

Comunque la si metta, un riferimento ad una nostra esperienza primaria ap-pare ineliminabile.

Conclusione

Nel mio discorso sono partito da con-siderazioni sulla didattica della Fisica. Il momento didattico mi sembra in ef-fetti significativo, perché è quello un cui noi dobbiamo fondare, costruire il lin-guaggio. Mi trovo di fronte a persone nuove alla disciplina o a un certo capi-tolo della disciplina, persone però che non sono, come ho detto, delle tabulae

rasae, ma che hanno un insieme di

preconcezioni che io devo, dove è neces-sario, correggere ma da cui devo anche necessariamente partire per istituire concetti appropriati, porre nella giusta luce i problemi e mostrare come posso-no essere risolti.

Indipendentemente da ogni riferimento didattico ciò su cui ho voluto insistere è che l’origine dei concetti che sono alla base delle nostre costruzioni scientifiche, è precedente al costituirsi di ogni scienza sperimentale.

Vi sono alla radice di questi concetti esperienze in qualche modo primitive e irriducibili che sfuggono ad un’analisi all’interno delle scienze stesse. Esiste tut-to un retroterra culturale prescientifico da cui occorre partire per la costruzione di qualsiasi concetto scientifico. Come ho sottolineato, per stabilire il lin-guaggio rigoroso e univoco di cui la fi-sica si serve, per fissare i protocolli che sono alla base di ogni esperimento dobbiamo necessariamente usare il lin-guaggio naturale, che è estremamente ricco, ma impreciso, polisemico e in molti casi ambiguo. Il linguaggio scien-tifico nasce da un delimitazione,quasi da una sterilizzazione di espressioni del linguaggio naturale, ma inevitabilmente esso si radica sul significato di quest’ul-timo. Il linguaggio naturale e i suoi si-gnificati hanno, d’altronde, un carattere almeno in parte originario, nascono, cioè, da esperienze irriducibili e in se stesse incomunicabili che ciascuno di noi vive.

Quello che ho cercato di mettere in evi-denza a titolo di esempio in questo ar-ticolo sono proprio le esperienze che sono alla base di alcuni tra i più impor-tanti concetti e capitoli della Fisica Classica e Quantistica.

Giovanni Maria Prosperi Istituto Nazionale di Fisica Nucleare - INFN- sezione di Milano Università di Milano

Un laboratorio scolastico

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