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Una generazione senza memoria Patrizia Paoletti

Nel documento 8 Nuova Secondaria (pagine 108-111)

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IFLESSIONI PEDAGOGICHE E PROPOSTE DIDATTICHE SUL RICORSO ALLA MEMORIA NELL

APPRENDIMENTO DELLA LINGUA STRANIERA

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è la sede delle emozioni che divengono in noi stabili, dell’amore. La psicodina-mica dello sviluppo e delle relazioni ci ha insegnato che nel periodo di età che va da zero a tre anni, abbiamo solo vaghi ricordi di quello che facevamo o non fa-cevamo, ma quel poco che riusciamo a ricordare chiaramente appartiene alla sfera dell’affettività. Ricordiamo una certa persona per il suo forte abbraccio, la sensazione dei capelli accarezzati, il ca-lore o anche solo lo schiocco di un bacio. Infine, ricordiamo ciò di cui ab-biamo fatto esperienza personale e a cui siamo affettivamente legati.

Ora, mentre l’esperienza personale nel suo complesso è una delle condizioni meta-cognitive dell’apprendimento, la memoria resta un fattore che tocca, e pie-no titolo, la sfera cognitiva. Pertanto, che i nostri alunni, soprattutto quelli dell’ul-tima generazione, dimentichino tutto è sintomo di disturbi dell’apprendimento proprio a livello cognitivo. Siedono sui banchi senza sapere né del loro passato né del loro futuro, per lo più impermea-bili a qualunque richiamo, ugualmente indifferenti a tutto; senza alcuna

moti-vazione intrinseca all’apprendimento, molto sensibili piuttosto a ciò che appar-tiene al loro mondo esperienziale: il calcio, i reality shows, le telenovelas o la quantità tecnologica del cellulare o del digitale.

È necessario porsi al loro livello? Certa-mente dobbiamo entrare empaticaCerta-mente nel loro mondo, ma anche attrarli ad un livello ulteriore. Di qui l’importanza di diversificare la didattica e di personaliz-zare la programmazione, in base ai biso-gni dei singoli e del gruppo classe. Ma, di nuovo, che fare in concreto? Comin-ciare con l’osservare quanto sia apprez-zabile, nell’impostazione della recente Ri-forma Scolastica, il passaggio dall’UD all’UA. L’Unità di Apprendimento è

stu-dent-centred, lo studente è al centro

della didassi, e non più la disciplina. Obiettivo della programmazione è la for-mazione del soggetto che deve acquisire i contenuti dell’oggetto da studiare. Si tratta dello studente reale, non dello stu-dente ideale, della nostra immaginazione o dei nostri desideri e dei ricordi del pas-sato. L’UA si basa sullo studente, figlio di questo tempo, con i suoi limiti e i suoi

pregi; e il percorso didattico-educativo viene spostato dal docente con le sue competenze allo studente con le sue ca-pacità e potenzialità. Pertanto la doman-da non è più: “Come insegnare questo ar-gomento?”; ma “Come farlo apprende-re?”. Noi docenti, quando entriamo in classe, diamo per scontato che i nostri alunni sappiano imparare. Non è così: buona parte del loro insuccesso scolastico è dovuto spesso ad un errato metodo di studio nelle singole discipline. Quanti di noi sono disposti a “perdere tempo” su questo punto?

C’è poi un altro aspetto che svolge an-ch’esso un ruolo non secondario nel processo di apprendimento. Per accorger-si del bisogno inespresso di chi ci sta di fronte, è necessario un atteggiamento di ascolto e di comprensione dell’altro, qualità che fino ad ora non venivano for-malmente richieste alla professionalità del docente. Anzi la “neutralità” del docente nei confronti del discente veniva contrab-bandata come deontologia professionale e lo si giudicava pur sempre “umano”, sen-za nulla togliergli, qualora non si mostras-se attento alle problematiche dell’alunno

Vincent van Gogh, Natura morta. Romanzi francesi e una rosa (c. 1888), Collezione privata.

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ITINERARI DIDATTICI PER LE LINGUE STRANIERE

al di fuori della scuola. È un punto di non ritorno: oggi la nostra professionalità non è più considerata in questi termini. E si parla giustamente di “pedagogia degli af-fetti”, se ne sottolinea la valenza didattica e l’utilità per acquisire le competenze pro-fessionali (saper essere, saper fare, saper comunicare)1– o, con linguaggio forse più adeguato, come quello in uso nei do-cumenti dell’Unione Europea e dell’Or-ganizzazione Mondiale della Sanità, Life

Skills (competenze psicosociali, secondo

la traduzione di G. Boda)2.

In realtà il successo formativo dei nostri alunni dipende anche dalla nostra capa-cità relazionale, dalla capacapa-cità di in-staurare un rapporto non superficiale e di costruire un dialogo educativo, che è tale se tiene conto anche delle dinamiche affettive. Ha scritto U. Bronfenbrenner che la facilitazione dei processi di appren-dimento e di sviluppo dipende non poco dalla partecipazione del soggetto a strutture gradualmente più complesse di azione cooperativa con un altro soggetto, nei cui riguardi egli abbia maturato un attaccamento affettivo intenso e conti-nuo. Inoltre, il conseguimento da parte dell’alunno di certe abilità strumentali (anche solo il leggere) può dipendere più che dalle modalità didattiche, dai rappor-ti esistenrappor-ti tra scuola e famiglia e dalla na-tura di tali rapporti3.

Quanto all’importanza della memoria e al suo ruolo nel processo di apprendi-mento di una lingua, un autorevole sug-gerimento ci viene dato da un geniale educatore, Caleb Gattegno e da quell’ap-proccio all’insegnamento che egli ha chiamato “subordination of teaching to

le-arning” (subordinazione

dell’insegna-mento all’apprendidell’insegna-mento). L’insegna-mento della lingua viene qui visto all’ori-gine come un modo per relazionarsi al-l’apprendimento dei nostri studenti, at-traverso la presentazione di una teoria, di una poesia, o anche di una cattedrale o di un semplice sorriso. Molto interessan-te, inoltre, è la sua teoria, sull’approccio adeguato per l’insegnamento delle lingue, che lo stesso autore ha ideato e proposto di chiamare The Silent Way. Ecco una ci-tazione diretta che ne porta a sintesi il sen-so complessivo e specifico: “Il silenzio è un mezzo pedagogico e vuol dire che l’in-segnante non prende il posto dei discenti dicendo loro o rivelando prima qualun-que cosa essi già conoscano o possano co-noscere e immaginarsi da soli”4. Cosa fare allora perché migliori l’appren-dimento dei nostri studenti anche grazie al ricorso alla memoria? Ci soccorre ancora, per rispondere adeguatamente, lo stesso C. Gattegno, laddove, nel para-grafo sulla memorizzazione del vocabo-lario, tratta l’argomento presentando una lista di parole che chiama “il voca-bolario funzionale”: un insieme di “pa-role che generano la grammatica della lingua”. Con questa lista di parole è pos-sibile generare una grande quantità di di-scorsi con un vocabolario ristretto; e lo stesso vocabolario funzionale fornisce in-dizi quanto a fare “di più con meno”. Se si introducono parole supplementari, ha luogo l’espansione del vocabolario, in-tensificata dagli interessi e dall’immagi-nazione dei discenti. I discenti investono la quantità richiesta di energia per regi-strare e trattenere le parole e le frasi;

l’ac-cresciuta sensibilità per la melodia della lingua (§1) e il comportamento della lin-gua (§2) li aiuta a memorizzare le parole. I significati, se ci sono già o quando ven-gono presentati, aiutano tanto a memo-rizzare quanto a richiamare le parole che uno ha registrato5.

A proposito di esercizi sulla memorizza-zione delle parole nuove, mi permetto di rammentare anche qualche gioco lingui-stico che ci consigliava Caroline Bonelle, in uno dei suoi coinvolgenti seminari te-nuti in Italia per conto della Burlington Books. Uno di questi si chiama “gram-nam” (anagramma grammaticale) e viene fatto all’inizio della lezione per ri-chiamare alla mente quanto appreso, scrivendo alla lavagna l’anagramma delle parole riguardanti la lezione o le le-zioni precedenti. Ma poi la nuova lezione continua, facendo inventare altri ana-grammi, assegnando un limite di tempo e dividendo la classe in gruppi. Se a que-sto gioco linguistico aggiungiamo qual-che accorgimento suggerito dall’inven-tore del Silent Way, l’insegnante diventa uno di loro ed è chiamato ad indovinare le parole scritte alla lavagna dagli alunni stessi. Dalle singole parole si passa poi alla struttura grammaticale usata per quella determinata funzione linguistica a scopo comunicativo.

Non è un modo molto accademico di in-segnare, ma di sicuro è un modo molto più coinvolgente, rassicurante, proficuo e anche più umano di apprendere la L2, soprattutto in ambienti culturali dove la madre lingua non è la L1.

Patrizia Paoletti I.P.S.S.A.R, Palermo

1. Vd. la tabella Competenze Professionali in B. Rossi,

Pedagogia degli affetti, Laterza, Bari 2002, p. 138.

2. G. Boda, I giovani e il gruppo dei pari, sottotema 3.2 del tema

n.3 “I giovani e la loro cultura” per il corso di formazione in rete @indire.it, MIUR, A.S. 2001-02.

3. A tal proposito si consulti la tabella: “La gestione delle

dinamiche affettive. Paradigmi metodologici” in B. Rossi,

Pedagogia degli affetti, cit., pp. 120-121.

4. Cfr. http//www.htlmag.co.uk/jul02/mart1.htm, S. Gattegno,

“Teaching- a Way of Relating”, Major Article in Humanising

Language Teaching Magazine, 4.4, July 2002, p. 6/17 e

8-9/17.

5. «§3 Vocabulary. C. Gattegno deals with this aspect by

presenting a set of words he calls ”the functional vocabulary”. This consists of “the items that generate the grammar of the language”. With this set of words it is possible to generate “a lot of language with a little vocabulary”. The functional vocabulary itself provides clues as to how to do

“more with less”. Additional words are introduced and expansion of vocabulary takes place, prompted by the interests and imagination of the learners. Learners invest the required amounts of energy to register and retain the words and phrases. Their enhanced sensitivity for the melody and the behaviour of the language helps them retain the words. Meanings, if they are already there, or as they are introduced, help in retaining as well as recalling the words one has registered» (Ivi, p. 14/17).

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Datazione

Tradizionalmente datato 1603 o 1604,

Otello fu sicuramente scritto tra il 1601

e il 1604, anno in cui si registra la prima rappresentazione di cui si abbia memoria (1 novembre 1604, terminus ante quem). Honigmann fa risalire la stesura alla pri-ma metà del 1602, se non addirittura alla fine del 16011.

Otello condivide con le altre tragedie ma-ture alcuni motivi centrali dell’opera di

Shakespeare e si colloca cronologica-mente dopo Amleto (1600) e prima di Re

Lear (1605). I temi della conoscenza e

del-la pazzia, del rapporto tra apparenza e realtà, sviluppati con taglio paradossale, accomunano le tre opere e rivelano il suo intento a indagare la natura del vero, al

di là del senso comune. Se con Re Lear Shakespeare rappresenta un’epoca scossa dalla disgregazione dell’ordine socio politico consacrato, e nell’Amleto con-danna la corruzione morale del ‘body politic’2, in Otello il discorso politico, pur presente3, passa in secondo piano, per dare spazio all’indagine del processo psi-cologico della comprensione e del giu-dizio sul reale, e a quanti e quali elementi ne ostacolano la visione.

Fonti

La fonte principale dell’opera è la settima novella della terza decade degli

Hecatom-miti di Gian Battista Giraldi Cinzio,

scrit-ta nel 1565, la cui trama Shakespeare se-gue abbastanza fedelmente, a parte il pri-mo atto, e fatta eccezione per una serie di accorgimenti e invenzioni che rendo-no Otello tragedia di inusuale comples-sità psicologica e intencomples-sità emotiva. Shakespeare forse seguì la traduzione

LINGUE, CULTURE E LETTERATURE

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