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Alessandro Verri nel Caffè (1764-1766)

3. Dalla grande impresa storiografica al Caffè

3.2. Alessandro Verri nel Caffè (1764-1766)

La polemica col Facchinei costituì di fatto una parentesi che vide impegnati i due massimi redattori del Caffè ed è assai significativa nel mettere in luce una delle caratteristiche pregnanti della rivista stessa, quella «calda appassionata amicizia» di cui ha scritto il Fubini,209 che si manifesta nell’immediata difesa, e nella volontà di combattere con le armi della scrittura – mai offensiva, quanto invece a tratti ironica e corrosiva – quei pregiudizi che si opponevano alla “pubblica felicità”. Sulla genesi, i modelli e le caratteristiche del Caffè, tanto si è scritto e discusso, che converrà qui limitarsi alle notizie essenziali, e al ruolo specifico che in esso ebbe Alessandro Verri, ruolo che l’edizione a cura di Francioni e Romagnoli mette ben in rilievo grazie soprattutto alla pubblicazione di appunti e materiali verriani di preparazione al periodico.210

La rivista, com’è noto, iniziò le sue pubblicazioni col numero del primo giugno 1764. Come ha messo in luce lo stesso Francioni, a quella data erano compiuti i manoscritti almeno dei primi nove fogli, la cui stesura va dunque riportata ai primi mesi di quell’anno.211

La scelta del luogo, e del tipografo, Gian Maria Rizzardi, presentava il doppio vantaggio di «poter stampare puntualmente i fogli al riparo dalla censura milanese ed evitare gli inconvenienti che avrebbe comportato una tipografia troppo lontana dalla sede dei collaboratori».212 Nell’agosto del 1765 al Rizzardi si sostituì il tipografo milanese Galeazzi, che però mantenne la falsa data di Brescia. La tiratura fu di cinquecento esemplari, che uscivano ogni dieci giorni, con un prezzo di abbonamento annuale fissato in uno scudo (sei lire milanesi).213 Il Caffè si rifaceva per tono e per taglio degli articoli a due grandi modelli europei, uno fuori dal giornalismo, le già citate Lettres persanes, l’altro invece da

207 Lettera di Morellet a Beccaria del 3 gennaio 1766, citata in ivi, p. 343.

208 Cfr. la lettera di Alessandro a Pietro del 29 dicembre 1766, in Viaggio a Parigi e Londra, cit., pp. 180-181: «quanto

alla dissimulazione letteraria, non riceveva egli a Parigi le lodi che venivano date all’Apologia della sua opera senza mai darne alcun pregio a te ed a me, che ne siamo i veri autori? Di cento volte ch’io ho sentito a lodargliela in mia presenza, una sola volta l’ho sentito dire: bisogna che confessi che i miei amici mi hanno aiutata a farla. E perché l’ha detto? Perché le lodi crescevano a dismisura, ed io era in circolo e tacevo ed era faccia a faccia a Lui, ed egli lasciò scappare che l’Apologia l’ebbe fatta in soli cinque giorni». Pietro rispondeva il 20 gennaio 1767 (p. 195) sostenendo come attraverso tale «anecdota» apparisse chiaro ormai come Beccaria sia «disposto non solamente a non proccurarmi della gloria, ma a celarmi, a rubarmi la gloria mia».

209 M. Fubini, Pietro Verri e il «Caffè», in La cultura illuministica in Italia, a cura di Id, Torino, ERI, 1957, pp. 102-

119, p. 106.

210

L’edizione già citata, contiene infatti una preziosa Appendice. Il portafoglio del «Caffè», in Caffè, cit., pp. 805-74, che presenta di tutti i collaboratori, ma soprattutto di Alessandro, idee per articoli, saggi brevi mai pubblicati, e vario materiale preparatorio.

211

Cfr. Francioni, Storia editoriale del «Caffè», in ivi, pp. LXXXVII-XC.

212

Ivi, p. LXXXIV.

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«considerarsi il vero e proprio archetipo di tutti i fogli europei di qualche ambizione letteraria e “filosofica” del Settecento»,214

lo «Spectator» di Addison e Steele (1711),215 citato nella già menzionata lettera di Beccaria al Morellet, che descriveva per altro lo scopo stesso che il periodico rivestì per i Pugni:

Persuadé avec mes amis que les ouvrage périodiques sont un des meilleurs moyens pour engager les esprits incapables de toute application forte à se livrer à quelque lecture, nous faisons imprimer des feuilles à l’imitation du «Spectateur», ouvrage qui a tant contribute à augmenter en Angleterre la culture de l’esprit et les progrès du bon sens.216

A differenza del modello inglese, che escludeva programmaticamente ogni presa di posizione politica, l’impresa di Verri e compagni era ispirata dal senso dell’imminente «successo pratico di un’impresa tanto più esaltante e urgente, quanto più favorevole si presentava l’occasione storica»: un chiaro scopo politico che, assai più avvertito rispetto al giornale della più potente e industriale città dell’Europa moderna, rendeva l’impresa giornalistica del Caffè un unicum nel panorama italiano del secondo Settecento.217 Se la redazione del periodico coincise essenzialmente con il gruppo dei Pugni, assai diverso risultò l’apporto dei singoli collaboratori: Alessandro scrisse un totale di trent’uno articoli (quindici per il primo tomo, sedici per il secondo), superato solo da Pietro (che ne sfornò quarantaquattro), mentre assai più sporadica risultò la collaborazione degli altri membri, con una produzione media che va dai sette ai cinque articoli (Beccaria, Franci, Visconti e Secchi) fino a due (Longo, Frisi e Lambertenghi). Come ha sottolineato Capra, cui appartiene la messa a punto della statistica su citata, «anche senza di loro la rivista meriterebbe la definizione che è stata data, di “vivace spicciola enciclopedia”; tale è la varietà di argomenti e di toni che caratterizza la produzione giornalistica dei fratelli Verri, dalla divulgazione scientifica alla creazione fantastica, dagli interventi polemici e satirici alle ponderose discussioni giuridiche, dai “pensieri staccati” agli apologhi e i dialoghi con i lettori, (reali o immaginari)».218

È noto come Pietro Verri non fu solo lo scrittore più presente quantitativamente sulla rivista e l’animatore, anche amministrativo, di tutta l’impresa: egli assunse inoltre anche il ruolo di revisore dei manoscritti degli altri collaboratori, eliminando sistematicamente tutto ciò che potesse trovare l’opposizione del censore, «ogni elemento che toccasse la sfera dei costumi, soprattutto sessuali, la religione e

214 F. Fido, L’illuminismo centro-settentrionale e lombardo. Pietro e Alessandro Verri. Cesare Beccaria, in Storia della

letteratura italiana, diretta da E. Malato, Vol. VI. Il Settecento, Roma, Salerno, 1998, pp. 46-115, p. 82.

215 Il periodico inglese compariva del resto nel documento già citato della lista di materie: AV 485. 1. 216 La lettera è citata in Beccaria, Dei delitti e delle pene, cit., p. 365.

217

Ancora fondamentali le considerazioni in questo senso contenute in V. Castronovo, G. Ricuperati e C. Capra (a cura di), La stampa italiana dal Cinquecento all’Ottocento, Roma, Laterza, 1986, pp. 209 e ss.

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l’azione del governo: i pilastri, cioè, dell’Antico Regime».219

Dal periodico venivano dunque consapevolmente escluse dagli indici delle due annate proprio le caselle “politica” e “religione”. L’indisponibilità ad affrontare siffatti argomenti era, comunque, una caratteristica condivisa da molti altri periodici laici della penisola, sulla quale, com’è stato notato, agivano complessi meccanismi di censura e autocensura: da un lato la censura degli stati, «che ormai ovunque avevano sostituito quella ecclesiastica»,220 dall’altro l’autocensura degli stessi giornalisti militanti, che consapevoli dei propri compiti educativi e di cambiamento dei valori morali della società, non potevano «urtare frontalmente la coscienza religiosa tradizionale del pubblico»; il problema religioso era essenzialmente un «fatto privato»221 e, come tale, doveva interessare solamente la coscienza del singolo, con conseguente autocensura nel trattare teologicamente di religione.222 Tutto ciò, comunque, non impediva agli stessi intellettuali la denuncia delle contraddizioni più evidenti della stessa religione istituzionale sul piano socio-politico, secondo l’idea di un cattolicesimo austero e di una religiosità «ragionevole e moderata»223 depurata dagli aspetti più sensibili ed

esteriori che, condivisa dalla stessa Maria Teresa,224 pervadeva tutta la Lombardia asburgica. Era, questa, una linea abbracciata da vari esponenti dell’intellettualità italiana della seconda parte

del secolo e dai riformatori moderati che trovarono «una sorta di concordia discors nella necessità di un intervento riformatore sulle strutture ecclesiastiche in nome del “pubblico bene” e, al contempo, della purezza della religione»:225 una scelta moderata che appariva evidente sia nella politica culturale del Caffè, che tagliava risolutamente fuori le linee più radicali in senso ateo e materialistico dell’Illuminismo europeo,226

sia nello stesso Saggio di Morale Cristiana verriano, laddove Alessandro, pur polemizzando con la componente irrazionalistica che caratterizzava gli eccessi del credo e della pratica religiosa, considerata soprattutto nei suoi risvolti superstiziosi, mai

219 R. Pasta, Per una rilettura de «Il Caffè», 1764-1766, «Rivista storica italiana», CVII, fasc. 3, 1995, pp. 840-857, p.

852. Inoltre specifica l’autore come questa cautela verriana confermi il «persistere, ancora alla metà degli anni Sessanta, di condizionamenti mentali e istituzionali severi all’attività intellettuale, pur in un clima in cui si andavano allargando i margini di libertà del discorso».

220 G. Ricuperati, Politica, cultura e religione nel giornali italiani del Settecento, in M. Rosa (a cura di), Cattolicesimo e

Lumi nel Settecento italiano, Roma, Herder Editrice e Libreria, 1981, pp. 49-76, p. 62.

221

Ivi, p. 63.

222

Un qualche riserbo verso le questioni più delicate della religione si avverte nello stesso Saggio (AV, pp. 4-5): «Due fondamenti principali, su cui appoggiasi la religione sono l’amore di Dio, e l’amore del prossimo. L’uno stabilisce i rapporti fra Dio e l’uomo, l’altro fra l’uomo e l’uomo. Di quell’amore che dobbiamo all’essere creatore mio pensiero non è di parlare, e perché egli è alieno dal mio argomento, non avendo immediato rapporto colla morale umana, e perché lo scrivere degnamente su di un sì alto soggetto è riserbatoa que’ pochi, a’ quali è concesso d’accostarsi più del comune alla divinità.»

223 Ricuperati, Politica, cultura e religione nel giornali italiani del Settecento, cit., p. 38. 224 P. Vimara, Settecento religioso in Lombardia, Milano, NED, 1994, p. 21.

225

C. Donati, Dalla “Regolata Devozione” al “Giuseppinismo” nell’Italia del Settecento, in Rosa, Cattolicesimo e

Lumi, cit., pp. 77-98, p. 93. L’autore riconosce inoltre nel Muratori, autore Della regolata devozione de’ Cristiani

(1747), il primo esponente di tale corrente moderata, che riteneva che «il compito dell’uomo di lettere non fosse soltanto il ristabilimento della verità storica, ma anche la critica e la correzione dei mali della società civile ed ecclesiastica, dei quali la ricerca erudita aiutava a rintracciare le cause» (ivi, p. 79).

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prescindeva dalla fiducia e dal rispetto verso i dettami della fede.227 Non secondaria conseguenza di questa linea sarà lo stupore e lo sconcerto provato poi a Parigi, di fronte alle punte più estreme della

coterie filosofica al seguito del barone D’Holbach.

Così, se negli articoli del fratello, Pietro intervenne solo su minute questioni di natura formale, soprattutto nei tre grandi articoli del secondo tomo (Saggio di legislazione sul pedantismo,

Di Giustiniano e delle sue leggi, e il Ragionamento sulle leggi civili),228 nei confronti degli altri collaboratori il Verri fu attento a eliminare tutto ciò che potesse apparirgli in qualche modo compromettente, come nel celebre caso dell’articolo del Carli sulla Patria degli Italiani, che subì modifiche «acciocchè non s’interpreti da’ nostri nemici che si voglia rendere odiosa la straniera dominazione in Italia».229 Anche Alessandro si assunse, seppur in misura minore, l’onere di rivedere e ove necessario correggere gli articoli degli altri pubblicisti, soprattutto nella seconda annata, dove il suo intervento coinvolse anche la scrittura dei commenti volti ad eliminare gli spazi vuoti tra un articolo e l’altro, come già fece Pietro per la prima annata. Emblematico del modo di procedere di Alessandro Verri in veste di revisore, è ad esempio il caso dell’articolo di Sebastiano Franci, Osservazioni sulla questione se il commercio corrompa o no i costumi e la morale: Alessandro intervenne da un lato sulla struttura formale del saggio, trasformando il dialogo iniziale in un flusso di riflessioni, dall’altro eliminò per prudenza il riferimento diretto a Rousseau, pur mantenendo fermo il senso del suo pensiero.230 Infine proprio a seguito dell’articolo del Franci il Verri inseriva un commento al testo, finalizzato a creare una sorta di tessuto connettivo, emulando così il lavoro “redazionale” di Pietro. Già da quest’esempio il ruolo di Alessandro nel periodico risulta pertanto assai più complesso di quello di un semplice collaboratore. Il materiale preparatorio che i curatori pubblicano nell’Appendice permette però qualche altra considerazione, almeno rispetto alle sue stesse modalità di lavoro. Emergerebbe, in primis, una progressiva e instancabile revisione, soprattutto di natura stilistica, che investe persino la copia calligrafica, dando vita a più versioni dello stesso saggio, specie nei casi dall’autore ritenuti più considerevoli, specificatamente i grandi contributi dedicati alla revisione e dissacrazione del sistema giurisprudenziale romano: oltre alla revisione autografa, persino Pietro rileggeva il testo, per eventualmente ricorreggerlo.231 È questo un iter elaborativo, caratterizzato da più stesure del medesimo saggio sulle quali intervenire

227 AV 484.3, p. 50: «Se le opere dell’infinita sapienza non fossero invariabili, ed incorruttibili la Religione cristiana

avrebbe molto da temere dall’ipocrisia e dalla superstizione, e l’una e l’altra tendono a distruggerla per strade diverse, che vanno al medesimo scopo, ed è di toglierla dalla mente e dal cuore per sostituire alla interna onzione la sola apparenza.»

228

Cfr. i rispettivi apparati critici in Caffè, cit., pp. 880-881; 891, e p. 965.

229 Pietro Verri al Carli, lettera del 23 marzo 1765, citata in Capra, I progressi della ragione, cit., pp. 220-21. L’articolo

si legge in Caffè, cit., pp. 421-27.

230

Cfr. l’apparato critico dell’articolo in Caffè, cit., pp. 979-80.

231

Segue questa dinamica ad esempio Il Ragionamento sulle leggi civili, che si legge in ivi, pp. 571-606, di cui si veda l’apparato critico alle pp. 942-66.

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a più riprese, che si rivelerà caratteristico del Verri, specie per le traduzioni e i romanzi del periodo romano. Inoltre, l’elaborazione di una serie di idee per articoli (Appunti di Alessandro Verri: idee

per articoli),232 che solo in parte daranno vita a saggi compiuti, ma che invece saranno sfruttate da altri collaboratori, dimostrando una varietà di interessi che spaziano dal diritto pubblico alla filosofia, dalla letteratura alla critica di costume e alla morale. Sottolinea il Romagnoli che i due anni di attività pubblicistica furono per il Verri «anche un’inquieta ricerca delle proprie attitudini intellettuali, che si manifestò nella varietà inquieta degli argomenti affrontati»,233 rivelando al contempo anche una «forte determinazione a partecipare al Caffè non come un mero collaboratore, ma da protagonista».234

Su alcuni articoli di Alessandro, e su specifiche questioni in questi affrontati, si avrà modo di tornare anche nel corso dei capitoli successivi, costituendo essi una piattaforma biografica e ideologica fondamentale per cogliere le radici culturali di molti elementi che caratterizzeranno il percorso intellettuale verriano. Ci sembra più utile qui fornire un’esaustiva rassegna dimostrativa affinché si possa definire il ruolo che egli ricoprì nella rivista.

«Protestiamo che useremo ne’ fogli nostri di quella lingua che s’intende dagli uomini colti da Reggio di Calabria sino alle Alpi; tali sono i confini che vi fissiamo, con ampia facoltà di volar talora di là dal mare e dai monti a prendere il buono in ogni dove».235 Una tale «prospettiva italiana del progetto culturale dei milanesi» fa da motore all’interna discussione linguistico-letteraria promossa da Alessandro nel periodico, ed è stata giustamente indicata come «propedeutica all’intera battaglia per il rinnovamento della cultura».236

Si trattava di promuovere una lingua chiara e immediata, comunicativa e sovramunicipale - come lo era stata già quella Dei delitti e delle pene - capace di essere intesa da un pubblico specialistico e non, «giacchè non si deve scrivere o stampare che per far sapere a quanti più si può quello che sappiamo noi».237 Da qui la messa in crisi, condivisa da tutti i caffettisti, della paradigmaticità stessa dell’autorità toscana tre-cinquecentesca, promossa e imposta dalle autorità lessicografiche conservatrici, in primis la Crusca, che con i suoi precetti andava ad ostacolare appunto quel “volo” al di là del mare e dei monti per «prendere il buono, quand’anche fosse ai confini dell’universo».238

Era la legittimazione teorica degli imprestiti da altre lingue, in particolare quella francese,239 considerati come necessari laddove «qualche

232 Ivi, pp. 811-13.

233 Romagnoli, «Il Caffè» tra Milano e l’Europa, in ivi, pp.

XIII-LXXIX,p. XXXVI.

234 Francioni, Storia editoriale, cit., p.

CXLI.

235 A. Verri, Rinuncia avanti notaio degli autori del presente foglio periodico al Vocabolario della Crusca, in ivi, pp.

57-50, pp. 49-50.

236 Pasta, Per una rilettura de «Il Caffè», cit., 867.

237 A. Verri, Saggio di legislazione sul pedantismo, in Caffè, pp. 134-40, p. 137. 238

A. Verri, Rinunzia avanti notaio, cit., p. 49.

239

Premessa teorica coerente con quanto rinviene la puntuale analisi linguistica di L. Bellomo, che rileva nella prosa del

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vocabolo» «esprimesse un’idea nostra meglio che colla lingua italiana»:240 e contro i conservatori Alessandro rispondeva seguendo una rigorosa analisi storica, citando coerentemente persino il Bembo delle Prose della volgar lingua:

Io mi rallegro de’ progressi nostri, ascoltando chi c’incolpa di francesizzare. Oh il bel delitto ch’è quello d’avere lo stile de’ gran scrittori del secolo di Luigi XIV. […]Al tempo massimamente di Caterina de’ Medici, i nostri autori erano in mano delle più colte persone in Parigi. Restituimmo loro con usura ciò che i Provenzali ci avevano dato. Da ciò ne venne che molte maniere francesi s’introdussero da noi, come molte frasi nostre ne’ Francesi. Il che ha fatto che molti modi affatto francesi ritrovansi. Non prendiamo che il Boccaccio, il più elegante nostro prosatore, e vedremo la verità di tal fatto. Egli usa il termine avere in vece di essere, il che è proprietà della lingua francese; ed i Provenzali la introdussero nella nostra, come riflette il Bembo. Quante miglia ci ha? haccene più di milanta. Ebbevi di quegli che intender vollono alla milanese.

Comechè poche ve ne abbiamo. Tutti i nostri scrittori riboccano di cotal frase, ella è comunissima.241

Il nucleo ideologico soggiacente la polemica linguistica era quell’«astrattismo astrattizzante», secondo la nota formula di Mario Puppo, col quale si indica quel prevalente interesse per le “cose”, le idee, il contenuto astratto, che rende l’autore meno sensibile alle “parole”, ai valori espressivi storicamente determinati (sintetizzato nel celebre motto «cose e non parole»).242 Se ciò veniva condiviso da altri celebri novatori, in primis dall’Algarotti,243 occorre precisare che ciò non significasse un rifiuto aprioristico e superficiale delle belle regole dello scrivere, né della retorica in

toto: «Dovrassi dalla studiosa gioventù prima d’ogni cosa dar buon ordine alle proprie idee,

avvezzarsi a far uso della ragione e a sentire la verità a preferenza della autorità d’opinione, e poi sarà loro concesso di seriamente occuparsi, se il vogliono, della ortografia e della lingua; ma non mai cominceranno da quest’ultime, attese che sono sterili facoltà, serve e non padrone de’ nostri

pensieri».244

Ciò con cui il Verri, come l’Algarotti, polemizzava era in realtà la pratica centonistica, l’imitazione servile e pedissequa, mirando a colpire non i grandi autori della tradizione, ma quelle grammatiche che avevano smembrato la loro lingua in piccole particelle da imitare indiscriminatamente,

vengono quasi esclusivamente dalla lingua francese e «sono accolti per la loro pregnanza, per la loro capacità di esprimere una determinata idea meglio di quelli già a disposizione»: cfr. Id., Dalla “rinunzia” alla Crusca al romanzo

neoclassico. La lingua di Alessandro Verri in Caffè e Notti romane, Firenze, Cesati, 2013, specificatamente le pp. 252-

69. La citazione è a p. 252.

240 A. Verri, Rinunzia avanti notaio, cit., p. 49.

241 Id., Dei difetti della letteratura e delle loro cagioni, in Caffè, pp. 539-60, pp. 543-44.

242 M. Puppo, Introduzione a Id. (a cura di), Discussioni linguistiche del Settecento, Torino, UTET, 1957, pp. 9-100, pp.

38-40.

243

Nel dicembre del 1760 l’Algarotti scriveva da Dresda a Voltaire della necessità di mostrare «a’ nostri uomini di lettere un nuovo genere di poesia, che sotto i fiori delle parole asconda frutti di cose; e con tal confronto vedranno di per loro che per la più parte non fanno altro che sfrondare del bel lauro del Petrarca alcuna foglia secca in qua e la», in Bonora (a cura di), Illuministi italiani II. Opere di Francesco Algarotti e di Saverio Bettinelli, Napoli, Ricciardi, 1960, p. 550.

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compromettendo la libertà e l’individualità della creazione artistica: «Una buona grammatica deve più insegnare a sfuggire gli errori di lingua che insegnare tutti i modi, le frasi, la sintassi e le pretese grazie di essa. Questo è un affare di sentimento, che colla lettura de’ buoni autori si deve imparare, non cogli inviluppati, molti e secchi precetti che legano più che aiutano».245 La critica del momento, lo scopo e i modelli stessi del Caffè, potevano portare ad un’alquanto sbrigativa liquidazione di alcuni autori, ma non si tratta di una squalifica dei modelli della tradizione,246 né di un rifiuto netto