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Le tempetes de resonements e l’emergere del disincanto

IL GRANDE VIAGGIO E IL PRIMO SOGGIORNO ROMANO (1766 1768)

2. Parigi e la coterie filosofica.

2.1 Le tempetes de resonements e l’emergere del disincanto

Come si è accennato, le prime lettere di Alessandro Verri scandiscono una disposizione positiva verso il costume delle grandi personalità incontrate, che appariva specchio di una sociabilité libera e franca, amicale, lontana dalle bassezze e dalle invidie che il Verri riscontrava come caratteristica precisa dell’intellettuale accademico italiano. Si legga ancora un passo della lettera del 27 ottobre 1766:

In generale questi letterati sono buonissima gente, e quello che più di tutto mi par lo provi è che vivono assieme e sono amici. Le persecuzioni che hanno sofferte contribuiscono certamente a condensarli, ma senza bontà di cuore non avrebbe bastato a questa costante unione una esterna cagione. Un’altra prova della loro bontà è il disputare di sbalzo e senza nessuna precauzione su di ogni oggetto fra di loro. Non temonsi, non sono sospettosi. Questa franchezza prova molto. Talmente è ciò vero che per lodarsi fra di essi o per lodare un terzo non cominciano già per dire ei sa la fisica o ‘l calcolo, ma il est tout à fait bon garzon; il est bon

homme; ils sont des bons gens, come ci dicono a noi; e queste frasi si direbbero di d’Alambert, di Didereau e

di qualunque grand’uomo, nel tempo che lo rispettano assalissimo. 107

D’altronde, la cerchia enciclopedica, così come ci è descritta, rivelava affinità con il gruppo milanese, caratterizzato da quell’atmosfera «di calda e appassionata amicizia», ricorda il Fubini, che sembrava già «l’annuncio o l’inizio di una nuova società, […] fondata non su obblighi e doveri imposti da una tradizione passivamente e forzatamente accettata, ma sulla libera elezione del “cuore”, sulla fiducia nell’efficacia di un comune lavoro».108

Per i philosophes la conversazione

105 La lettera, datata 19 maggio 1792, è riportata nelle nota di Gaspari, ivi, p. 546. 106

F. Cicoira, Alessandro Verri, p. 35.

107

Viaggio a Parigi e Londra, cit., p. 48.

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stessa era in primo luogo un metodo di pensiero,109 e quella che si teneva nella casa del barone d’Holbach era non solo «la plus animée et la plus instructive qui fût jamais», come riferisce entusiasta il Morellet, ma estremamente variegata e numerosa, sia rispetto agli argomenti trattati (come suggerisce lo stesso Alessandro) sia rispetto agli ospiti che vi partecipano, e la libertà dei discorsi e la disparità delle opinioni si accompagnavano a una «parfaite tolérance».110 Anche per Verri, nelle riunioni pregio massimo della coterie era il sommo rispetto e il riconoscimento dello «spirito altrui», laddove «ascoltano ancor volentieri, e con aria di stima»,111 e tali considerazioni nascevano da una costante riflessione, maturata durante gli anni del Caffè, dei caratteri propri di una virtuosa socialità, alla quale la neonata società dei Pugni intendeva rifarsi, e che veniva proposta come modello essenziale da emulare nelle pagine della rivista.112

Il problema nasceva progressivamente, oltre che da incompatibilità di temperamenti, dalla scoperta libertà di tono e dalla foga del conversare, che Verri rilevava intimidito fin dall’inizio:

Io veramente nel sistema attuale mi annoio nella Società. Non sono al primo rango, sono timido, isolato, incerto sull’esito delle cose; parlo poco. Veramente i francesi sono chiacchieroni terribili. Vogliono parlare di tutto, filosofare di tutto, e portano nella conversazione la declamazione teatrale. Disprezzano la ragione mentre che sembra che ne vadino in traccia. Basta che non manchino parole alla conversazione, il che non succede mai: non importa come si parli.113

Il tono diviene un metro di giudizio, attraverso il quale si cominciano a giudicare i filosofi francesi: se Diderot «declama sempre, è caldo, caldo in tutte le cose della conversazione»,114 D’Alembert è invece «l’ottimo massimo Filosofo, semplice e amabile nella conversazione come un angelo»,115

«l’uomo massimo del Paese», perché «ha del genio e non conosce il fanatismo. Si confondono qui talvolta queste due cose».116 Come è stato sottolineato, «l’ardore de l’engagement militant chez les philosophes, l’arme par excellence de la propaganda philosophique, lui apparâit comme un excès

109 Cfr., B. Craveri, La civiltà della conversazione, Milano, Adelphi, 2001, pp. 483 e ss. 110

Mémoires del’abbé Morellet, cit., p. 130 e 133.

111

Lettera di Alessandro al Carli, p. 67.

112 Si veda l’articolo di Pietro Verri, La buona compagnia, in Il Caffè, p. 446:«Ognuno m’accorderà facilmente che si

dia la buona compagnia e che si trovi la cattiva compagnia; ma se dovessi raccogliere le diverse definizioni che ciascheduno dovesse dare di queste due diverse sorti di società, troverei un vero caos. Riduciamole però ai primi elementi. Ognuno chiama buona compagnia quella dove passa bene il suo tempo, cattiva quella dove lo passa male, e ognuno passa bene il suo tempo dove non resti offeso il suo amor proprio e lo passa male dove all’incontro l’amor proprio venga offeso».

113 Viaggio a Parigi e Londra, cit., p. 39. 114

Ivi, pp. 24-25.

115 Ivi, p. 48.

116 Ivi, p. 118. Lo ricorderà positivamente anche a Roma, con parole che risultano di grande interesse: «D’Alembert è

un uomo, che, oltre la superiorità del merito letterario, è anche, il che è cosa buona assai, uomo di grande giudizio nel vivere, ed è molto accorto. Non si è riscaldato la testa, come gli altri, che hanno sacrificata la loro tranquillità e fortuna per opporsi alle opinioni altrui». (Carteggio Verri, vol. IV, p. 184, lettera del 13 aprile 1771).

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dangereux»,117 mentre l’esasperazione degli entusiasmi e delle passioni a dispetto di più moderati e riflessivi ragionamenti, è registrato di continuo («Niente di mezzo. Qui tutto è o aimable o

charmant, o detestable et effroyable. […] In ogni cosa v’è un caldissimo spirito di partito»).118

Alessandro si trova immerso in «questi gran vortici formati dalle vive e tumultuanti passioni»119 ove impera «uno spirito disputatore» che, confessa, «mi si attacchi alcun poco»: vere «tempetes de

resonement»,120 ove persino la ragione appare bistrattata.121 Da qui la ricorrente accusa di superficialità delle conversazioni e dei commenti ivi espressi, che si traduce in un giudizio senza appello, il quale da Londra definirà ormai i termini di un’avvenuta disillusione:

Generalmente io vi dirò che que’ Signori sono tutti massimi Filantropi ed uomini buoni e benefici al sommo, ma che, quanto alla precisione del ragionare, in quante dispute io vedeva tutti li giorni, erano tutti superati di gran lunga nella Logica da Beccaria, che sovente riduceva a minimi termini un mare di parole e di sragionamenti, e né d’Alambert istesso né tutti gli altri, per quanto io ho ascoltato, hanno la sua precisione, né la vostra né, fors’anche dirò modestamente, la mia.

E aggiungeva, per placare un così temerario e brusco giudizio:

Ciò che li rende rispettabilissimi è il cuore, l’umanità, la semplicità loro. In questo meritano adorazione.122

È ancora Carpetani Messina a suggerire che l’esaltazione «qu’il découvre sous l’amicale bonhommie de ses hôtes lui parâit de la frenesie et la source d’une aggressivité sans limites. Lors des débats sur le questions religieuses, les philosophes lui semblent animés d’un “enthousiasme” qui fries le “fanatisme”».123

In questa prospettiva vanno inserite altresì le importanti osservazioni verriane rispetto ad uno dei temi caldi delle conversazioni della coterie filosofica. La querelle letteraria del momento era proprio l’affaire che vedeva protagonisti l’uno contro l’altro Hume e Rousseau, e i philosophes tutti schierati a favore del primo, come dimostrava la risposta del filosofo scozzese elaborata d’intesa con il gruppo holbachiano, e di cui Alessandro fornisce notizia a Pietro: l’Exposé succinct de la contestation qui s’est éléveé entre M. Hume et M. Rousseau, avec les piéces

justificatives.124 L’operetta, resa pubblica a Parigi il 20 ottobre del 1766, venne tradotta a Venezia

117 Carpetani Messina, Alessandro Verri et ‘les enfants perdus de la raison’, cit., p. 123. 118 Viaggio a Parigi e Londra, cit., p. 59.

119

Ivi, pp. 58-9.

120 Ivi, p. 102

121 Cfr. la già citata lettera del 25 ottobre 1766, ivi, p. 39: «Disprezzano la ragione mentre che sembra che ne vadino in

traccia. Basta che non manchino parole alla conversazione, il che non succede mai: non importa come si parli.»

122 Ivi, pp. 246-7 (lettera del 15 gennaio 1767). 123

S. Carpetano Messina, p. 123.

124 La querelle nasceva da un malinteso creatosi tra Hume e Rousseau a seguito dell’asilo in Inghilterra che il filosofo

scozzese offerse al ginevrino nell’ottobre del 1765, per tutelarlo dalle minacce cui fu soggetto con la pubblicazione delle Lettres écrites de la montagne (1764). La rottura avvenne alla pubblicazione sui fogli pubblici di una lettera polemica a lui diretta firmata dal re di Prussia (ma in realtà scritta da Walpole), che Rousseau pensò essere stata scritta contro di lui da D’Alembert. Hume, indignato, elaborò d’intesa con i philosophes parigini Exposé succinct de la conte

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nel 1767, ove più che sul testo in sé, l’attenzione venne rivolta soprattutto ai differenti atteggiamenti dei due contendenti, stigmatizzando in particolare «la mania persecutoria di Rousseau», che accusando Hume di essere «l’invisibile architetto di un complotto internazionale contro di lui» l’avrebbe costretto a far pubblicare le lettere e i documenti relativi alla contestazione.125

La traduzione ebbe dunque un forte impatto sull’intellettualità italiana, contribuendo a creare, anche presso l’opinione pubblica moderata e conservatrice quell’immagine idealizzata e quasi mitica del «bon David», dotato di costumi semplici, candidezza e bontà di cuore e «vera incarnazione degli ideali illuministici del buon senso»,126 di contro allo stravagante Rousseau, modello negativo delle

Lumiéres. Di notevole interesse, proprio perché contestuale allo svolgersi e allo svilupparsi dei fatti,

appare pertanto la posizione assunta dai due Verri, soprattutto quella di Alessandro. A differenza del giudizio di Pietro o poi di Melchiorre Cesarotti,127 voci contrarie ai giudizi italiani perché esprimenti disappunto nei confronti dell’atteggiamento assunto da Hume, Alessandro, pur parteggiando per Rousseau, punta piuttosto a sottolineare la causticità eccessiva contro lo stesso espressa nelle tempestes dei ragionamenti della coterie. Mentre accenna al fratello che «si parla di Rousseau con fanatismo», giudicando ingiusto un simile accanimento («Sono irritati, ma hanno torto. Mi pare troppo fuoco contro di lui, non gli accordano merito alcuno»),128 poco dopo lo avverte della pubblicazione dell’Exposition:

È stampato tutto il seguito del fatto tra Hume e Rousseau: le lettere d’entrambi e tutta la narrazione delle cose. M. Hume n’è l’autore. Rousseau in tutto ciò vi fa la figura da pazzo cattivo. Qui ne parlano tutti con passione. Lo riguardano come un uomo cattivo e pazzo, senza talenti e merito alcuno, che al favore d’ uno stile seducente ha sorpreso il pubblico. Mi pare ingiusto questo giudizio. Ma non c’è a dire. Non ascoltano ragione.129

Mentre Pietro ribadirà più volte il suo disappunto, considerando negativamente lo «spirito di partito» giudicato eccessivamente «manifesto contro Rousseau e contro il sistema»,130 Alessandro

station, che venne immediatamente pubblicata anche nella versione inglese a Londra nel novembre 1766. Cfr. la nota di

Gaspari, in Viaggio a Parigi a Londra, cit., p. 545.

125 M. Baldi, David Hume e il Settecento italiano: filosofia e economia, Firenze, La Nuova Italia, 1983, p. 18, nota n. 4. 126 Ivi, pp. 17-18.

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Cfr., per Pietro la lettera del 15 dicembre 1766 in Viaggio a Parigi e Londra, cit., p. 133: «sappi che quanti di noi hanno letto le cose ultimamente stampate sono decisamente per Rosseau, e risguardiamo il S. Hume come uomo che fa sospettare del suo carattere e sicuramente dimostra di non avere la delicatezza e sensibilità che merita di trovare in un amico il S. Giangiacomo. Malgrado le cabale egli passerà ai posteri». Cesarotti, invece, rispondendo alla lettera scritta da Varsavia dall’abate Tanturri (del 7 settembre 1766) , anch’esso critico nei confronti di Hume, sosteneva che dalla disputa chi perdeva credito fosse soprattutto Hume, giacchè Rousseau avesse già da tempo perso luce ai suoi occhi dal momento in cui «ses principe ne tendent à moins qu’a bouleverser les états et à sapper les fondements des religions.»: la lettera è citata in M. Baldi, David Hume, cit., pp. 19 nota n. 44.

128

Viaggio a Parigi e Londra, cit., p. 28.

129

Ivi, p. 40.

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vedrà persino oscillare la stima nutrita per Voltaire,131 condannando esplicitamente questa «persecuzione filosofica», ai limiti del fanatismo, contro un singolo – al contempo svelando il reale motivo che muoveva la setta contro il ginevrino:

Voi avete prese le parti di Rausseau come un filosofo di cuore le prende. Avete ragionissimo nel dire che vi sia contro di Lui una persecuzione filosofica. Io la credo così. Rausseau ha una religione. Questo è un delitto imperdonabile. Vi ho già scritto di ciò. Quanto poi al libro che contiene gli atti di questa letteraria scandalosissima causa, io l’ho, ma non lo leggo. Non mi curo di veder questa gran piaga della filosofia.132

Il minore dei Verri palesava le motivazioni alla base della discordia filosofico-politica tra la coterie e il pensatore di Ginevra. Si trattava di un divario d’intonazione spirituale, di due weltanschauung diametralmente opposte, l’una di impronta razionalistico-scientizzante, vigorosamente immanentistica e per questo aliena da ogni costruzione mitico-religiosa, l’altra basata invece su un forte spiritualismo figlio della Riforma e «ansioso di una palingenesi morale civile e religiosa per l’umanità sofferente, ma incline a far larga parte ai valori del sentimento e della consolazione religiosa, e quindi talvolta nostalgico verso certe forme di vita spirituale e civile del passato»: un divario, che come ha dimostrato il Diaz, non poteva non evolversi in un contrasto che dall’atteggiamento civile nei confronti della religione si estendeva alle posizione politiche.133

Ma ciò che più emerge, nelle osservazioni di Alessandro, oltre la questione religiosa, era, lo si è già accennato, quel tono fanatico, quell’entusiasmo eccessivo avvertito come dicotomico a un ben radicato ideale intellettuale che ora la querelle Rousseau-Hume aveva palesato nella sua più completa evidenza. Troppo lontane apparivano ad Alessandro le immagini dei philosophes rispetto a quel modello intellettuale appunto maturato e sviluppato in chiave teorica in molte pagine degli scritti giovanili. È lì, pertanto, nella produzione della giovinezza, che va rintracciata la radice profonda di quel progressivo disinteresse verso la filosofia francese, che andrà ad accentuarsi lungo gli anni romani della maturità, e che, però, non rappresenta un aborto di quegli ideali illuministici di virtù e giustizia, e prudente ricerca della verità, che rappresentano il lascito più duraturo del particolare illuminismo verriano.

Nello stesso Saggio di Morale Cristiana così come in alcuni articoli del Caffè si avvertiva il tentativo di definire gli strumenti e le modalità di intervento dell’intellettuale-filosofo, inteso sin da allora come tramite individuale e razionale del rapporto cultura-società: coloro «che sono superiori al volgo per le loro cognizioni, se amano rendere gli altri proclivi a’ loro pareri e d’indurli a

131

Ivi, p. 118.

132

Ivi, pp. 166-67.

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ricevere la verità usino di moderazione»,134 avvertiva il Verri, ove il modello direttamente indicato veste già l’habitus del «mansueto filosofo»135

che ha per «iscopo l’amor del vero» e soprattutto come peculiarità la persuasione: «Così un Re umano è più sicuro sul trono del superbo, ed il Filosofo modesto persuade, e ritrova più sovente chi gli dia ragione dell’altiero, che usa indiscriminatamente la forza del suo spirito per dominare i cuori»,136 perché, aggiungeva, «è nel carattere di tutti gli uomini, che facilmente s’arrendono alla tranquilla insinuazione della verità».137

A queste massime di natura teorica faceva seguito, giusta il carattere pedagogico dell’operetta morale, l’esposizione, condotta con rigore razionalistico, dei vizi contrari al raggiungimento della propria e altrui felicità allo scopo di tracciare indirettamente un atteggiamento sociale positivo. Di qualche interesse rispetto al nostro discorso appare, ad esempio, la riflessione sullo “spirito di disputa”:

Lo spirito di disputa è il flagello del buon umore della società, e la contenzione di spirito nelle diversità di parere se si usa indiscretamente produce risse ed odi contrari alla carità cristiana, ed alla pace ed armonia che lega gli uomini e sparge sui nostri giorni la serenità e la calma.138

Era la condanna di un determinato atteggiamento intellettuale, che Alessandro, come Pietro, riconosceva come proprio del costume italiano, entrambi polemizzando contro di esso nel Caffè, laddove la disputa stessa è accettata solo qualora essa si presenti come «urbana e pacifica ricerca della verità, la quale s’eserciti in modo da non far nascere cattiva opinione o della morale o della educazione di chi la sostiene».139 Pietro stesso adduceva come esempio umano e intellettuale il contegno quasi aristocratico di autori come il Muratori e il Maffei, «geni superiori», che pur soggetti a dispute e contumelie letterarie, non interruppero mai «il placido e maestoso corso della loro carriera».140 È però nei Voti sinceri agli onesti intellettuali di Alessandro che il ricordo della esemplare e dignitosa pacificità del Muratori si apre in una prospettiva ormai decisamente mitizzante. Dopo aver indicato come nulla conviene all’intellettuale se non «la dolcezza de’ costumi, la purità della morale, la venerazione delle sacre cose ed una certa modestia, che non è figlia dell’avvilimento ma bensì della tranquilla ragione», il Verri poneva chiaramente l’erudito modenese come l’unico esempio da seguire, modello di vita e di scrittura:

Vorrebbesi dunque non mai bastevolmente persuadere ai letterati l’imitare il fresco esempio del gran lume nostro, il signor prevosto Lodovico Antonio Muratori, uomo che ritrovò quasi incolti li campi dell’erudizione 134 AV 484.3, p. 30. 135 Ivi, p. 39. 136 Ivi, p. 24. 137 Ivi, p. 34. 138 Ivi, p. 29. 139

P. Verri, Pensieri sullo spirito della letteratura italiana, in Il Caffè, p. 221.

96 italiana e che talmente coltivati ce li lasciò che nulla rimane a desiderare. Questo grand’uomo pieno di modestia, di religione e di sapere, e costumi dolcissimi accoppiando ad una mente grandissima, nulla pareva più desiderare che la morale di taluni tra’ letterati si riformasse; che quelli che sono i maestri del sapere lo fossero ancora della virtù. E ben prova quanto a’ tempi suoi di questa mancassero taluni fra di loro, leggendo le ingiurie villane, le infami declamazioni, le atroci invettive che furono scagliate contro quella calva e venerabil fronte.141

E se il modello muratoriano, vagheggiato come esempio intellettuale e religioso contrastava di per sé con l’intellettuale-filosofo incontrato a Parigi, erano altresì i modi della disputa francese, resi palesi, inoltre, proprio dall’aggressività dell’affaire tra Hume- Rousseau, a scontrarsi con un siffatto modello di misura verbale, teorizzato ma fatto proprio dagli stessi caffettisti negli scontri pur polemici – ma tuttavia pacati – che pure li avevano visti coinvolti direttamente, in primis contro il Baretti.142 I modi della conversazione francese andavano infatti a scontrarsi con quell’ideale di

sociabilité, con quel gusto della socievolezza, che è trovarsi piacevolmente in conversazione, e che

è tratto peculiare del mondo dei lumi. Su questo tema, «le pagine più significative», ha sottolineato Marco Cerruti, si trovano proprio nel periodico, il cui titolo, Il Caffè, «intendeva alludere emblematicamente ad uno spazio aperto agli amichevoli incontri e a un confortevole agiato conversare».143 A darne una compiuta elaborazione teorica sono gli stessi Pietro e Alessandro: il primo nell’articolo La buona compagnia, il secondo nello Spirito di società. Si legga l’avvio del saggio del maggiore dei Verri:

La maggior parte degli uomini hanno un vero bisogno di passare il loro tempo più che possono nella compagni di molti uomini, per tal modo che, qualora per circostanze particolare venga ciò loro impedito, gli vedi abbattuti, tristi, desolati più che se loro qualche mal fisico fosse veramente accaduto.144

Effetto tipico delle nazioni più evolute, ben governate e felici, in sé gratificante e utile,145 la

sociabilité si dà in primis nell’arte della conversazione, che attesta la «civiltà», legge primaria degli

«uomini che vivono insieme»:

141 A. Verri, Voti sinceri agli onesti letterati, cit., pp. 566 e 569. 142

Nell’articolo Alcune idee sulla filosofia morale, cit., p. 691 Verri ribadiva, rispetto alla morale dei letterati, che «la modestia e la semplicità, unite a’ vasti talenti, sono ciò che maggiormente li fanno rispettabili e luminosi». Per la polemica col Baretti, cfr. la ricostruzione aggiornata fornita da Francioni, Storia editoriale del «Caffè», cit., pp. XCV- CIX. Nel Memoriale ad un rispettatissimo nostro maestro, in Caffè, pp. 141-42, Alessandro rispondeva senza offendere a una delle accuse alle opere dei Pugni mosse da Aristarco nella Frusta, mantenendo un tono pacato e quieto che fu caratteristico della rivista (cfr. la nota al testo dei curatori, p. 1050), e implicitamente teorizzato nel Saggio di

legislazione sul pedantismo, cit., p. 140, ove si sosteneva la necessità per i «seguaci della ragione» di «guardarsi bene

dall’insultare o deridere personalmente» i propri avversari.

143

M. Cerruti, Dalla «sociabilité» illuministica al mito del poeta solitario. La musa saturnina, in Letteratura italiana e

cultura europea tra Illuminismo e Romanticismo, cit., pp. 95-109, p. 96.