3. Dalla grande impresa storiografica al Caffè
3.1 L’attività giuridica e l’uscita del Dei delitti e delle pene
Negli anni che vanno dal 1763 al 1765 – come si è detto – Alessandro ricoprì la carica di Protettore dei carcerati, già ricoperta da Pietro nel biennio 1751-1752. Con il termine di “Protettore dei carcerati” si indicavano, nel Settecento asburgico, i componenti di un’antica congregazione detta della Malastalla, dal nome del più grande e famoso carcere milanese, congregazione composta da otto individui il cui compito «era vigilare sull’osservazione delle leggi e degli ordini che riguardavano i detenuti nelle carceri milanesi, organizzare le distribuzioni di pane e minestra e la questua quaresimale a loro beneficio, denunziare i soprusi e le estorsioni che si commettevano sia dai custodi, sia dai carcerati stessi, sollecitare le grazie e assicurare l’assistenza legale agli indigenti, che erano poi quasi tutti rei».145 L’ufficio di Protettore era considerato inoltre, come scriverà lo
141
P. Musitelli, I manoscritti inediti di Alessandro Verri protettore dei carcerati (1763-1766), «Line@editoriale», n. 2, 2010, pp. 1-22, p. 2.
142 Cfr. Carteggio, vol. I parte II, p. 408. Lettera del 27 giugno 1767. 143
Così Alessandro in una lettera da Parigi: cfr. Viaggio a Parigi e Londra, cit., p. 75.
144 Un’intensa attività di impegno in seno dei Pugni, che lo rese fiero a Parigi, ove inizialmente visse un po’ inquieto,
all’ombra della fama del Beccaria: «Uno di questi giorni il nostro Morellet con una certa superiorità d’amicizia mi disse che, passati i primi tumulti di Parigi, bisognava poi mettersi a qualche studio. “Ho anche troppo studiato”, gli risposi. “E che avete studiato?”, mi replicò egli. Ed io allora, sfoderando tutto il fatto mio, l’ho un poco colpito col dirgli: “Ho in due anni fatta la quinta parte del primo tomo del Caffè e la metà del secondo; ho nello stesso tempo fatti 34pledoyers di
difesa di processati, essendo stato io due anni avvocato criminale; ho finalmente fatta una storia d’Italia da Romolo fino a noi, che sarà un buon volume in -4°». La lettera è del 7 novembre 1766 e si legge in Viaggio a Parigi e Londra, cit., p. 75.
145
Capra, I progressi della ragione, cit., p. 104, a cui si rimanda anche per i riferimenti bibliografici essenziali relativi a questa attività nella Milano del Settecento.
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stesso Alessandro, «un esperimento che si faceva sulla gioventù inclinata agli studi forensi».146 Delle trentaquattro difese che Alessandro sostenne di aver scritto durante questa attività solo ventisei sono tutt’oggi conservate presso l’Archivio Verri: ventidue sono scritte in latine, mentre solo quattro si presentano in italiano.147 Pierre Musitelli ha indagato con grande attenzione gli scritti dell’avvocato Verri, pubblicando alcune tra le difese italiane più rappresentative: si tratta di tre suppliche, ossia domande di grazia che il protettore doveva, come tramite, inviare al Senato per ottenere, se non la scarcerazione dei condannati, almeno un’attenuazione della pena.148 In questa sede ci si limiterà pertanto a far emergere gli aspetti più significativi di questo periodo di attività, anche per ricostruire le linee di quello che appare essere un momento giuridico di impegno collettivo in seno all’Accademia dei Pugni, al quale il minore dei Verri diede un apporto assai significativo.
Al momento in cui Alessandro, Cesare Beccaria e gli altri membri del sodalizio cominciarono a ragionar di diritto (si ricordi che il 1763 non rappresenta solo il momento d’avvio della redazione del Dei delitti, ma anche l’anno in cui Pietro Verri scrisse la satirica Orazione
Panegirica sulla Giurisprudenza milanese), la situazione della giustizia in Lombardia era assai
simile a quella di altri paesi europei: il «complesso sistema delle fonti in vigore nel XVIII secolo era un formidabile assemblaggio di norme, riti, prassi e dottrina»,149 farraginosa impalcatura eretta sui testi della compilazione giustinianea, indiscussi protagonisti da dodici secoli grazie all’attività interpretativa dei giuristi, contro i quali Alessandro polemizzerà nel Caffè. Sulla traditio giurisprudenziale romana si innestavano poi tutta una serie di norme particolari (usi e statuti) e le varie disposizioni regie, che lungi dal fornire una regolamentazione esaustiva, erano sempre bisognose di integrazioni a livello locale.150 Come sottolinea Garlati, rispetto a queste norme assemblate vecchie di secoli, il «soffio vitale capace di renderle ancora “attuali” era fornito dalla logica argomentativa dei criminalisti, in grado di adeguare a una società in continua trasformazione un diritto che era stato concepito per una realtà profondamente diversa»:151 ogni norma, scomposta nel prisma delle innumerevoli opinioni dottrinali, degli usi forensi, degli ordini e della giurisprudenza del Senato, il massimo organo giudiziario dello stato di Milano, dava vita a un sistema penale in cui i «giureconsulti creavano diritto attraverso il diritto». Da qui un sistema penale caratterizzato da drammatica incertezza: «tribunali non vincolati all’osservanza dei propri
146 Lettera di A. Verri a Isidoro Bianchi del 16 aprile 1803, riprodotta in Beccaria, Dei delitti e delle pene, p. 125. 147 Si trovano nella cartella 481, composta da tre fascicoli.
148
MUSITELLI, I manoscritti inediti di Alessandro Verri, cit., p. 3. Per le suppliche verriane si fa riferimento alle trascrizioni dello studioso, contenute in ivi, alle pp. 9-17.
149 Si cita dalla scheda alle opere del catalogo Da Beccaria a Manzoni, cit., a cura di L.G
ARLATI, Amministrare la
giustizia in Antico Regime, cit., pp. 179-85, p. 179.
150
Cfr. ibidem.
151
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precedenti, posizioni dottrinali in contrasto le une con le altre, prassi alimentate dal mutevole quotidiano giuridico facevano sì che il singolo fosse in balìa di una giustizia all’apparenza dominata più dal caso che dalle regole»,152 in cui era il parere del giurista, appunto, ad assumere le vesti del legislatore, e a decidere della vita e della felicità di un uomo, e non la legge, mediante un processo inquisitorio fondato sulla tortura e culminante il più delle volte in barbare pene fisiche, se non addirittura nella pena di morte.
La critica a questo sistema, è noto, costituì il cuore del capolavoro penale del Beccaria, ma è altresì vero che esso si poneva – nel momento di preparazione del periodico – come uno dei massimi temi discussi durante le riunioni serali di casa Verri. Lo stesso Pietro Verri, che pur decise di affidare all’amico, e non al fratello, il ruolo di pubblico accusatore delle leggi e delle procedure che regolavano la giustizia penale - complice la carica di Senatore ricoperta dal padre -153 era pur intervenuto polemicamente sulla questione nel medesimo anno di redazione del volume di Beccaria, proprio con la già ricordata Orazione panegirica sulla giurisprudenza milanese, mai però, significativamente, data alle stampe.154 In questa, la denuncia delle istituzioni giuridiche assunse la veste di un panegirico dai toni iperbolici – da leggersi antifrasticamente – affidato a un giurista conservatore, probabile caricatura del padre; si ipotizza che essa venne persino recitata di fronte ai membri dell’Accademia dei Pugni.155
Già in questa operetta si avverte una forte consonanza con quelli che saranno alcuni dei nuclei fondamentali del Dei delitti e delle pene: la critica allo stuolo di criminalisti che con la selva dei loro commenti avevano oscurato il vero significato delle leggi, dando l’abbrivio alle pratiche più atroci, come la tortura; il principio di proporzionalità della pena, secondo cui il compito del legislatore sia quello di creare una scala penale nella quale l’intensità della pena corrisponda alla gravità dei reati;156 l’assurdità della legge locale, che prevedeva la pena di morte per ogni milanese deciso a trasferirsi altrove;157 la necessità di «nuovi codici in lingua volgare» affinché gli uomini possano intendere «le loro leggi»;158 l’assurdità della tortura quale strumento con cui «purgano l’infamia» dei rei.159 Il legame che univa Cesare Beccaria e Pietro Verri trova così un’ulteriore testimonianza. Non solo la stesura dei Delitti e delle pene li vide lavorare l’un al fianco dell’altro, «dando vita a un’opera che fu quasi l’amalgama di due penne e due
152 Ibidem. 153
Vale la pena ricordare che Gabriele Verri curò nel 1764 l’undicesima edizione delle Constitutiones Mediolanensis
dominii emanate da Carlo V nel 1541, che costituivano la legge provinciale del milanese e fonte normativa per oltre due
secoli: erano costituite da una raccolta di decreti ducali viscontei e sforzeschi arricchiti nel corso dei secoli da ordini senatori, decreti e commenti.
154 Cfr. P. Verri, Orazione panegirica sulla giurisprudenza milanese, in Opere. I. Scritti letterari, filosofici e satirici,
cit., pp. 422-50.
155 Cfr. il commento al testo in ivi, p. 422 (nota n.1). 156 Ivi, p. 441-42 157 Ivi, p. 442. 158 Ivi, p. 425. 159 Ivi, p. 428.
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menti»,160 ma tra le due opere si avverte un legame profondo, testimonianza di un lavoro comune. A questa humus partecipò in maniera interessante anche Alessandro, così come qualche altro collaboratore del futuro Caffè. Probabilmente quattro dei soci dei Pugni erano laureati in legge: oltre ad Alessandro, lo stesso Beccaria, il Biffi e Alfonso Longo. Come si è accennato, ciò non significava che tutti avesse frequentato le aule pavesi, e conseguentemente, fossero dotati di una uguale e solida formazione giuridica. Poco sapeva Cesare dei metodi criminali, e chi gli fornì le cognizioni di cui avesse bisogno fu – appunto – il minore dei Verri.161 Proprio gli scritti e la stessa attività giuridica come protettore dei carcerati vanno, in particolare, a suffragare questa ipotesi circa il contributo verriano alla genesi del pensiero penale di Beccaria. Le indicazioni riportate da Musitelli risultano di estremo interesse a questo proposito, indicando un implicito coinvolgimento di Cesare – più degli altri – nella stesura e nella messa a punto delle Difese. Come mette in luce lo studioso, infatti, tre di queste sarebbero autografe dell’autore dei Delitti, con correzioni del Verri, mentre una quarta si rivela essere la traduzione italiana – sempre da parte del Beccaria – di una precedente versione latina stesa da Alessandro (mentre altre presentano semplici note di lettura sia del Longo sia di Pietro). L’attività verriana come avvocato della Malastalla si configurerebbe, dunque, come un momento collettivo di specifico approfondimento del diritto penale, e attraverso gli scritti legati al biennio 1763-1765 emergerebbe «l’organizzazione di un sistema di revisione collettiva degli scritti, nel quale il testo iniziale evolve verso la sua forma finale tramite il gioco delle successive contribuzioni, come sarà il caso per il manoscritto del Dei delitti e delle pene e per quelli degli articoli del Caffè». Ciò che risulta interessante però, come nel caso dell’Orazione
panegirica, è proprio la consonanza di idee e principi tra le difese e il volume del 1763. A titolo
esemplificativo si veda il caso della supplica scritta per evitare a un’imputata, rea di incesto nella persona della figlia e condannata a sette anni di carcere, la pubblica e infamante umiliazione della frusta. Alessandro sfruttava per questo i principi essenziali che poi l’autore dei Delitti porrà a fondamento della pena e dell’intero sistema della giustizia penale: il principio di umanità e quello di proporzionalità del castigo.162 Sostenne il Beccaria che «il fine delle pene non è di tormentare e affliggere un essere sensibile»163 o di indulgere a una «inutile prodigalità di supplici».164 Al contrario, il sistema punitivo doveva essere informato alla «dolcezza delle pene»: l’atrocità delle stesse è infatti contraria ai principi di umanità e risulta inefficace da un punto di vista utilitaristico, poiché ciò che rileva affinché la pena di morte ottenga il suo effetto non è la crudeltà dei castighi,
160
Garlati, La giustizia penale al tempo di Beccaria , cit., p. 32.
161 Cfr. Capra, Una formazione “obbligata”, cit., 189.
162 Per un elenco sintetico ma tuttavia preciso dei principi del Beccaria cfr. E. Dezza, La riposta del legislatore. Riforme
e restaurazioni nella giustizia penale dopo Beccaria, in Da Beccaria a Manzoni, cit., p. 81-99, soprattutto le pp. 81-4.
163
Beccaria, Dei delitti e delle pene, cit., p. 31.
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quanto la loro infallibilità: la pena stessa non era concepita insomma come il castigo di una colpa, ma come la riparazione di un danno arrecato alla società, e conseguentemente essa non doveva oltrepassare i limiti di ciò che risultasse utile per il ristabilimento dell’ordine pubblico, mentre la sanzione da inffliggersi per la commissione di un reato doveva essere «la minima delle possibili
nelle date circostanze».165 Alessandro sfruttava pienamente questo principio partendo dal presupposto che i «sette anni di carcerazione sono meno gravi alla misera madre che la pubblica fustigazione», che non solo impedirebbe alla figlia – dopo lo scotto del carcere – di essere nuovamente integrata in società e divenire così donna onesta tramite il matrimonio, ma, secondo un principio utilitaristico risulterebbe dannoso per lo stesso ordine pubblico, contribuendo a far conoscere un delitto assai poco noto e diffuso:
La pubblica fustigazione destinata a servir d’esempio, può ancora produrre qualche scandalo. Il delitto è da molti ignorato: lo sarebbe da nessuno dopo questa pubblicità. La rivelazione di simil sorte di fatti forse non servirebbe al fine a cui mira la pena, cioè la correzion de’ costumi. Occorrere può che per tal via s’insegni il delitto più che non si corregga. Si tratta di una colpa che per non essere frequente sembra ancora meno bisognevole di un così solenne esempio.166
Appellandosi al principio di «equità», affinché non «rimanga una sproporzione fra la colpa, ed il castigo», Alessandro ricusava utilitaristicamente l’eccesso e la violenza del castigo stesso, e, come nota Musitelli, sostituiva allo «spettacolo penale» caratteristico del sistema giurisprudenziale d’Antico Regime «una nuova forma di dissuasione che non si fonda più sul terrore e l’esibizione del castigo, ma sulla certezza della pena e l’esattezza della sua misura». Si trattava insomma di un’esemplificazione pratica dei principi teorici poi confluiti nel testo beccariano, rispondenti alla necessità di una razionalizzazione del sistema penale, non più dominato dall’incostanza e dall’arbitrio dei giudici, quanto invece da precise esigenze logiche e razionali.167
Il principio di umanità, da intendersi nella più generale propensione per un diritto penale a soggetto unico, privo cioè di caratterizzazioni sociali e di classe in qualche modo discriminante, dominava invece una delle difese che ci paiono più significative, quella dedicata alla vicenda di un «pazzo», Andrea Casirago: qui infatti Alessandro si appellava alla «misericordia» e alla «pietà» dei giudici,168 affinché vedano nella persona del condannato un’immagine delle sofferenze inerenti alla condizione umana. Nel complesso, la stessa difesa - finalizzata a distogliere i giudici dalla pena di morte cui è destinato l’imputato, pur accusato dell’omicidio della moglie – è interessante da un lato perché dà un sottointeso pratico all’interesse verso l’irrazionale insito nella natura umana che è,
165 Ivi, p. 104, corsivo nel testo. 166
Musitelli, I manoscritti inediti di Alessandro Verri, cit., p. 11.
167
Ivi, pp. 4-5.
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come vedremo, tratto distintivo della scrittura verriana fino agli anni della maturità, dall’altro perché dimostra una stessa originalità rispetto allo stesso Beccaria: Alessandro, infatti, considerò soprattutto l’aspetto medicale della questione, e tentò di dimostrare, sulla base di fonti mediche (viene citato il medico secentesco Hermann Boerhaave),169 come una situazione psichica compromessa possa agire come causa deresponsabilizzante, annullando nell’individuo il suo libero arbitrio, e quindi, giuridicamente, la stessa finalità della pena di morte: essendo involontario, il delitto deve pertanto essere punito altrimenti, dal momento che la pena capitale è in realtà indirizzata a distogliere le menti dalla tentazione di compiere l’impunità. Si avrà modo di tornare nuovamente su questa difesa del Verri. Per ora basti dire che, soprattutto con il caso Casirago, Alessandro mostrava davvero una modernità nelle proprie posizioni giuridiche: non solo la stretta aderenza a principi che erano a fondamento del capolavoro del Beccaria, ma superava la stessa logica penale d’Antico Regime affiancando allo studio delle «circostanze materiali del delitto» anche la necessità di un’indagine interiore, per una giustizia per la prima volta chiamata a fare i conti con la persona nel suo complesso.170 Andrea Casirago aveva offerto ad Alessandro un terreno d’indagine, quello del rapporto tra ragione e follia, tentazione del male e del vizio e impossibilità fisica alla virtù, che aveva a che fare con la più generale questione della complessità della natura umana, che sarebbe stato centrale anche nel Caffè («natura», sosteneva il Verri in alcune «idee per
articoli», è uno dei «nomi che si danno a cose che non si intendono»):171 un nucleo profondo della riflessione verriana che nel complesso l’Ufficio di Protettore gli aveva offerto di studiare empiricamente, pur attraverso un approccio primariamente giurisprudenziale.
Infine, appare condivisibile ciò che riferisce ancora Musitelli rispetto all’importanza che in generale rivestono questi primissimi scritti pratici all’interno della biografia di Alessandro Verri, già del resto evidenziato per il Saggio di morale cristiana: tali contributi, seppur parziali, testimoniano senz’altro la precocità dello schieramento verriano «in favore di ideali umanistici e progressisti» che retrospettivamente il soggiorno a Roma rischiava di far apparire effimero e superficiale.172 Schieramento precoce e attivo, quindi, che appare anche nell’influenza che le Difese ebbero sulle idee di Beccaria.173
D’altronde, la funzione che Alessandro ebbe nei Pugni, oltre ad essere testimoniata dal ruolo importante assunto nel Caffè, si evince anche dalla ricostruzione delle vicende legate alla genesi e alla difesa dello stesso volume dell’amico. Della composizione del Dei delitti e delle pene tanto si è
169 Ivi, p. 15. Il nome è presente anche alla voce “medicina” del documento più volte citato (AV 485). 170 Cfr. ivi, p. 8.
171
Appendice V. Appunti di Alessandro Verri: idee per articoli in Il Caffè, pp. 811-813, p. 813.
172
Musitelli, I manoscritti inediti di Alessandro Verri, cit., p. 9.
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scritto, per cui ci si limiterà in questa sede alle notizie essenziali,174 utili anche rispetto allo specifico argomento di queste pagine. Fondamentali le parole del Venturi, a riannodare le fila di ciò che si è andato dicendo:
Inconcepibile […] all’infuori di quel gruppo milanese che proprio in quel periodo stava trasformandosi nella redazione de «Il Caffè», nato dalle discussioni interne di esso, dai suggerimenti e consigli che a Beccaria vennero da Pietro Verri, da suo fratello Alessandro e da altri ancora, Dei delitti e
delle pene restava tuttavia opera tutta personale, legata a un ambiente, a un’atmosfera e pur non mai
completamente assimilabile a ciò che le stava intorno come la personalità e l’opera di Jean Jacques Rousseau nel mondo degli enciclopedisti francesi.175
La stesura dell’opera avvenne nell’autunno-inverno del 1764,176
e fu stampato a Livorno (presso Cortellini) nell’aprile dell’anno successivo. È lo stesso Alessandro, nella ormai notissima lettera al biografo di Pietro Verri, Isidoro Bianchi, datata 16 aprile 1803, a definire non solo la genesi ma anche la paternità dell’opera:
Il Marchese Beccaria allora giovane non era conosciuto quanto meritava. Mio fratello Pietro gli proponeva sempre di prodursi con qualche opera di lettere predicendogli gloria in tale carriera. Infatti pubblicò primieramente un opuscolo sulle monete in occasione che si trattava dal governo una riforma in tale maniera. Successivamente essendo io nella carica allora detta Protettore dei carcerati, la quale era un esperimento che si faceva nella gioventù inclinata agli studi forensi, avveniva spesso che ragionassi di materie criminali e che ne rilevassi la barbarie in quanto a me pareva de’ scrittori di quelle e de’ metodi anche nel giudicare e processare. Al Conte Pietro sembrò questo argomento degno della penna del suo amico Beccaria, e gli propose di trattarlo. […]Il Conte Pietro usciva per le sue incombenze, ed io col Marchese Beccaria passavamo studiando la sera precisamente nella ultima stanza dell’appartamento a pian terreno che corrisponde al salone degli animali dipinti al primo piano. Ivi sul tavolino del Conte Pietro io stesso ho veduto scrivere e comporsi dal Marchese Cesare Beccaria l’opera Dei delitti e delle pene.177
Il libro fece grande strepito, in Italia e fuori d’Italia, suscitando pareri contrari ed entusiastiche adesioni, tanto che alla fine del 1766 vedeva la luce, con la falsa indicazione di «Lausanne», ma invece a Parigi la celebre traduzione francese per conto dell’Abate André Morellet, traduzione che si pone alla radice del futuro viaggio a Parigi e a Londra del Beccaria e di Alessandro Verri.178
174 Per la composizione, la datazione e la questione della paternità dell’opera si rimanda alle osservazioni di Francioni,