cultura romana tra gli anni Settanta e Ottanta del Settecento.
3.1. L’apprendistato tragico: Shakespeare.
Ribelle inferno se tu puoi accendere nell’ossa di una matrona brame di giovanil concupiscenza, la virtù è una cera che si strugge nel suo fuoco istesso!
Hamlet238
«I primi Italiani ch’ebbero conoscenza del teatro dello Shakespeare, furono Italiani che in Inghilterra stessa l’attinsero».239
L’ormai classica affermazione del Graf risulta assai interessante se rapportata, nello specifico, al caso del Verri. Come sostiene Alessandra Iacobelli,240 probabilmente
235 Così Alessandro nell’Intenzione, cit., p. IX. 236 Maggi, Vita di Alessandro Verri, cit., p. XXXIX. 237
È ancora Cerruti a suggerire come proprio nella «rielaborazione in chiave “armoniosa” del testo omerico» si avverta un’anticipazione stilistica «che avrebbe offerto gli esiti più risentiti, e organici, nelle Avventure di Saffo», dal critico inoltre messo il relazione con la coeva produzione goethiana, soprattutto per ciò che concerne l’esplorazione attenta delle passioni e dei limiti della volontà. (Cfr. Cerruti, Alessandro Verri tra storia e bellezza, cit., p. 53).
238
A. Verri, Hamlet, Principe di Danimarca Tragedia di Shakespeare, in AV 491.3 Ms 4, c. 41r.
239 Graf, L’anglomani e gusto inglese, cit., pp. 312.
240 A. Iacobelli, Alessandro Verri traduttore e interprete di Shakespeare: i manoscritti inediti dell’Hamlet, «Annali
della Facoltà di Lingue e Letterature straniere», XV, 2001, pp. 125-151; e si veda anche Ead., Alessandro Verri
traduttore e interprete di Shakespeare: i manoscritti inediti dell’Othello, in Traduzioni letterarie e rinnovamento del gusto: dal Neoclassicismo al primo Romanticismo. Atti del Convegno internazionale Lecce-Castro 15-18 giugno 2005,
a cura di G. Coluccia, B. Stasi, vol. I, Galatina, Congedo, pp. 205-28. Delle traduzioni verriane di Shakespare si sono occupati nello specifico anche A.M. Crinò, Le traduzioni shakespeariane inedite di Alessandro Verri, in Ead., Le
traduzioni di Shakespeare in Italia nel Settecento, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1950, pp. 64-83, S. Colognesi, Shakespeare e Alessandro Verri, «Acme», n.16, 1963, pp. 183-216, e Rossi, La cultura inglese a Milano e in Lombardia, cit., specificatamente il capitolo V, Il teatro inglese e Shakespeare in Lombardia, pp. 171 e ss. La stessa
Crinò (Le traduzioni shakespeariane inedite di Alessandro Verri, cit., p. 66), sostiene che quasi certamente «il recente soggiorno del Verri in Inghilterra abbia influito sulla preferenza data ad un poeta, le cui opere formavano l’argomento prediletto di conversazione dei letterati londinesi, che mai ne parlavano senza ammirazione. Fra loro certo egli imparò a
181
Alessandro ebbe modo di conoscere le opere dell’inglese durante il soggiorno a Londra, ove circolavano le principali edizioni settecentesche del drammaturgo: dalla ristampa notissima del Pope (1725), alla raccolta di Lewis Theobald (1733) fino a quella, altrettanto celebre, di Samuel Johnson (1765). In realtà non andrebbe trascurato neanche l’apporto dell’ambiente intellettuale frequentato a Parigi, presso gli Enciclopedisti, ove circolava – lo si è già anticipato – una figura come quella dell’attore David Garrick, che, proprio nella capitale francese – e nello stesso periodo del tour verriano - «si sforzava di far gustare a quei letterati il poeta di cui egli era interprete»,241 e quando impersonava Re Lear faceva «alzare tutti i peli della cute agli spettatori».242 Malgrado l’ampissima produzione di Voltaire – tesa, soprattutto a partire dal Brutus del 1730, alla difesa classicistica del teatro francese contro le irregolarità strutturali e i barbarismi linguistici delle
pièces shakespeariane – anche in Francia, almeno presso alcuni esponenti di cultura più
progressista, il drammaturgo cominciava a riscuotere un certo successo: un’attrice relativamente famosa come «Madamoisselle Clairon», ricordava Alessandro, «diceva che per alcune scene di Shakespeare avrebbe dato tutto il teatro francese, e segnatamente per una di Macbeth in cui vi è una scelleratissima dama che macchina di molte stragi fatte per ottenere un regno, esce sonnambula e si tocca le mani credendole ancora tinte di sangue».243 E in Francia pure usciranno le importanti traduzioni del La Place (Le Théâtre Anglais del 1746) e soprattutto quella fortunatissima del Le Tourneur, Shakespeare traduit de l’anglois, già citata, del 1776, letta ed apprezzata da entrambi i Verri. Ma si trattò, in sostanza, di fenomeni isolati e la posizione critica voltairiana, che vedeva nel bardo «un génie plein de force et de fécondité, de naturel et de sublime», ma lo considerava inimitabile perché privo «de bon goût et de la moindre conaissance des règles»,244 era destinata a prevalere, soprattutto in territorio italiano, così che Shakespeare vi giunse «prima giudicato che letto».245 Se già il Quadrio, nel suo Della storia e della ragione di ogni poesia (1743), lo reputava pregno di una genialità feconda, capace di unire «alla naturalezza la sublimità», ma privo del buon gusto e delle regole dell’arte drammaturgica, «come scrive il Signor di Voltaire»,246
successivamente Carlo Denina, nel Discorso sopra le vicende dell’italiana letteratura (1761) lo
conoscerlo ed ad apprezzarlo, se si dice rapito dalla forza e dalla verità delle passioni maneggiate da quel grande tragico».
241
Graf, Anglomania e influsso inglese, cit., p. 136. Le parole del critico trovano infatti un diretto riscontro nei
Mémoires de l’Abbé Morellet, cit., p. 181, ove l’autore ricorda come fu l’attore a iniziarlo alla lettura di Shakespeare.
Alessandro presso il Teatro reale di Drury Lane, assistette – l’8 gennaio 1767 - a «un’opera buffa», Cymon, opera scritta, diretta e interpretata proprio dal leggendario Garrick. Ricorderà ancora l’attore che «fu a Parigi» nella lettera del 17 agosto 1777, in Carteggio Verri, vol. IX, p. 114.
242
Carteggio Verri, vol. XI, p. 100 (lettera di Alessandro, datata 19 luglio 1780).
243 Ivi, vol. X, p. 282.
244 Il passo è tratto dalle Lettres philosophiques (1733), ed è citato da Rossi, La cultura inglese in Italia e in Lombardia,
cit., p. 175
245
Ivi, p. 174.
182
esaltava come «sovranamente fornito d’ingegno sublime, d’un gran fuoco, d’una immaginazione fecondissima», ma ne biasimava le continue infrazioni, il suo essere «affatto al buio delle regole teatrali»,247 mentre ancora sulle opinioni del patriarca di Ferney si modellavano, in sintonia col Denina, i giudizi negativi di un intellettuale cosmopolita quale l’Algarotti, così come quelli del Paradisi, del Bettinelli e del Cesarotti.248 In un siffatto ambiente culturale, appare senz’altro vero, dunque, che le sperimentazioni verriane possano intendersi come «testimonianza privata di un fervido interesse personale»,249 interesse condiviso, peraltro, con altri due spiriti inquieti che in Europa, e in Inghilterra, vissero per periodo più o meno lunghi, quali il Baretti e l’Alfieri, testimoni isolati di un gusto che solo nel secolo successivo sarebbe stato possibile condividere apertamente.250 Se era quindi - soprattutto - l’egemonia francese a spiegare la «sfortuna di Shakespeare» e il quasi inesistente numero di traduzioni nell’Italia del secondo Settecento,251
accanto ad essa andava tuttavia considerata la particolarità della cultura teatrale italiana del primo e secondo Settecento, segnata in modo profondo ed evidente dalla critica delle élites intellettuali agli schemi ideologici e formali del “seicentismo”, 252
e per questo poco incline ad accettare le irregolarità, le combinazioni di generi diversi, il linguaggio eccessivamente metaforico e fiorito, e, soprattutto, quegli elementi irrazionali e inverisimili che costituivano il portato drammaturgico più appariscente dell’opera shakespeariana.
A parte esperimenti assai circoscritti, come quello frammentario del Rolli, che tradusse nel 1739 il soliloquio dell’Hamlet, l’unica traduzione italiana completa di una tragedia shakespeariana, il Giulio Cesare, apparve a Siena nel 1759 a firma del professore Domenico Valentini,253 ma non
247 Citato in Crinò, Le traduzioni di Shakespeare in Italia, cit., p. 59.
248 Cfr. Graf, Anglomania e influsso inglese, cit., p. 317 e ss., ma anche Rossi, La cultura inglese in Italia e in
Lombardia, cit., p. 187.
249 M. Corona, La fortuna di Shakespeare a Milano: 1800-1825, Bari, Adriatica, 1970, p. 15.
250 È notissima l’affermazione di Alfieri, che nella Vita, cit., pp. 197-98 (Epoca Quarta, cap. II), sostiene di aver
abbandonato «la lettura di Shakespeare» ( in traduzione francese), per paura di “rubare” «senza avvedersene» e perdere così la propria «originalità». Giuseppe Baretti difese apertamente Shakespeare, con la carica corrosiva e polemica che ne contraddistinse sempre la scrittura, nel celebre Discours sur Shakespeare et Monsieur de Voltaire (1777).
251 Per un inquadramento complessivo del problema I. Zvereva, Per una storia della riflessione teorica sulla traduzione
in Italia. La sfortuna di Shakespeare, «Enthymema», IX, 2013, pp. 257-68.
252
Per il secentismo cfr. G. Guccini, Introduzione a Il teatro italiano nel Settecento, cit., pp. 9-68, p. 11; ma si veda anche E. Mattioda, Introduzione a Id. (a cura di), Tragedie del Settecento, 2 voll., Modena, Mucchi, vol. 1, 1999, pp. 7- 82, p. 8.
253
Il monologo di Amleto fu pubblicato dal Rolli a Londra, nel Delle Ode d’Anacreonte traduzione di Paolo Rolli. Sulla versione in lingua toscana del Valentini, professore di Storia Ecclesiastica presso l’Università di Siena, cfr. Crinò,
Le traduzioni di Shakespeare in Italia, cit., pp. 41 e ss. La studiosa definisce la prosa della traduzione piena di evidenti
limiti, soprattutto nell’«eccesso d’ornamenti» che la rende di fatto «goffa e puerile, e per nulla adatta a rendere nella sua fresca e naturale bellezza il pensiero di Shakespeare» (ivi, pp. 49-50). Va inoltre aggiunto che il primo conoscitore italiano di Shakespeare (o, almeno, il primo che lo menziona in uno scritto), fu il padovano Antonio Conti, che pure soggiornò prima in Francia (dal 1713) e poi in Inghilterra (dal 1715 al marzo del 1718): menziona il drammaturgo inglese ne Il Cesare (Faenza, Archi, 1726), ma quest’ultima operetta non è un «prodotto dell’influsso di Shakespeare, per quanto riguarda la teoria drammatica cui è ispirata; e quella somiglianza che troviamo in qualche particolare può ben derivare dalla fonte storica comune» (ivi, p. 33), laddove invece il Conti è appunto tutto imbevuto di gusto classico, rispettosissimo delle regole aristoteliche.
183
ottenne alcun favore, tanto che il Verri pare non conoscerla;254 si dovrà aspettare pertanto il 1798 per veder pubblicato un primo nucleo di tragedie su iniziativa della nobildonna veneta Giustina Renier Michiel, che tradusse l’Othello, il Macbeth e, infine, due anni dopo, il Coriolano (1800). Alla data del 1769, anno in cui Alessandro metteva mano, per la prima volta e per un breve periodo, alla traduzione dell’Hamlet, il suo tentativo traduttorio, quindi, costituiva un caso unico. Ne fu consapevole Pietro, che anni dopo, una volta avuto tra le mani il manoscritto con la versione definitiva, ne proponeva subito la pubblicazione «per dare una idea all’Italia di questo stranissimo e sublime scrittore, del quale altri ne fanno un Dio, altri un pazzo».255 Il Verri continuava così, e senza alcuna frattura apparente, e proprio nel “disimpegno” romano, quell’impegno di svecchiamento e modernizzazione della letteratura italiana che anni prima aveva costituito il programma innovativo e illuministico dei Pugni e del Caffè, in un’apertura significativa al “nuovo” che da un lato avrebbe dato i suoi esiti più complessi proprio nella sperimentazione dei Tentativi
drammatici del 1779 – consapevolmente inserita, come vedremo, in una prospettiva europea -
dall’altro avrebbe consentito all’autore quell’immediato entusiasmo per la novità costituita dal grande tragico alfieriano all’indomani della celebre rappresentazione dell’Antigone a Palazzo di Spagna, il 20 novembre del 1782.
Il relativo “isolamento” culturale rispetto al panorama italiano emergeva, in primis, laddove veniva prepotentemente messa in discussione persino l’autorità del patriarca di Ferney: «Ho veduto che Voltaire o non sa bene questa lingua, o ha voluto, a tutt’i costi, mettere in ridicolo Shakespeare. Ma a torto, perché con tutte le sue stravaganze è un grand’uomo»,256
scriveva a Pietro già nell’agosto del 1769. Era però tra il 1777 e il 1779 che la discussione sul bardo inglese, nel carteggio con il fratello, andava gradualmente a far emergere dei veri e propri giudizi critici, complice la lettura delle pièces da parte di Pietro e la messa a punto verriana dell’Hamlet e il successivo lavoro sull’Othello lungo il ’77.257
Per Alessandro il «divino Shakespeare»,258 era un
254 Cfr. la lettera del 2 luglio 1777 (Carteggio Verri, vol. IX, p. 74) ove ricorda che «Nove anni sono io aveva tradotto
l’Hamlet, ed era il primo che avesse tradotta letteralmente una intiera tragedia di Shakespeare».
255
Carteggio Verri, vol. IX, p. 58. Sulla pubblicazione della traduzione caldeggiata da Pietro Alessandro inizialmente si dimostrò entusiasta, perché «è certo che non abbiamo in italiano una traduzione così fedele» (ibidem, p. 65); ma in seguito il progetto naufragherà per la volontà di pubblicare piuttosto le due tragedie inedite (La Pantea e la Congiura di
Milano): «potendo esser autore mi par meglio di lasciare ad altri quella di traduttore» (ibidem, p. 312).
256
Ivi, vol. III, p. 17. Si può supporre che il Verri faccia qui riferimento alla parafrasi voltairiana del monologo di Amleto inserito nelle già ricordate Lettres philosophiques.
257 Le versioni sono solo parzialmente inedite, perché importanti parti di testo sono state in realtà pubblicate negli studi
di Colognesi (Shakespeare e Alessandro Verri, cit.) e soprattutto di Iacobelli (Alessandro Verri traduttore e interprete
di Shakespeare: i manoscritti inediti dell’Hamlet, cit. e Alessandro Verri traduttore e interprete di Shakespeare: i manoscritti inediti dell’Othello, cit.). Quest’ultima ha inoltre studiato con dovizia di particolari i manoscritti conservati
in AV, cartella 491, fasc. 3-4, che testimoniano soprattutto le modalità di lavoro di Alessandro. Dell’Hamlet (AV. 491.3) esistono in Archivio quattro redazioni (solo due di queste autografe). La prima redazione (18 bifogli sciolti, numerati solo sul recto della prima carta) è interessante, tra l’altro, perché consente di seguire l’itinerario cronologico del lavoro, cominciato l’8 gennaio 1769 e interrotto nell’aprile dello stesso anno (sul bifoglio 14, c. 2r, Verri annotava: «lasciato in aprile 1769 per lo studio del greco, e ripreso li 24 marzo 1772, cioè dopo un triennio»). Nuovamente
184
«vero pittore della natura»,259 «sorprendente mostro di bellezze e di difetti», il cui «colorito» era «ardito, esagerato, strano: è la natura che parla, ma una natura rozza, senza delicatezze e modi sociali»:260 «sono rapito dalla forza, e dalla verità delle sue passioni», confidava al fratello, «ed accanto a lui che corre quasi fiume a piene acque, gli altri tragici mi sembrano limpidi ruscelli».261 E a proposito del Moro di Venezia lo stesso Pietro ribadiva: «Si vede l’uomo originale, che non ha modello avanti a sé, la passione portata al colmo e dipinta esattamente, modi sommamente energici, che ti sottopongono idee di sangue. Che infame quell’Jago! Che virtuosa donna quella Desdemona», e argutamente aggiungeva: «Mi pare che qualche idea possa questa tragedia aver somministrata al vecchio di Ferney per la Zaira».262 Colmo di passione per Shakespeare («Credo che non sia mai esistito un autore più originale»),263 Alessandro ne apprezzava soprattutto quelle parti più altamente drammatiche e “sublimi”, come diceva a Pietro in una lettera del giugno del 1777 a proposito dell’Amleto, in cui si faceva, tra l’altro, il nome di Dante per certi «squarci oscuri» e «certe vecchie canzoni» impossibili ad intendersi persino per i «commentatori»:
I squarci, che a me piacciono singolarmente, sono il monologo di Amleto essere o non essere, questa
la questione ecc.; la di lui scena colla madre, dove gli rimprovera la morte del marito; gli squarci dei
commedianti alla morte di Priamo, la scena fra l’ombra e il figlio e le ultime parole di Amleto moribondo ad Orazio.264
interrotta poco dopo, fu ripresa il «3 marzo 1777 al casino della marchesa» (bifoglio 15, c. 1v) e finalmente conclusa tre giorni dopo, il 6 marzo (bifoglio 18, c. 2r). La seconda redazione autografa (non datata, di19 bifogli, numerati anch’essi solo sul recto della prima carta) rappresenta un avanzamento consistente rispetto alla prima, in quanto i molti passi di difficile interpretazione lasciati in sospeso nella prima versione, qui vengono soggetti ad un più approfondito tentativo interpretativo: Alessandro quindi sintetizza, omette, risolve, molti punti oscuri del dettato shakespeariano, per una versione “ripulita” dell’Hamlet. Sulla datazione appare convincente l’ipotesi di Iacobelli (Alessandro Verri traduttore e
interprete di Shakespeare: i manoscritti inediti dell’Hamlet , cit., p. 132), che ne considera già conclusa la stesura il 9
aprile del 1777 sulla base di una lettera a Pietro che riporta la stessa data, in cui Alessandro informa di aver «ridotta al netto» la tragedia (Carteggio Verri, vol. IX, p. 14). Le ultime due redazioni non autografe, costituiscono due belle copie ordinate della seconda versione del testo: esse furono probabilmente volute da Pietro in vista della pubblicazione, progetto già avanzato ai primi di giugno del 1777 (Carteggio Verri, vol. IX, p. 58). Sappiamo che la prima copia fu fatta trascrivere dal maggiore Verri «dal figlio del Guelfi, che ha assai buon carattere» (Ivi, pp. 53-54). Dell’Othello si possiedono sono due redazioni, entrambe autografe (AV. 491.4). Come per l’Hamlet la prima versione (20 biflogli sciolti numerati solo sul recto della prima carta) presenta la data di inizio e fine del lavoro (19 aprile e 2 luglio) e costituisce la resa letterale del testo, con molte note critico interpretative e passi oscuri evidenziati ma lasciati in sospeso, sciolti o omessi nella seconda redazione definitiva (di 19 bifogli numerati secondo le consuete modalità). Le sparse citazioni dalle traduzioni qui utilizzate sono tratte dalle redazioni definitive. Per un’analisi abbastanza puntuale delle differenze stilistiche tra le diverse copie autografe conservate in AV, si rimanda ai due articoli di Iacobelli già citati.
258 Carteggio Verri, vol. X, p. 301. 259
Ivi, vol. IX, p. 114.
260 Ivi, p. 14 (lettera del 9 aprile 1777).
261 Ivi, vol. X, p. 281 (lettera del 27 maggio 1779). 262
Ivi, vol. IX, p. 105 (lettera del 16 agosto 1777).
263
Ivi, p. 65 (lettera del 19 giugno 1777).
185
Questi giudizi, percepiti significativamente come unici dallo stesso Pietro («Bisogna dire che noi due abbiamo un modo di sentire differente da quello de’ nostri Italiani»),265
affondavano le loro radici nell’attenzione ai diversi spessori del verso shakespeariano avviata dalla cultura classica ed erudita dell’illuminismo inglese, la quale avrebbe contribuito in maniera significativa a creare – soprattutto in pittura e proprio attraverso le edizioni settecentesche del Pope, del Theobald, e del Johnson – una visione estetica dell’opera del drammaturgo «imbevuta di umori irrequieti e pre- romantici», preparando il terreno al «culto romantico del “genio” di Shakespeare come espressione dell’artista completo, capace di forzare i limiti delle codificazioni e di contaminare innovativamente
i generi in una visione complessa e universale delle passioni umane».266 Le tre edizioni menzionate veicolavano, infatti, la fortunata immagine del bardo inglese come «poet
of nature», colui che «hold up to his readers a faithful mirrour of manners of life», i cui «characters are not modified by customs of particular phaces, unpractised by the rest of the world»: «his persons act and speak», sosteneva il Jonhson nella Preface, «by the influence of those general passions and principles by which all minds are agitated, and the whole system of life is continued in motion».267 Autore colmo di «obscurities», soprattutto stilistiche, a causa del frequente uso di «old words»,268 offriva «gli esempi più numerosi e cospicui di bellezze e di difetti d’ogni genere», ma nonostante questi ultimi era «giustamente e universalmente considerato superiore a ogni altro».269 Alessandro, che conosceva le edizioni del Pope e del Theobald,270 echeggiava, quindi, i giudizi critici inglesi nel delineare al fratello la sua visione shakespeariana, e non è forse da escludersi un diretto contatto tra l’autore e gli inglesi presenti in quegli anni nell’ambiente romano, che soprattutto nelle arti figurative – attraverso la resa iconografica dei soggetti del drammaturgo – imponevano alla pittura accademica una «decisa virata verso il sublime rivoluzionandone profondamente il linguaggio»:271 «Gl’inglesi lo adorano, e questa opinione è comunissima fra’
265
Lettera del 19 maggio 1779, in ivi, vol. X, p. 276: «Io leggo con sentimento la traduzione di questo autore, che non piace a nessuno di quanti ho interrogati e che m’interessa il cuore. Bisogna dire che noi due abbiamo un modo di sentire differente da quello de’ nostri Italiani. Essi si accontentano delle cose anche mediocri purché non abbiano difetti; noi troviamo piacere ne’ tratti grandi, belli, energici, collocati in mezzo anche ai difetti». Ritornerà su questo concetto anche nel maggio del 1780: «Io non conosco un uomo solo a cui piaccia Shakespeare; non a Carli, non a Beccaria; noi due soli siamo di questo umore» (Ivi, vol. XI, p. 72).
266 F. Castellani, «Offrire all’occhio le immagini che lo scrittore offre alla mente». Percorsi shakespeariani nella
pittura inglese tra Sette e Ottocento, in Shakespeare e le arti. Materiali e ricerche per una scenografia shakespeariana,
a cura di G. Ricchelli, Padova, Libreria Universitaria, 2012, pp. 55-74, pp. 55-6.
267 S. Johnson, Preface to Shakespeare, in Id., The works of Samuel Johnson, London, Luke Hansard, vol. II, 1806, p.
136.
268 L. Theobald, The words of Shakespeare: in eight volumes, London, Hicth et al., vol. I, 1762, p. XXXIX. 269
A. Pope, Prefazione all’edizione delle Opere di Shakespeare (1725), in La fortuna di Shakespeare (1593-1964), a cura di G. Baldini, Milano, Il Saggiatore, vol. I, 1965, p. 21.
270 L’edizione del Pope viene citata in una lettera del 19 giugno 1777 (Carteggio Verri, vol. IX, p. 65). Per il Theobald,
esso compare in una delle annotazioni autografe della prima redazione manoscritta dell’Hamlet, come già sottolineato da Colognesi, Shakespeare e Alessandro Verri, cit., p. 200.
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letterati insigni, e fra le dame, e fra la plebe, e fra gli uomini di mondo i più voluttuosi. Non ho sentito un inglese finora parlarmi di tal autore senza ammirazione».272
Come la critica ha ormai messo in chiaro, l’attenzione al tragico shakespeariano, e in particolare a pièces come l’Amleto e l’Othello, ove «eminentemente si accampano le componenti più irrazionali dell’esperienza morale, passioni eccessive, mostruose»,273
correva parallela alla riflessione teorica sull’Iliade omerica,274
e affondava le sue radici in «quel pirronismo conoscitivo»,