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TRA ANTICO E MODERNO LE TRADUZIONI E LA STAGIONE DELLE TRAGEDIE (1769-1782)

Premessa

In una lettera tarda, datata 30 gennaio 1793 e indirizzata all’amico Gianrinaldo Carli, Alessandro Verri indicava retrospettivamente uno spartiacque nella sua vicenda intellettuale, caratterizzata da un “prima”, il periodo milanese della giovinezza segnato dalla lettura dei «moderni Filosofi», e da un “dopo”, intriso invece del «gusto degli antichi». Scriveva il Verri al Carli:

Io vi assicuro che fino dalla mia gioventù, avendo pur voluto leggere i moderni Filosofi, me ne sono subito disgustato, benché vivessi in una società, la quale grandemente si burlava di questa mia stupidezza. Non ho mai potuto reggere alla lettura del famoso «Esprit», perché si compiace di togliere all’uomo l’anima e la virtù. Non ho potuto resistere alla lettura della nuova Eloisa, perché, con una morale falsa e insidiosa, vuole intenerirmi sulle avventure di un maestro che seduce una fanciulla. Tutte le opere filosofiche francesi avevano per me del maniaco, e la posata gravità, moderazione, gusto degli antichi è stato il porto, in cui mi sono ritirato per sempre. Con queste massime e queste inclinazioni, potrete facilmente congetturare quanto io fossi deriso e stimato quasi fuor di senno dalle caldissime persone con le quali allora vivevo.1

Anche se il Verri sembra qui riferirsi ad un conflitto emergente già durante gli anni trascorsi a Milano sotto la tutela di Pietro, il trasferimento nella patria degli Scipioni non fece, in fondo, che radicalizzare, proprio nell’atmosfera neoclassica della Roma winckelmanniana del secondo Settecento, quelle convinzioni già prepotentemente emerse durante il viaggio europeo. La sempre più fervida ammirazione per lo stile filosofico humiano, caratterizzato da «gräce» e «clarté»,2 unita ora allo studio programmatico della lingua degli scrittori classici – soprattutto i greci, Plutarco, Demostene, Isocrate e, infine, su tutti, Omero – intrapreso fin dal primo periodo di permanenza nella capitale pontificia, accresceranno la passione verriana verso l’antichità classica, intesa come modello etico («posata gravità, moderazione») e poetico: lo stile greco, dirà infatti Alessandro, è «chiaro, elegante, nobile e di buon tuono; se è sublimità lo scrivere lunghe opere, senza dir nulla di sguaiato, di sconcio o di strano, questa sublimità trovo ne’ greci».3

1 Udina, Alessandro Verri e Gianrinaldo Carli. Lettere inedite, cit., pp. 137-138. L’Udina, nella nota al testo, confonde

erroneamente l’Esprit di Helvétius con l’Esprit des Lois di Montesquie: in realtà Alessandro faceva esplicito riferimento al primo, giusta il commento che ne seguiva («si compiace di togliere all’uomo l’anima e la virtù»); Helvétius, inoltre, come si è osservato, era stato un riferimento importante nella stesura del Saggio di morale cristiana.

2 Brunet, Philosophie et Esthétique chez David Hume, cit., p. 111, ma si veda l’intero paragrafo (L’écrivain) che

l’autore dedica allo stile di David Hume, pp. 109-113; ma cfr. anche p. 50 e ss. Per l’ammirazione verriana della scrittura humiana cfr. la già citata lettera del 5 marzo 1768, in Carteggio Verri, vol. I/II, pp. 203-5.

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Complice silenziosa della passione per il goût grec, di questa vera “grecofilia” verriana destinata col tempo a crescere e ad approfondirsi («sono greco, grechissimo, sino alla esinanizione», diceva entusiasta a Pietro in una lettera del novembre 1769)4 - unita a molte altre sulle quali si tornerà (una fra tutte, l’antiquaria intesa come attività commerciale) - si era rivelata sin dall’inizio proprio Roma:5 suprema «custode delle antichità greco-romane e luogo d’incontro di eruditi, mercanti, artisti, intellettuali in genere», e massima «culla e centro di elaborazione della cultura neoclassica».6 Altro grande centro fu inoltre Napoli: le scoperte di Ercolano e di Pompei avvenute, com’è noto, rispettivamente nel 1738 e nel 1748, erano infatti ancora in grado, a distanza di anni, di

suscitare un trepidante stupore, misto al rigore razionalistico della critica illuminista.7 Come ha sottolineato Gennaro Barbarisi,8 la città dei Papi divenne il principale polo d’attrazione del

4

Ivi, p. 120 (lettera del 21 novembre 1769).

5 Non è da escludere, però, il ruolo giocato dal soggiorno parigino: non solo, come si è visto, a Parigi alcuni tra gli

Enciclopedisti come D’Alembert conoscevano il greco, recitando «a memoria dei squarci d’Omero e di altri scrittori» (cfr. Carteggio Verri, vol. III, p. 101), ma anche lì il “gusto greco” divenne “una mania”. Scrive H. Honour,

Neoclassicism, 1968 (ed. italiana Torino, Einaudi, 1980), p. 17: «tutto a Parigi era à la grecque, scriveva Grimm nel

1763: gli esterni e gli interni degli edifici, i mobili, le stoffe, i gioielli. “Le nostre dame hanno i capelli acconciati à la

grecque, i nostri petits maître si vergognerebbero di avere una tabacchiera che non fosse à la grecque”».

6 L. Barroero, Le arti e i Lumi. Pittura e scultura da Piranesi a Canova, Torino, Einaudi, 2011, p. 4. Il lungo saggio

della Barroero, pur incentrato, com’è ovvio, sulle arti figurative, offre notevoli spunti di riflessione – preziosi anche per lo storico della letteratura - sulla cultura che viene ormai abitualmente definita col termine di «neoclassicismo» (che l’autrice colloca, giusta il titolo, lungo l’arco temporale compreso tra l’attività di Giovanni Battista Piranesi e di Antonio Canova), riprendendo, in particolare, la discussione critica esistente sul tema, a partire da una sintesi dei più importanti volumi storico-artistici ad essa dedicati, come R. Rosenblum, Transformation in Late Eighteenth-Century

Art, 1967 (trad. it., Roma, NIS, 1984, e ora Roma, Carocci, 2002) e Honour, Neoclassicism, cit., fino agli studi più

recenti sull’arte e la cultura neoclassica offerti da A. Pinelli (Il Neoclassicimo nell’arte del Settecento, Roma, Carocci, 2005) e O. Rossi Pinelli, Le arti nel Settecento europeo, Torino, Einaudi, 2009. Dal punto di vista della storia letteraria, oltre alla bibliografia appena citata, si veda l’efficace sintesi di G. Barbarisi, La cultura neoclassica, in Storia letteraria

d’Italia, nuova ed. a cura di A. Balduino, L’Ottocento, I, Padova, Vallardi, 1990, pp. 123-161.

77A proposito dell’importanza di Ercolano e Pompei per la formazione del gusto neoclassico cfr. M. Praz, Gusto

neoclassico, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1959 (seconda ed.), pp. 73-96, p. 74: «v’è qualcosa di prodigioso in

una città che dopo secoli torna alla luce del sole, come v’è qualcosa di prodigioso in una piccola nave che rileva un continente; Ercolano, poi, se proprio non determinò l’avvento del neoclassicismo, molto poté a conferirgli quel carattere di grazia alessandrina che ne distingue le opere più attraenti». In uno studio importante A. Ottani Cavina, Il Settecento

e l’antico, in Storia dell’Arte italiana. Dal Cinquecento all’Ottocento, vol. II, Settecento e Ottocento, Torino, Einaudi,

1982, pp. 559-660, illustra due diversi atteggiamenti nei confronti delle antichità di Ercolano e Pompei: da un lato, la critica illuminista, che nei tesori antichi ritrovati coglieva «accanto al dato della loro bellezza, quella razionalità e funzionalità in grado di promuovere la riqualificazione sociale, che l’Illuminismo appunto si era proposto» (p. 605); dall’altro, e allo scadere del secolo, una sensibilità già preromantica, nella quale prevale piuttosto, «nella cerchia degli amici di Goethe, il tema della risonanza nella memoria e nella psiche dei posteri, aprendo la strada alla poesia sepolcrale e alla fascinazione arcana delle rovine» (p. 615). Si veda alla luce di queste osservazioni come Alessandro discute di Pompei («Pompeia») in una lettera a Pietro del 9 novembre 1769 (in Carteggio Verri, vol. III, p. 59), secondo un atteggiamento ancora vicino alla prima “tipologia”: «Mi dicono […] già è scoperta una porta della città con parte della strada. Si è trovato un quartiere di soldati colle armature d’ogni sorta; un bagno con uno scheletro, che pare esser stato una donna di condizione, ch’era al bagno, quando la città fu sommersa dalla lava: il suo gesto è in atto di difendersi una rovina: e mi dicono che la lasciano stare così. Si è trovata una prigione colle catene ancora legate alle ossa; un’ara di sacrificio con sopra le ceneri; e così cento altre curiosità simili. Ad Ercolano, poi, è interessantissima la serie di tutti gl’istromenti che servono agli usi della vita; vasi d’ogni sorte, batteria di cucina, armi, ecc.»

8Dal saggio del Barbarisi, La cultura neoclassica, cit., p. 124, riprendiamo in questa sede la definizione di

«neoclassicismo» come «complesso movimento, sorto all’interno dell’illuminismo, che, intrecciando variamente l’incontro del moderno con l’antico, percorre tutte le manifestazioni della vita intellettuale, pubblica, dello spettacolo, del costume, in Europa e subito dopo anche in paesi extraeuropei. […] All’origine del neoclassicismo si riconosce il proposito di una risoluta reazione (la critica è arrivata a parlare per le arti figurative della volontà di determinare una

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movimento neoclassico «per la politica mecenatesca dei papi da Clemente XII in avanti e il conseguente incremento degli scavi e l’apertura dei grandi musei, per l’opera di Piranesi (che, anche su suggestione vichiane, creò il mito dell’architettura romana e della grandiosità delle rovine), per il mercato antiquario, per il diffuso interesse alla linea pittorica estranea al manierismo […]; per il fascino esercitato dalla corte pontificia e dalle spettacolari cerimonie religiose – una meta d’obbligo per tutti i “dilettanti” e gli “antiquari”, e un centro cosmopolita d’incontro di dimensioni mai prima conosciute».9 Tra i principali promotori di questo fermento culturale vi erano in origine Anton Raphael Mengs (a Roma dal 1751, vi morì nel 1779) e Johan Joachim Winckelmann (1717-1768), anch’egli nell’urbe a partire dal 1755;10

quest’ultimo, in particolare, con le grandi opere realizzate tra il ’55 e il ’67,11

non aveva solo sostenuto il «principio della priorità della filosofia dell’arte […] su ogni attività intellettiva», ma proponeva, soprattutto, «l’individuazione di un ideale di vita universale proposto alla nuova civiltà e derivato dalla formula “nobile semplicità e quieta grandezza” (“edle Einfelt und stille Grösse”) quale carattere distintivo ed esemplare della grecità»: formula che «mentre vagheggia il dominio delle passioni […], non intendeva tuttavia escludere la capacità dell’artista di destare profonde e intense sensazioni (“toccar il cuore”, come aveva detto Du Bos), secondo l’estetica del “sublime” […], senza mai alterare la natura della “grazia”».12

Questo significava, in pittura come in letteratura e nelle arti in genere,13 un recupero di elementi e motivi – di natura stilistica quanto contenutistica – dell’“antico” (non solo l’antichità classica, ma anche “altre” antichità, come l’etrusca o l’egizia),14

il cui paradigma – uno dei possibili, ma qui privilegiato in quanto fortemente vicino al Verri, che vi trascorse del tempo - può considerarsi la

situazione di “tabula rasa”) contro tutte le forme puramente decorative e irrazionali dell’arte, identificate col barocco e col rococò, in nome dei principi di chiarezza linearità razionalità, vale a dire la semplicità come forma naturale della verità, emergenti in una fase storica premonitrice di imminenti grandi trasformazioni ideali e sociali».

9

Ivi, p. 125.

10 Il due luglio 1768 Alessandro a Pietro la morte, avvenuta a Trieste, in questi termini: «L’abate Winckelmann uomo di

merito e giudizioso antiquario, autore dell’Art des Anciens ed altre opere, tedesco di nazione, che abitava in Roma, è stato assassinato a Trieste da un fiorentino, che gli si fece compagno di viaggio nel suo ritorno da Vienna» (Carteggio

Verri, vol. I/II, p. 345.

11 Pensieri sull’imitazione della pittura e scultura dei Greci (1755), Storia dell’arte antica (1764) e Monumenti antichi

inediti (1767). Barbarisi, La cultura neoclassica, cit., p. 126-27, sostiene che l’opera del Winckelmann ebbe ampia

risonanza non solo nella cultura tedesca, ma «anche nel movimento generale – presente in tutte le culture europee – d’interesse per l’antichità e per il primitivo (non senza incisivi influssi roussoiani), con una drammatica contemplazione dell’età aurorale ed edenica della civiltà e con un’intensa aspirazione – d’impronta illuministica e nata dalla crisi della società aristocratica – alla definizione e realizzazione di un progetto utopico di vita ideale, fondato sui nuovi valori di virtù civili e libertà». L’opera del Winckelmann fu inoltre presente nella trattatistica e nella storiografia artistica dell’ultimo Settecento (dalle riflessioni di Giuseppe Spalletti e Saverio Bettinelli fino a Luigi Lanzi).

12 Ivi, p. 126.

13 Diviene impossibile separare – come si preciserà nel corso dei capitoli seguenti – la produzione letteraria del Verri

dal linguaggio figurativo che si impone a Roma nel secondo Settecento. In questo senso si fa proprio l’assunto di W. Binni, Classicismo e neoclassicismo nella letteratura italiana del Settecento, Firenze, La Nuova Italia, 1976, pp. 123- 24, secondo cui gran parte della letteratura italiana della seconda parte del secolo «si precisa intorno a motivi ideali, a temi ispirativi, a moduli stilistici mutuati in gran parte alla descrittiva e precettistica figurativa winckelmanniana e mengsiana». Dal punto di vista metodologico, dunque, «è proprio dagli studi di storia dell’arte che è necessario partire per comprendere il movimento [neoclassico] nella sua complessità» (Barbarisi, La cultura neoclassica, cit., p. 156).

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celebre villa del cardinale Alessandro Albani a Porta Salaria, epitome del gusto neoclassico romano e «proiezione emblematica del gusto antiquario sulla metà del secolo, nelle sue punte più appassionate»,15 nella quale il Winckelmann assunse il ruolo di bibliotecario a partire dal 1755: i suoi interni riproducevano motivi decorativi e pittorici che mentre si rifacevano all’arte italiana del Cinquecento – su tutti, i raffaelliti -, recuperavano al contempo tecniche artistiche antichissime, come ad esempio il mosaico e offrivano alla vista dei visitatori amici del cardinale - oltre che una delle più famose raccolte di sculture antiche di tutto il secolo – il grandioso manifesto pittorico del primo neoclassicismo winckelmanniano, il Parnaso (1761) del Mengs, opera volta a «ricreare un sogno di perfezione classica attraverso una sintesi di scultura antica e dipinti di Raffaello».16 Se Roma fu così «la Mecca dei dilettanti di tutti i paesi»17 che volevano essere educati all’antico, i suoi dintorni urbani e suburbani, come già si è anticipato, costituivano pure uno scenario privilegiato. Rispetto alle frequenti «scorrerie sull’antico», avvertiva Alessandro, «non si perde mai il gusto, per esser Roma un vero caos, che non ha fondo, in questo genere», mentre narrava a Pietro le sue scoperte di «musaici di pietre dorate»: «In più di una chiesa antica, ed in una fra le altre, fabbricata a’ tempi di Giustiniano, ho ritrovato i musaici di pietre dorate con di sopra vetro, o talco

che siasi, come quelle che tu hai del tempio di S. Sofia, fabbricata pure da Giustiniano».18 In un’altra gita a Tivoli, il Verri insisteva invece a descrivere nuovamente «le varie belle cose che vi

sono»:

Sono molto considerabili le rovine della villa di Adriano: vi sono avanzi di piazze per le palestre, di tempî, di bagni, un teatro, un parco per le fiere, ecc.: fanno molto piacere alcuni avanzi di ornamenti di volte in pittura ed in stucco. E molto bello in Tivoli il tempio, detto della Sibilla Tiburtina, piccolo, rotondo, ma di eccellente architettura, e così ben conservato che due terzi sono in piedi. Egli è situato sopra uno scoglio, di sotto al quale il fiume Aniene fa la famosa cascata, e si perde nella così detta grotta dell’inferno, riscaturendo più in giù per formare, nella profonda valle, due altre cascate, che sembrano di latte, perché tutte spumose. Vi sono dei grandi avanzi della villa di Mecenate; ed è sorprendente il vedere come al terzo piano del palazzo enorme, scorra in un largo canale il fiume Aniene.19

15 Ottani Cavina, Il Settecento e l’antico, cit., p. 629. 16

Honour, Neoclassicismo, cit., p. 20. Le ancora fondamentali osservazioni di Honour rispetto a quest’opera del Mengs («in cui si ritrovano tante idee dei teorici e artisti del primo neoclassicismo») meritano di essere riportate per esteso: «Perseguendo la “nobile semplicità e la calma grandezza” esaltate dal Winckelmann, Mengs evitò gli effetti coloristici, le soluzioni compositive strettamente intrecciate, le profonde fughe in profondità e gli accorgimenti illusionistici dei pittori di soffitti barocchi: e per farlo capire ben chiaramente mise a fianco del Parnaso due tondi dipinti a colori più caldi, con chiaroscuro più deciso e una prospettiva a trompe l’oeil. E in innumerevoli particolari esibì la sua notevole erudizione. Se in astratto fosse possibile realizzare un capolavoro, questo ne sarebbe uno. È facile capire perché colpisse coloro che ammiravano i marmi greco-romani esposti sotto di esso […]». Ivi, pp. 19-20.

17

Ivi, p. 19.

18

Carteggio Verri, vol. II, p. 66 (lettera del 22 ottobre 1768).

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Alessandro appariva sin dall’inizio, dunque, totalmente immerso nella humus romana, inserito in un tessuto politico fortemente caratterizzato dal punto di vista storico-sociale. La doppia specificità storica – come capitale dell’antico Impero romano – e sociologica – presenza massiccia di cardinali e principi della Chiesa in grado di attirare a sé artisti ed intellettuali forestieri, e costituire importanti collezioni pubbliche e private -20 faceva di Roma una «capitale del mondo»21 e un unicum nel panorama letterario e artistico già dalla seconda metà del Seicento, come dimostra efficacemente anche il numero elevato di musei, «plus de cent cinquante au mileu du XVII° siecle dont l’ècrasante majorité se compose de tableaux, d’antiques, de mèdailles et de cammées».22

Accanto ai musei pubblici esistevano, come si è detto, le collezioni private dei cardinali e, più in generale, di uomini e donne della media e alta aristocrazia che aprivano i loro gabinetti culturali e i loro salotti non solo ai Grand Tourists europei che giungevano numerosi, ma anche alle curiosità di intellettuali italiani residenti nella Città eterna. Fu in questa particolare dimensione di relazionalità cerimoniosa e colta a un tempo che si colloca l’incontro con la marchesa Margherita Sparapani Boccapaduli Gentili, la dama romana animatrice di uno dei salotti illuministici più vivaci della Roma pio-clementina.

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Margherita Sparapani Gentili Boccapaduli: la nobildonna, il suo salotto e la