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Alessandro Verri e la cultura del suo tempo. Milano, Roma e l'Europa (1741- 1816)

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI ROMA TRE

DOTTORATO DI RICERCA

IN

ITALIANISTICA

Ciclo XXVIII

ALESSANDRO VERRI E LA CULTURA DEL

SUO TEMPO. MILANO, ROMA E L’EUROPA

(1741-1816)

Dottoranda

CLAUDIA MESSINA

Coordinatore Dottorato

PROF. GIUSEPPE LEONELLI

Relatore

PROF. LUCA MARCOZZI

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Ringraziamenti

Desidero ringraziare il mio relatore, il professore Luca Marcozzi, per aver generosamente sostenuto e seguito dall’inizio con estrema serietà e professionalità il mio lavoro di ricerca, per i preziosi consigli e per il rigore metodologico trasmessomi, insegnamento prezioso che custodirò gelosamente per tutta la vita. La mia gratitudine va poi ai professori Giuseppe Izzi, attento e scrupoloso lettore delle mie pagine, che ringrazio anche per gli importanti suggerimenti, e Rossana Caira Lumetti, sempre presente e sempre pronta ad ascoltarmi e sostenermi, amica e consigliera

preziosa oltre che grande modello intellettuale. Ringrazio anche la dott.ssa Francesca Gaido e la dott.ssa Barbara Costa della Fondazione Raffaele

Mattioli, per l’amicizia, la disponibilità e la gentilezza dimostratami durante il soggiorno a Milano e durante le interminabili conversazioni telefoniche dedicate ai materiali manoscritti presenti in Archivio Verri. Un grazie va anche al dott. Michele Di Sivo dell’Archivio di Stato di Roma per la disponibilità e la professionalità dimostratami in diverse occasioni. Un pensiero speciale è inoltre rivolto ai miei amici e colleghi di dottorato, studiosi generosi, brillanti e appassionati: Paolo Rigo, Giulia Spoltore, Vincenza Accardi e Veronica Albi hanno reso le lezioni, i seminari e i convegni sempre occasioni intelligenti di incontro e di confronto vivace sia sui temi della letteratura sia su quelli della vita. Un grazie va infine alla mia grande e bellissima famiglia. Ai miei genitori, innanzitutto, che hanno reso possibile da tutti i punti di vista la mia attività di ricerca; ai miei adorati nonni, Nino, Grazia e Alma, sempre pronti all’ascolto e al sostegno morale; a Ester e Franco, maestri e modelli indiscussi di vita professionale e dispensatori incondizionati di affetto; a mia sorella Giulia, sempre allegra e sempre pronta a consolarmi e a strapparmi un sorriso nei moltissimi momenti di difficoltà vissuti in tanti anni di studio. E infine il grazie più grande va a Francesco, compagno di vita, studioso brillante e interlocutore prezioso, capace di alleviare lo sconforto e la fatica solo attraverso la sua presenza silenziosa ma rassicurante: al suo amore devo la maggior parte di ciò che di buono ho fatto durante gli anni universitari. È a lui che dedico questo lavoro.

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INDICE

Introduzione……….p. 1

CAPITOLO I: Gli anni della giovinezza a Milano (1741-1766)

1. Gli anni della formazione e l’Accademia dei Pugni………p. 11 2. Il dibattito sulle monete e i primi scritti………...p. 20 2.1. Il Saggio di Morale Cristiana e la riflessione etica verriana………p. 22 3. Dalla grande impresa storiografica al Caffè……….p. 31

3.1. L’attività giuridica e l’uscita del Dei delitti e delle pene………...p. 32 3.2. Alessandro Verri nel Caffè………..p. 44 3.3. «Chi conosce la storia si contenta anche solo dell’assenza de’ mali». Il Saggio sulla Storia

d’Italia……….p. 60

CAPITOLO II: Il grande viaggio e il primo soggiorno romano (1766-1768)

1. Il grande viaggio e la descrizione verriana………p. 75 2. Parigi e la coterie filosofica………..p. 84 2.1 Le «tempetes des resonements» e l’emergere del disincanto……….p. 91 3. Il soggiorno a Londra……….p. 105 4. Il viaggio in Italia e l’arrivo a Roma………..p. 115

4.1 Il primo soggiorno romano e l’abbandono progressivo del Saggio sulla Storia d’Italia.. ………p. 122.

CAPITOLO III: Tra antico e moderno. Le traduzioni e la stagione delle tragedie politiche (1769-1781).

Premessa………...p. 136

1. Margherita Sparapani Boccapaduli Gentili: la nobildonna, il suo salotto e la cultura romana degli anni Settanta e Ottanta del Settecento……….p. 140

2. Gli studi classici e la traduzione omerica………..p. 161

3. Le traduzioni inglesi e i Tentativi drammatici

a. L’apprendistato tragico: Shakespeare………p. 180 b. I Tentativi drammatici: forme e modelli della drammaturgia verriana…………...p. 194

c. Le altre tragedie e l’incontro con Vittorio Alfieri……….p. 214

CAPITOLO IV: La stagione dei romanzi (1781-1789)

1. Le avventure di Saffo poetessa di Militene………p. 227 2. Navigazione dell’ingegno a caso e il distacco da Pietro……… .p. 253

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3. Le Notti romane

3.1. Occasione, struttura e ideologia………p. 265 3.2. Le rovine, la «non-storia» e il successo di pubblico delle Notti romane……….p. 281

CAPITOLO V: L’ultimo Verri (1790-1816)

1. Gli anni della «Rivoluzione di Francia» e della Repubblica Romana Roma

1.1. Roma, tumulti rivoluzionari e il soggiorno marchigiano……….p. 290 1.2. Il viaggio in Italia……….p. 310 2. Il confronto finale con la storia: le Vicende memorabili e La vita di Erostrato……….p. 332

Appendice di documenti………..p. 348

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Introduzione

Intellettuale di spicco della Milano illuminista e uno dei maggiori giornalisti del periodico Il

Caffè, poi traduttore, drammaturgo, romanziere ed erudito di punta della Roma neoclassica di fine

ancien regime, Alessandro Verri (1741-1816) si impone nel panorama critico come una delle figure più significative e rappresentative della cultura italiana di fine Settecento e primo Ottocento, interprete tra i più complessi delle tensioni e delle contraddizioni di tutta un’età. Solitamente indicato come uno degli esempi paradigmatici dell’evolversi della cultura settecentesca dall’impegno riformatore ed illuministico «a un classicismo intriso di venature macabro-sentimentali e di preannuncio della sensibilità preromantica», in un mutamento di «forme letterarie che riflette l’approdo a una nuova prospettiva ideologica» maturata nel corso di tutta una vita e alla luce dei grandi eventi politici e culturali cui si trovò testimone e protagonista,1 del giovane letterato lombardo manca a tutt’oggi una biografia intellettuale completa, le uniche esistenti essendo quella ottocentesca di Giovanni Antonio Maggi e quella primo-novecentesca di Antonio Lepreri.2 L’obiettivo del presente lavoro è stato, dunque, quello di fornire un profilo storico-intellettuale quanto più ricco possibile del Verri e dei suoi molteplici interessi, e delineare attraverso la sua figura, che assunse nel suo tempo un ruolo centrale per il dibattito culturale, un quadro della storia

letteraria e culturale – italiana e romana – tra Settecento e primo Ottocento. La ricerca, di carattere storico-letterario, si è per questo concentrata, da un lato, sulla ricostruzione

completa del pensiero intellettuale dell’autore e dell’affascinante “trama” dei fatti che lo hanno visto protagonista (relazioni, letture, viaggi, eventi storici e movimenti culturali), dall’altro sull’esame dell’intera sua produzione, milanese e romana, edita e inedita. Seguendo un percorso rigorosamente cronologico sono stati individuati cinque grandi momenti della biografia verriana: gli anni della giovinezza a Milano e la collaborazione al Caffè; il momento del Gran Tour a Parigi e Londra e il primo soggiorno nella Roma dei Papi; la ricca stagione romana della traduzione dell’Iliade omerica e delle piecès shakespeariane, lavori che segneranno l’emergere dell’interesse per la scrittura drammaturgica e condurranno Alessandro alla scrittura in proprio di cinque tragedie d’argomento amoroso e politico (delle quali solo due saranno pubblicate dall’autore); e infine la stagione dei romanzi (Le avventure di Saffo, Le Notti romane e La vita di Erostrato) e della Rivoluzione con la stesura dell’opera storiografica della maturità, Le vicende memorabili dal 1789

1 T. Scappaticci, Alessandro Verri dall’illuminismo alla reazione, in Id., Fra “lumi e reazione”. Letteratura e società

nel secondo Settecento, Cosenza, Pellegrini 2006, pp. 69-92, p. 69.

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G. A. Maggi, Vita di Alessandro Verri, in A. Verri, Opere, Milano, Società Tipografica dei classici italiani, 1822, ripubblicata poi in Vicende memorabili dal1789 al 1801 narrate da Alessandro Verri. Precedute da una Vita del

medesimo, Milano, Guglielmini, 1858, pp. 1-68. Le citazioni che seguono sono tratte da questa edizione. La seconda: A.

Lepreri, Studio biografico e critico su Alessandro Verri e le Notti romane, Roma, Camerino, 1900. Ma si veda anche la breve, e tuttavia sottile, Nota bio-bibliografica di R. Negri in A. Verri, Le Notti romane, a cura di Negri, Bari-Roma, Laterza, 1967, pp. 531-47.

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2 al 1801, cronistoria dei fatti europei a seguito degli eventi di Francia. Chiude il lavoro un’appendice

che riunisce vari documenti inediti di carattere storico-letterario.

In una significativa lettera del 30 gennaio 1793 indirizzata all’amico ed ex caffettista Gianrinaldo Carli, Alessandro Verri indicava retrospettivamente uno spartiacque nell’intera sua vicenda intellettuale, caratterizzata da un “prima”, il periodo milanese della giovinezza segnato dalla lettura dei «moderni Filosofi», e da un “dopo”, intriso invece del «gusto degli antichi». Scriveva il Verri al Carli:

Io vi assicuro che fino dalla mia gioventù, avendo pur voluto leggere i moderni Filosofi, me ne sono subito disgustato, benché vivessi in una società, la quale grandemente si burlava di questa mia stupidezza. Non ho mai potuto reggere alla lettura del famoso «Esprit», perché si compiace di togliere all’uomo l’anima e la virtù. Non ho potuto resistere alla lettura della nuova Eloisa, perché, con una morale falsa e insidiosa, vuole intenerirmi sulle avventure di un maestro che seduce una fanciulla. Tutte le opere filosofiche francesi avevano per me del maniaco, e la posata gravità, moderazione, gusto degli antichi è stato il porto, in cui mi sono ritirato per sempre. Con queste massime e queste inclinazioni, potrete facilmente congetturare quanto io fossi deriso e stimato quasi fuor di senno dalle caldissime persone con le quali allora vivevo.3

Effettivamente, a ripercorrere l’intera parabola artistica di Alessandro ci si imbatte nel forte dualismo tra antico e moderno, variamente ribadito da tutti i maggiori studiosi verriani, il cui momento di snodo viene solitamente individuato nel 1767, l’anno di arrivo nella Roma dei Papi Braschi e Ganganelli, che segnerebbe il momento di allontanamento dalla moderna filosofia per l’approdo definitivo al «porto» tranquillo e sicuro dei classici. Più interessante appare, tuttavia, la linea di continuità ribadita dallo stesso Verri al Carli, laddove Alessandro dichiara di essere stato, e fin dai tempi del Caffè, «disgustato» da tutte quelle «opere filosofiche francesi» acclamate e studiate dall’intera l’Accademia dei Pugni di Pietro Verri e compagni - avidi lettori di Helvétius come di Rousseau - e di essere stato, per questo, «deriso e stimato quasi fuor di senno» da tutta la compagnia. Questa dichiarazione diventa allora più che mai significativa laddove la si consideri nel panorama della critica verriana, che ha a lungo sottolineato, a partire dalla fine dell’Ottocento e per tutta la prima metà del secolo successivo, l’inconciliabilità dei due volti dell’autore che dai giovanili anni riformistici del periodico illuminista approda poi alle posizioni conservatrici e reazionarie del disimpegno romano, tutto volto all’ozio erudito e ai piaceri dell’immaginazione, in

3 M. Udina, Alessandro Verri e Gianrinaldo Carli. Lettere inedite, «Pagine Istriane», pp. 137-138. L’Udina, nella nota

al testo, confonde erroneamente l’Esprit di Helvétius con l’Esprit des Lois di Montesquie: in realtà Alessandro faceva esplicito riferimento al primo, giusta il commento che ne seguiva («si compiace di togliere all’uomo l’anima e la virtù»); Helvétius, inoltre, come si è osservato, era stato un riferimento importante nella stesura del Saggio di morale

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un’opposizione rigida tra un “prima” e un “dopo” che rischia oggi, però, di divenire fuorviante. Questa posizione, infatti, è stata già in parte rivista da tutta una serie di studi che a partire dai lavori pioneristici di Walter Binni e Marco Cerruti4 si sono piuttosto concentrati sulla messa a fuoco problematica della singolarità del percorso intellettuale verriano, non del tutto richiudibile in un andamento scontatamente lineare e univoco, quanto invece estremamente ricco e diversificato, spregiudicatamente rivolto alle più diverse e significative esperienze culturali europee e soprattutto drammaticamente volto a sondare i limiti delle più importanti posizioni ideologiche delle Lumières, in uno scontro dialettico tra raison e sensibilité assai più complesso di quanto non appaia dallo schematismo antinomico di un Verri “milanese” e di uno “romano”.

Alla luce di ciò, un’analisi capillare e profonda della fase milanese diventa imprescindibile, perché è appunto nell’attività della giovinezza – quella giornalistica e quella storica – che possono rintracciarsi le premesse della successiva “evoluzione” dell’autore, come lo stesso Alessandro suggeriva del resto nella lettera sopra citata all’amico Carli: acquisizione critica interessante, quest’ultima, se la si consideri da un punto di vista retrospettivo, perché ciò pone di fatto Alessandro Verri – lucido quanto disincantato critico dell’Illuminismo – in una posizione anticipatrice rispetto a quegli intellettuali che solo in seguito, e ormai a Rivoluzione avvenuta, sperimenteranno il distacco dalle Lumières e la delusione del crollo delle speranze di rinnovamento

della società.

Rispetto a questo discorso, che costituisce una delle linee di ricerca privilegiate, la ricostruzione del periodo della giovinezza e delle letture del Verri ha consentito di far luce sulla sua formazione intellettuale e chiarire ancor meglio i termini della questione, anche, e soprattutto, attraverso lo studio dell’imponente materiale manoscritto conservato a Milano all’Archivio Verri presso la Fondazione Raffaele Mattioli per la storia del pensiero economico. Tra le carte d’Archivio, ad esempio, è stato rintracciato un interessante e finora sconosciuto documento autografo5 contenente una lista dettagliata delle materie e degli autori studiati da Alessandro durante la stagione dei Pugni e del Caffè (1764-1766). Si definisce così, com’è prevedibile, un Verri grande lettore delle correnti più avanzate dell’Illuminismo d’oltralpe: vi compaiono, infatti, specie nella sezione di «Metafisica e morale», i testi chiave della philosophie europea di marca moderata – Montesquieu, Voltaire, Hume e il primo Diderot – accanto ai più spregiudicati, come l’Helvétius dell’Esprit e allo stesso Rousseau, tutti autori del resto ben presenti nelle pagine del periodico illuminista. Eppure, proprio all’interno di molti articoli della rivista scritti da Alessandro e soprattutto nella poco nota Storia

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W. Binni, Preromanticimo italiano (1948), Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1959² (poi Roma-Bari, Laterza, 1974; indi Firenze, Sansoni, 1958, 3 voll.).

M. Cerruti, Alessandro Verri tra storia e bellezza, in Id., Neoclassici e giacobini, Milano, Silva, 1969, pp. 17-114.

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4 d’Italia (1764), emerge con forza una riflessione di carattere storico, filosofico e morale che si

presenta in realtà assai critica nei confronti dei medesimi testi. Nell’imponente opera storiografica, in particolare, sempre ripudiata in vita ma pubblicata ora per le cure attente di Barbara Scalvini,6 il Verri si era posto l’arduo compito di narrare gli avvenimenti storici della penisola dalla fondazione di Roma sino alla pace di Aquisgrana (1748) e fu effettivamente il primo in Italia a mettere a frutto il pachidermico patrimonio documentario di Ludovico Antonio Muratori,7 dando voce a una necessità intellettuale condivisa da molti altri scrittori italiani, ma che solo Carlo Denina portò editorialmente a compimento. Ebbene, è soprattutto nella sfortunata Storia della giovinezza che si delinea con forza il pensiero verriano, e il suo precoce lavorìo di critica e di decostruzione del pensiero illuministico contemporaneo. Alla base della ricostruzione storica degli avvenimenti vi era, infatti, la difficoltà, da parte del Verri, a far propria l’idea storiografica di marca voltairiana di progresso ad infinitum – alla base, invece, della riflessione storica ed economica di Pietro Verri - quanto invece la volontà di problematizzare, sulla scorta della concezione pessimistica della storia e delle passioni umane presente in autori come Polibio, Vico e soprattutto David Hume, le acquisizioni ottimistiche delle Lumières, nel sospetto latente di una perenne e storicamente documentabile “deficienza razionale” dell’uomo, di una costante caduta nell’irrazionale e nel caos delle passioni: caduta che si proponeva, per Alessandro, mutatis mutandis nel corso della storia italiana ed europea, dalla fondazione di Roma fino al proprio secolo, il razionalissimo Settecento di Maria Teresa d’Austria. Già nella fase della giovinezza, quindi, il Verri faceva da scettico controcanto, all’interno della rivista, alla linea ottimistica e progressista portava avanti da Pietro e dall’intera Accademia dei Pugni, ed è qui dunque che va ricercata la radice di un portato ideologico solo in parte, allora, influenzato dall’ambiente clericale e conservatore della colta Roma neoclassica di fine Settecento. Il celebre viaggio europeo a Parigi e Londra nell’ottobre del 1766, a cui è stato dedicato ampio spazio in questo lavoro, costituisce in questo senso un’esperienza a nostro parere fondamentale quanto risolutiva. Giunto a Parigi insieme a Cesare Beccaria fresco di successo per il

Dei delitti e delle pene, Alessandro si ritrovava nella capitale francese in un momento in cui si era

già consumata una svolta in seno al partito filosofico, svolta descritta in pagine ancora importanti da Furio Diaz:8 al moderatismo della prima Encyclopédie si andava sostituendo, infatti, l’intransigenza aggressiva e appassionata dei filosofi atei della seconda generazione riuniti nella coterie del Barone D’Holbach, celebre autore del Systeme de la nature. Chiusa la fase puramente critica ed intellettuale, per i philosophes era il tempo di un diretto intervento nel reale e di trasformazione

6 A.Verri, Saggio sulla Storia d’Italia, a cura di B. Scalvini, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 2001 7

dai Rerum Italicarum Scriptores (1723-1738) alle fondamentali Antiquitates Italicae Medii Aevi (1738-1743) fino alla prima grande storia d’Italia dall’era volgare sino ai suoi tempi, Gli Annali d’Italia (1743-1749).

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della società, in uno scontro frontale con i pilastri ideologici d’Antico Regime, la monarchia e la religione, per una diffusione dei principi delle lumières in un più ampio strato della popolazione. È noto come il Verri uscì dall’esperienza parigina completamente disilluso. Proprio lo studio condotto su un testo ancora semi-sconosciuto alla comunità scientifica e conservato tra le carte dell’Archivio di famiglia, Il saggio di morale cristiana (1763), si dimostra anche in questo caso fondamentale per cogliere le vicende biografiche e analizzare l’allontanamento definitivo dalla filosofia francese quanto le scelte esistenziali successive. In esso, infatti, il Verri aveva tentato di delineare un complesso sistema morale fondato sulla difficile e delicata integrazione di religione e filosofia, per una concezione morale moderata che faceva propri gli assunti essenziali della concezione etica di matrice sensistica e utilitaria provenienti dal dibattito filosofico europeo (in particolare dal Montesquieu delle Lettere persiane e dall’Helvetius dell’Esprit) inserendoli, però, in un quadro di valori cristiani considerati come i principali garanti dell’ordine sociale, i soli capaci di arginare quel disordine latente che l’autore andava progressivamente scoprendo, dal punto di vista storico, nelle azione umane: emergeva con forza, già a quest’altezza cronologica, una weltanschauung etico-morale moderata e conciliante, che si scontrava, a Parigi, con l’ateismo assoluto e dogmatico portato avanti dalla coterie filosofica guidata da Diderot e dal barone D’Holbach, che nei toni intransigenti e appassionati e in un entusiasmo già pre-rivoluzionario nello scontro con i baluardi dell’ordine costituito, si ponevano pericolosamente al di là dello scetticismo e della cauta moderazione verriana (ne fanno fede molte lettere inviate a Pietro in quegli anni) ma erano anche estranei alla stessa ideologia del Caffè. È proprio a partire da questo complesso panorama storico-culturale, nell’emergere di un distacco sempre più forte dalle posizioni ideologiche e politiche del fratello, che si spiegherà poi la permanenza definitiva nella capitale pontificia a partire dal maggio del 1767.

Roma, innanzitutto. Recenti studi sia di carattere storico-artistico sia più specificatamente letterario hanno efficacemente rivisto l’immagine di una Roma oscurantista e statica, avulsa da spinte di modernità: il forte accentramento dottrinario ed elementi socio-politici di indubbia marca conservatrice convivevano, infatti, con evidenti e significative spinte di rinnovamento in senso europeo, laddove la posizione geo-politica della Città eterna, «capitale del mondo» – per usare le parole di Goethe -9 e meta del Grand Tour, richiamando artisti e intellettuali da ogni parte d’Italia e d’Europa, spinse il papato all’adozione di una strategia di consenso che inglobava in sé, inevitabilmente, degli elementi di modernità funzionali a fare della capitale della Chiesa anche il centro assoluto di un neoclassicismo specificatamente romano, fondato non solo sull’interazione tra antiquaria, letteratura e arti figurative, ma soprattutto sulla promozione delle arti quale elemento

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propulsore dello sviluppo economico e culturale, oltre che celebrativo.10 Alessandro, quindi, trovava, nella Roma dei Papi quella tranquillità socio-politica lontana dalle pericolose spinte rivoluzionarie già esperite a Parigi assai prima del 1789, ma al contempo la patria degli Scipioni gli offrì una società intellettuale estremamente colta e vivace, aperta a quello svecchiamento della cultura italiana in direzione delle più vive sperimentazioni europee che era stato anche l’intento verriano di molti degli articoli letterari pubblicati sul Caffè. Emerge infatti, come prima fondamentale caratteristica della biografia verriana, il suo internazionalismo utile a spiegare sia la significativa apertura da parte dell’autore a un modus artistico ampiamente sperimentale, ricco com’è degli influssi più diversi, sia il suo relativo isolamento rispetto alla produzione letteraria – e drammaturgica – a lui contemporanea. Grazie alla mediazione di Margherita Sparapani Gentili Boccapaduli, animatrice di uno dei salotti neoclassici più importanti della Roma di fine secolo, Verri si trovò al centro di una rete culturale cosmopolita e di alto livello a cui è dedicato ampio spazio in queste pagine: ne fanno parte, tra i nomi più noti, il cardinale Albani ed Ennio Quirino Visconti, per restare ai romani, ma anche residenti temporanei come Antonio Canova, l’irlandese Henry Tresham (celebre pittore della cerchia di Füssli), Vittorio Alfieri, Vincenzo Monti e M.me de Staël: incontri e scambi intellettuali – documentati anche da qualche corrispondenza inedita - che costituiscono lo sfondo biografico e relazionale dell’intensa produzione romana di Alessandro. Come il Monti, ad esempio, l’ex caffettista si dedicherà alla traduzione dell’Iliade (del 1771, ma pubblicata solo più tardi, nel 1789), e sempre come il poeta di Alfonsine Alessandro dimostrerà un appassionato interesse per il teatro shakespeariano, traducendo, primo in Italia, pièces come l’Hamlet e l’Othello (1771-1777), lavori tutti leggibili in relazione alla cultura neoclassica italiana ed europea, che individuava sia in Omero sia nel bardo inglese i massimi primitivi, i poeti sovrani della natura e delle bellezze originarie, i maggiori esponenti di un mondo dominato dal libero sfogo dell’individualità e delle passioni. Se per molti aspetti Alessandro Verri recuperava così la lezione offerta dall’amato Giambattista Vico, letto durante il periodo dei Pugni, l’attrazione nei confronti del teatro shakespeariano si collegava soprattutto all’analisi del dualismo già accennato tra raison e

sensibilité, analisi nella quale va ascritta buona parte della produzione verriana dalla giovinezza alla

maturità. Se è ormai indubbia la rivalutazione delle passioni e del sentimento operata dagli uomini dell’Illuminismo, in un superamento dell’idea critica di un Settecento, a dirla con Cassirer, «esclusivamente ‘intellettualistico’» e razionalistico,11

Verri recuperava il portato innovativo delle correnti empiristiche e sensiste di un Locke o di un Condillac nel riconoscimento dell’importanza

10 M. Caffiero, Il coturno e la tiara: la Roma di Pio VI, in Alfieri a Roma, a cura di B. Alfonzetti, N. Bellucci, Roma,

Bulzoni, 2006, pp. 19-34.

11

E. Cassirer, La filosofia dell’Illuminismo, Firenze, La Nuova Italia, 1935, p. 153. Ma si veda per il Verri, oltre a Cerruti, Alessandro Verri tra storia e bellezza, cit., anche F. Cicoira, Alessandro Verri. Sperimentazione e autocensura, Bologna, Pàtron, 1982, pp. 22 e ss.

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degli impulsi non-razionali, ma di questi ultimi andava soprattutto ad analizzare e a sondare l’inevitabile limite, il portato distruttivo e inattingibile alla ragione, l’irrazionalismo insito nella natura dell’uomo, e il suo concreto espletarsi sul piano della storia. Sia in Omero sia in Shakespeare Alessandro trovava allora un vero “serbatoio” cui attingere per portare avanti la sua analisi: temi e forme delle tragedie shakespeariane ritorneranno con forza, infatti, nella drammaturgica verriana – soprattutto in piecès come la Congiura di Milano (1779) o l’ancora inedito Galeazzo Maria Sforza . In queste infatti, oltre alla messa a tema delle più importanti passioni shakespeariane (l’ambizione folle e spietata e la gelosia) va notata da un lato la tendenza a far proprie le acquisizioni del dibattito europeo (soprattutto la tematica del sublime), dall’altro un’audace sperimentazione anticipatrice di tendenze che si imporranno solo nel secolo successivo grazie alla riflessione teorica del Manzoni, come l’attenzione ai soggetti tratti dalla storia patria e l’elusione consapevole delle unità pseudo-aristoteliche. Ma del teatro Alessandro fu anche fine spettatore e critico attento alle novità: un paragrafo del presente studio è stato infatti dedicato al ritratto settecentesco di Vittorio Alfieri offerto nel Carteggio da i fratelli Verri. Il letterato lombardo aveva personalmente conosciuto l’astigiano durante il soggiorno romano di quest’ultimo, e aveva visto rappresentate molte delle sue tragedie – alcune personalmente declamate dal grande tragico in persona: tra queste soprattutto l’Antigone, messa in scena nella celebre cornice romana del palazzo dell’ambasciatore di Spagna nel novembre del 1782, occasione che costituì la “prima” nazionale del teatro alfieriano.

Ma la Roma verriana – in cui soggiornano il Monti, l’Alfieri, il Goethe – è soprattutto la Roma amata dai teorici e dai pittori tedeschi: è la città del neoclassicismo winckelmanniano e mengsiano, del Museo Pio-Clementino, di Villa Albani e del Sepolcro degli Scipioni; è la città della memoria e dei monumenti dell’antichità e per questo l’unico «luogo in cui si riallaccia l’intera storia del mondo».12 Dei protagonisti e delle teorizzazioni del neoclassicismo romano, Alessandro Verri fu attento seguace e interprete preciso: opere come Le Avventure di Saffo (1782) così come il romanzo più celebre, Le Notti romane (1792-1804) – analizzate nel dettaglio nel quarto capitolo - vanno lette e si spiegano soprattutto in relazione a questo preciso contesto culturale, e corrono parallele all’esperienza verriana più significativa del periodo romano: lo studio intenso della lingua e della letteratura greca, con i commenti di vari autori, da Demostene a Luciano fino a Senofonte. Il contenuto morale – e per certi aspetti retrivo - del romanzo erudito degli anni Ottanta ha, inoltre, messo in ombra l’interessante riflessione verriana sul genere. Alessandro operava infatti, come poi dimostrerà l’indiscusso successo del romanzo, una potente rivalutazione del genere nel panorama erudito tardo settecentesco, proponendo – come si è dimostrato- una concezione dell’arte (del romanzo, come del testro) fortemente debitrice, in buona sostanza, al pensiero illuministico,

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anticipando un nucleo ideologico-concettuale poi ripreso anche dalla notissima opera del Galanti (Osservazioni preliminari intorno a’ romanzi, alla morale ed a’ diversi generi di sentimento, Napoli, 1780) per il quale la commedia e la tragedia, oltre che il romanzo, colle loro «animate dipinture de’ costumi, delle calamità e delle illusioni umane» dovevano seguire gli esempi stranieri (Racine, Moliere, Voltaire, ma anche Richardson e Fenelon) e mostrare così «una morale in azione»;13 non generi di evasione, dunque, destinati al solo divertimento, quanto piuttosto strumenti di una letteratura vista da più parti come sempre più coinvolta e impegnata nella definizione dei problemi della morale e del sentimento, capace di eccitare le vie una sensibilità sempre tuttavia

tenuta a bada e regolata dal raziocinio, tenuta quindi lontana dagli eccessi. L’approdo definitivo al classicismo non indica, naturalmente, un’acritica e utopistica identificazione

con il passato, modello da riproporre attraverso il recupero di forme e modelli dell’antichità greca. Come si avrà modo di osservare, Alessandro afferma con forza la superiorità indiscussa degli antichi sui moderni soprattutto sul piano artistico, identificando nei primi i modelli indiscussi di stile, preferenza che ben si riflette nella patina linguistica ed espressiva dei due grandi romanzi della maturità. Se è indubbio che un simile posizionamento si distacca dalle riflessioni linguistiche della giovinezza, esso riflette soprattutto un contenuto ideologico, che è poi quello della ricerca – attraverso lo stile latineggiante, armonico e magniloquente, in bilico tra l’arcaico e il prezioso – di un’alternativa al caos e al disordine del presente, allontanato in un dimensione apparentemente remota attraverso il potere distanziante della forma. In realtà, però, e soprattutto nella Saffo, la dimensione di olimpica serenità tanto cercata dal Verri, lungi dall’attuarsi completamente, si contaminava piuttosto con quegli stessi elementi e quelle stesse tensioni – non da ultimo la furia cieca e dissoluta della protagonista - che l’architettura armoniosa del testo tendeva, invano, a soffocare. Anche la Grecia del Verri quindi, pur apparendo epifania di uno spazio antropologico da riproporre – o almeno da diffondere nei suoi valori essenziali di equilibrio e moderazione, “nobile semplicità e quieta grandezza” – e inteso come l’equilibrata risposta dell’intellettuale al degrado irrazionalistico del mondo moderno, conservava ai margini quella stessa dimensione che tendeva ad allontanare attraverso lo stile, nella coscienza lucida della distanza. Anche per il neoclassicismo di Alessandro Verri è valido, in definitiva, ciò che Starobinsky ha indicato per la riflessione dei maggiori rappresentanti del neoclassicismo italiano ed europeo, non ultimo il Canova:

nell’istante stesso in cui ritrova la luce dell’origine, la coscienza storica misura la distanza che la separa da essa e vede allontanarsi il modello dell’antica armonia. Volere, in questo momento, mimare l’esistenza degli antichi, sarebbe entrare nella menzogna, sarebbe negare con frode il potere di distacco e di riflessione che è

13

Sull’opera del Galanti si veda per ora G. Costa, Modelli narrativi illuministici, in Cultura meridionale e letteratura

italiana. I modelli narrativi dell’età moderna. Atti del XI Congresso A.I.S.L.L.I., Napoli, Loffredo, 1985, pp. 287-318:

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9 ormai l’essenza stessa della coscienza. Il solo rapporto autentico con la Grecia e i suoi dèi è quello che ci porta ad accettare la loro scomparsa: bisogna consentire all’irriducibile differenza che ci vota a vivere la nostra storia, e ci proietta in progredire che d’ora in poi non potrà più seguire la traccia di un modello antecedente. Allora ci si rivela l’altro versante dell’arte neoclassica: quello che è consapevole della lontananza delle forme di cui descrive l’immagine, quello che sa di avere, per oggetto, un’assenza.14

Una sostanziale ambivalenza, una forte ambiguità connota inoltre la scrittura verriana,15 divisa tra perturbante fascinazione ed estremo orrore nei confronti di quei due ambiti problematici in cui maggiormente si esprime il suo sforzo intellettuale. L’universo psicologico-morale dell’uomo e la Storia, sia essa antica o moderna, costituiscono i due grandi poli tematici entro i quali si muove l’intera parabola creativa di Alessandro Verri. Al di là dell’erudizione, della «fenomenologia del disimpegno»,16 secondo una celebre formula di Marco Cerruti, nell’autore si nota comunque una forte esigenza alla testimonianza, alla denuncia, al racconto della contemporaneità, pur sempre nell’ottica della propria weltanschauung etico-morale moderata: tensione sempre presente, sebbene filtrata dalla patina antica, in tutta la sua produzione, e che costituisce il lascito più importante e maturo dell’apprendistato illuministico della giovinezza. Se l’antica storia romana è, com’è noto, la protagonista assoluta delle Notti romane - in un radicale pessimismo antropologico che la condanna nelle sue atrocità, nei vizi degli uomini, mentre svela come uniche ed isolate le potenzialità salvifiche della Chiesa di Roma - quella moderna sarà oggetto specifico delle Vicende memorabili

dal 1789 al 1801, opera storiografica in nove libri pubblicata postuma (Milano, 1858), nella quale si

assiste – attraverso la cronistoria verriana dei fatti - alla condanna definitiva degli eventi rivoluzionari, direttamente imputati dall’autore alla diffusione incontrollata di quella stessa immoderata philosophie che aveva personalmente toccato con mano a Parigi: una condanna, in ultima istanza, delle correnti più spregiudicate dell’illuminismo, considerate disgreganti e distruttive, come nella Bassvilliana dell’amico Monti, quasi a chiudere un cerchio rispetto al viaggio nella capitale dei philosophes di molti anni prima. Dinnanzi alla portata europea di un evento come la Rivoluzione francese, si è pertanto ricostruito in dettaglio non solo l’orizzonte creativo dell’ultimo Verri – fortemente intriso di contemporaneità (accanto alle Vicende, il romanzo

La Vita di Erostrato, pubblicato nel 1815) - ma soprattutto le turbolente vicende biografiche

dell’autore durante la Rivoluzione e l’occupazione francese di Roma solitamente poco note agli studiosi verriani. In questi anni, infatti, non solo Alessandro intraprende con Margherita Gentili Boccapaduli un significativo viaggio lungo l’Italia centro-settentrionale che lo porterà

14 J. Starobinsky, 1789. I sogni e gli incubi della ragione, Milano, Abscondita, 2010, pp. 131-32.

15 Cfr. Cicoira, Alessandro Verri, cit., pp. 8-9, e anche A. Cortellessa, L’antiquario fanatico e l’ombra di Vitruvio.

Sincretismo estetico nelle Notti romane di Alessandro Verri, in M. Tatti, Fra Italia e Italia. Immagini tra Rivoluzione e Restaurazione, Roma, Bulzoni, 1990, pp. 327-64.

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momentaneamente anche a Milano, ma parteciperà attivamente alle riunioni in Arcadia, ove era entrato nel 1792, ribadendo fortemente le sempre più marcate tendenze conservatrici e filo-papali. Lo studio, ad esempio, degli Atti arcadici, ha svelato molti particolari interessanti, e finora sconosciuti, dell’ingresso nell’Accademia da parte del Verri.

Alessandro morirà a Roma, nel 1816. Lo ricorderà un anno dopo Stendhal nel suo diario di viaggio, come «un ultrà qui exècre Napoléon»,17 richiudendo forse troppo semplicisticamente nella sola prospettiva ideologica un parabola intellettuale in realtà assai più complessa e diversificata dal punto di vista creativo, intellettuale e culturale.

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17 Stendhal, Rome, Naples et Florence en 1817, Paris, Calmann-Lévy, s.d., p. 77: «Alexandre Verri, frère de Charles vit

encore à Rome; mais ce n’est qu’un ultrà qui exècre Napoléon, non pas pour sa manie de trôner, mais au contraire pour ses riforme civilisantes. C’est dans ce sens qu’Alexandre a écrit les Nuit romaines au tombeau des Scipions, Erostrate, etc.»

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CAPITOLO I

LA GIOVINEZZA A MILANO (1741-1766)

1. Gli anni della formazione e l’Accademia dei Pugni

A differenza del fratello Pietro e del padre Gabriele Verri, senatore e poi reggente del Consiglio d’Italia a Vienna, Alessandro Verri non ebbe il culto delle memorie, né familiari, né personali.18

I dati relativi alla sua vita, dalla prima giovinezza alla morte, avvenuta a Roma nel 1816, sono

incastonati nel ponderoso Carteggio19 intrattenuto con Pietro a partire dall’ottobre del 1766 - al

momento della partenza da Milano alla volta dell’Europa dei lumi – per sopperire a una mancanza e accorciare le distanze dall’amato fratello, in quello che allora, a entrambi, sembrava solo un distacco momentaneo e quanto mai benefico per diffondere nelle capitali della philosophie le idee dei giovani lombardi dei Pugni. La scrittura epistolare, soggetta come poche altre ai flussi discontinui della memoria, nel mentre che dà vita a uno dei più importanti e significativi documenti di costume dell’Europa moderna, diventa per il caso di Alessandro Verri l’accesso privilegiato alla sua vita e a quella del suo tempo, ritratto di un individuo e affresco di un’epoca.20

Nato a Milano il 9 giugno 1741 da Gabriele Verri e Barbara Dati della Somaglia, Alessandro Verri ebbe l’educazione consueta delle famiglie patrizie del milanese, ricevendo la prima istruzione elementare tra le mura domestiche con un maestro dedicato («un pedante» ricorderà, che «ci tirava le orecchie»),21 proseguendo gli studi dapprima presso il Collegio di Merate – tenuto dalla

18 Per la famiglia Verri si rimanda alle pagine di C. Capra, I progressi della ragione. Vita di Pietro Verri, Bologna, il

Mulino, 2002, specificatamente il primo capitolo («Il negro porco in fascia bianca». L’ascesa della famiglia Verri), alle pp. 21-63.

19Carteggio di Pietro e Alessandro Verri, a cura di A. Giulini, E. Greppi, F. Novati, G. Seregni, Milano, Cogliati [poi

Milesi, infine Giuffrè], 1910-42. Da ora in poi Carteggio. L’inizio dell’epistolario, che ingloba le lettere che Pietro e Alessandro si scambiano dal 2 ottobre al 23 maggio 1767, durante il viaggio europeo di quest’ultimo, si leggono ora nella nuova edizione a cura di G. Gaspari, Viaggio a Parigi e Londra (1766-1767). Carteggio di Pietro e Alessandro

Verri, Milano, Adelphi, 1980.

Per una puntualizzazione rispetto ai vari aspetti editoriali, ideologici e contenutistici dell’ intero epistolario verriano si rimanda al classico lavoro di G. Ricuperati, L’epistolario dei fratelli Verri, in Nuove idee e nuova arte nel ‘700

italiano, Atti del Convegno (Roma, 19-23 maggio 1975) Roma, Accademia dei Lincei, 1977, pp. 239-281.Ma cfr. ora anche Capra, Fratelli d’Italia, in Atlante della Letteratura Italiana, a cura di S. Luzzatto e G. Pedullà, vol. II. Dalla

Controriforma alla Restaurazione, a cura di E. Irace, Torino, Einaudi, 2010, pp. 700-705.

20 Su alcune parti del Carteggio con Pietro, si basano pertanto le primissime e tuttavia succinte biografie verriane

otto-novecentesche: quella di Giovanni Antonio Maggi, Vita di Alessandro Verri, in A. Verri, Opere, Milano, Società Tipografica dei classici italiani, 1822, ripubblicata poi in Vicende memorabili dal1789 al 1801 narrate da Alessandro

Verri. Precedute da una Vita del medesimo, Milano, Guglielmini, 1858, pp. 1-68. Le citazioni che seguono sono tratte

da questa edizione. Si basa inoltre sull’epistolario anche A. Lepreri, Studio biografico e critico su Alessandro Verri e le

Notti romane, Roma, Camerino, 1900.

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12

congregazione dei Padri Somaschi – e in seguito nel collegio-convitto delle Scuole Arcimboldi di S. Alessandro retto dai Barnabiti – ove avevano studiato sia il padre sia il fratello –, istituti, appunto, che impartivano l’istruzione media e superiore ai rampolli della nobiltà e del ceto civile.22

Come si evince da una lettera al padre,23 il Verri dovette iniziare gli studi fuori casa all’età di

undici anni,24 in «collegi molto simili a galera»,25 in cui crebbe l’insofferenza verso «sterili e pedantesche discipline»,26 laddove l’esclusiva attenzione verso «una ridicola rettorica e un’assurda filosofia»,27 e le stesse severe e poco umane condizioni di studio, penalizzavano il buon insegnamento del latino, del greco e della fisica. Ancora a distanza di anni le «esacrazioni mentali contro questi barbari, ove la gioventù seppellisce l’ingegno, il tempo migliore, i costumi, la salute e la morale»28 caratterizzeranno molte delle pagine più colorite del Carteggio, nell’acerbo ricordo di noiosi esercizi di retorica che occupavano le ore di studio a scapito delle scienze e della cultura contemporanea, sia nell’ambiente privato, sotto la tutela del maestro di casa e del padre,29

sia poi nei collegi religiosi. Il metodo educativo in uso nelle scuole lombarde della prima metà del Settecento, modellato sulla Ratio Studiorum gesuitica, fondava l’insegnamento dei corsi di Grammatica, Umanità e Retorica sull’«imitazione-ricostruzione»,30 e la precettistica assorbiva gran parte dell’orario scolastico: lo studio dei classici era pertanto ridotto a un «astratto formalismo», ove «l’arte, separata dal pensiero, si muta in artificio [e] la forma, anziché essere l’intima esteriorità del pensiero, si fa decorazione, stucco»,31 mentre gran parte aveva, sia nello studio della lingua che in quello della letteratura, l’apprendimento mnemonico.32

I libri di testo in uso presso le scuole

22 Discute dell’educazione impartita presso questi istituti Capra, I progressi della ragione, p. 75, cui si rimanda anche

per la bibliografia ivi contenuta.

23 Le lettere di Alessandro al padre, come anche quelle alla moglie di Pietro, Vincenza Melzi, sono conservate presso

l’Archivio Verri custodito dalla Fondazione Raffaele Mattioli per la storia del pensiero economico, nella cartella 243, che contiene 62 lettere indirizzate al genitore scritte dal 29 gennaio 1752 al 26 novembre 1779. Dell’Archivio (da ora in poi AV) esiste un primo inventario a stampa a disposizione degli studiosi, costituito dai voll. curati da G. Panizza e B. Costa, L’Archivio Verri, Milano, Fondazione Raffaele Mattioli per la storia del pensiero economico, 1997 e

L’Archivio Verri. Parte seconda, ivi, 2000.

24

AV, 243, lettera del 29 gennaio 1752 da Merate: «Son sano; in avvenire farò che non abbia più a sentire le mie tepidezze tanto nello studio quanto nel vesto; né avrà più motivo di raccomandarmi il favore e perché ciò si verifichi più di proposito, mi dij la sua benedizione che le domando con ogni rispetto».

25

Lettera inedita alla cognata Vincenza Melzi, datata 20 settembre 1804, in AV, 287.

26

Lepreri, Studio biografico e critico, cit., p. 8.

27 Carteggio, vol. II, p. 101. Lettera del 10 ottobre 1769. 28 Ivi, vol. III, p. 406 (Lettera del 28 luglio 1770). 29

V. Balzari Orlandi, Alessandro Verri antiquario in Roma, «Quaderni storici», n. 2, 2004, pp. 495-528, p. 497, ha rinvenuto in AV (Cartella 485 fasc. 16), sette caricature «a penna nello stile di Pier Leone Ghezzi, di buona mano, finemente tratteggiate, una delle quali rappresenta probabilmente il padre Gabriele che gli imponeva noiosi esercizi di retorica tra cui il De patria potestate.»

30 E. Chinea, L’istruzione pubblica e privata nello stato di Milano dal Concilio Tridentino alla Riforma Teresiana

(1563-1773), Firenze, La Nuova Italia, 1953, p. 42.

31 Ivi, p. 44.

32 Cfr. Capra, I progressi della ragione, p. 77, che ricorda (p. 76) anche la testimonianza di Frisi, matematico barnabita

poi membro dell’Accademia dei Pugni (raccolta da P. Verri, Memorie appartenenti alla vita ed gli studi del signor Don

Paolo Frisi, Milano, Marelli, 1787) relativa ai metodi e ai programmi di insegnamento dei collegi religiosi della

(18)

13

barnabitiche erano i medesimi utilizzati in quelle della Compagnia di Gesù: per l’apprendimento della grammatica il De Istitutione Grammatica libri tres del gesuita portoghese Manuel Alvarez, mentre per la retorica il manuale di Domenico de Colonia, De Arte rhetorica libri quinque, laddove invece gli autori latini più frequentati erano Cicerone, Ovidio, Virgilio, Orazio e Seneca.33 Una formazione sostanzialmente classicista, quella del Verri, che spiega da un lato l’ampio ricorso, nel

Caffè, a citazioni e riferimenti alla classicità intesa come modello etico e poetico (soprattutto

Orazio), dall’altro l’aperta polemica contro il formalismo imperante che per Alessandro e compagni caratterizzava l’esperienza letteraria italiana delle Accademie e che sarà alla base della battaglia linguistica portata avanti sin dalle prime pagine del periodico illuminista, battaglia condotta nel rigetto della retorica intesa come arida precettistica, «laccio ingiusto che imporre si voglia all’onesta libertà [dei] pensieri e della ragion»,34 laddove era ancora fresco il ricordo dei severi metodi collegiali e degli stessi libri di testo.35

A una formazione collegiale che sembrava destinata a opprimere e a far «tremare sempre sotto la sferza»36 i fanciulli, faceva da pendant un ambiente familiare rigido e bigotto, latore di un’educazione fortemente intrisa di elementi religiosi («non si parlava che di messa e di confessione»),37 alla quale vennero educati i quattro fratelli Verri, oltre a Pietro e Alessandro, anche i cadetti Carlo e Giovanni. D’altronde, alle cariche statali ricoperte da Gabriele Verri si aggiungeva anche quella di consultore del Sant’Uffizio, ricoperta dal 1738 al 1768, accanto al fratello Antonio, a sua volta revisore e consultore ecclesiastico del Sant’Uffizio milanese per il biennio 1743-1744.38

Ciò comportava la lettura, documentata per Pietro ma ipotizzabile per lo stesso Alessandro, di tutta una serie di libri di devozione basati su una religiosità di stampo controriformistico, fondata sui temi ricorrenti delle persecuzioni e delle tentazioni diaboliche, di miracoli e superstizioni, streghe e maghi, fino ai miracoli operati da Dio.39 Rispetto a ciò, l’orientamento religioso di Alessandro, fa notare ancora Capra, lo si può desumere solo dalle opere a stampa, in particolare dall’inedito Saggio

di morale Cristiana, ove invece, come si avrà modo di osservare più avanti, «l’essenza del

giacenti i buoni studi e le belle arti. Una falsa eloquenza latina, uno studio di memoria nella teologia e nella giurisprudenza erano le sole occupazioni applaudite».

33

Cfr. Chinea, L’istruzione pubblica e privata, cit., p. 40 e ss.

34A. Verri, Rinunzia avanti notaio degli autori del presente foglio periodico al Vocabolario della Crusca, in Il Caffè

(1764-1766), a cura di G. Francioni, S. Romagnoli, 2 vol., Torino, Bollati Boringhieri, 1998², vol. 1, pp. 47-50, p. 47.

Da ora in poi Caffè, senza specificazione di volume, essendo la numerazione continua nei due tomi.

35 I tesi su citati e i severi metodi d’insegnamento saranno vituperati nell’articolo verriano Della educazione, utilità e

giustizia della flagellazione dei fanciulli, in ivi, p. 455.

36 Carteggio, vol. III, p. 406.

37 Ivi, vol. VIII, p. 157. Lettera del 17 agosto 1776. 38

Cfr., Capra, ad vocem Verri, Famiglia, in Dizionario storico dell’Inquisizione, diretto da A. Prosperi, 4 Voll., Pisa, Edizioni della Normale, 2010, vol. II, pp. 1669-70.

39 Lo stesso Alessandro ricorderà come persino «una cameriera impertinente ci maltrattava e ci atterriva sui racconti del

diavolo, che porta via i figli disubbidienti», in Carteggio, vol. VIII, p. 156; e ancora in ivi, vol. III, p. 406, ricorda ancora come «tutto tende[va] ad avvilirci. Fino a dieci anni, fra le donne, che ci raccontavano le streghe, il diavolo, le apparizioni».

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14

Cristianesimo è risposta nell’amore di Dio e nell’amore del prossimo, e dove la denuncia del “falso zelo”, dell’ipocrisia e della superstizione sottintende la condanna di ogni persecuzione per motivi religiosi e di ogni coartazione della libera coscienza degli individui».40 L’ideale educativo cui si ispiravano Gabriele Verri e la moglie («abbiamo sofferta una umiliante educazione, priva di confidenza e dolcezza, e sempre sotto il rigore e i rimproveri»)41 era quello tipico di una generazione ancora legata a un modello familiare basato su rapporti di forza e d’autorità, e da un concetto assoluto della patria potestà, da esercitarsi indiscriminatamente su tutti i figli,42 alla quale sia Pietro sia Alessandro opporranno di lì a poco le nuove idee educative elaborate sotto l’influsso delle correnti più avanzate del pensiero filosofico e pedagogico della seconda metà del secolo, primo fra tutte l’Emile di Rousseau (1762), che condurranno alla graduale modernizzazione degli istituti familiari e dei modelli educativi attuata a partire dai primi anni sessanta dal piano riformistico proposto da Maria Teresa.43 Al modello educativo cui è stato sottoposto durante la primissima adolescenza, il Verri opporrà appunto - già in alcune pagine del menzionato Saggio di

Morale cristiana – una concezione pedagogica moderna, basata sul rispetto e la parità tra padre e

figlio,44 sullo sviluppo naturale, umano e intellettuale, del bambino, lontano da qualsiasi tipo di legame coercitivo,45 secondo un modello che trova origine dallo stesso Emile di Rousseau, come dichiarato espressamente dall’autore.46

Il ginevrino era stato letto e conosciuto, con buona probabilità, nel 1762, nel pieno dell’Accademia dei Pugni, e costituiva, per tutti i suoi membri, un

maître à vivre rivelatore «di un nuovo modello di vita familiare e sociale, ispirato al culto della virtù

e della nobiltà d’animo contrapposto al primato del sangue e del denaro, all’esaltazione dei sentimenti naturali, l’amore, l’amicizia, la sincerità, sostituiti alla menzogne convenzionali e ai frivoli riti mondani».47 Si trattava, dunque, di contrapporre la propria educazione, fatta di tirannia e

40 Capra, ad vocem Verri, cit., p. 1670.

41 Lettera a Vincenza Melzi del 29 settembre 1809, in AV 287. 42

Cfr. Capra, I progressi della ragione, p. 68.

43

Cfr. G. Di Renzo Villata, Il governo della famiglia: profili della patria potestà nella Lombardia dell’età delle

riforme, in Economia, istituzioni, cultura in Lombardia nell’età di Maria Teresa, a cura di A. de Maddalena, E. Rotelli,

G. Barbarisi, 3 voll. Bologna, Il Mulino, 1982, vol. III, pp. 785-805.

44

AV 484.3, p. 75: «Questa crudele parola Dominium significava che possedevano i figli come si posiedeva un’armento: espressione indegna d’uomini nati liberi, e ragionevoli, che scordandosi che gli uomini nascono eguali faceva il figlio porzione del padre, e non un essere a parte, che esiste da se e che ha certi diritti».

45 Cfr. ivi, p. 101: «Può niuno violentarci a correre una strada, che anche non ci mena alla nostra felicità. Ella è una cosa

ben pericolosa, anche per il cuore di un amico, il persuadere taluno a scegliere più uno stato che un altro; chi può farsi mallevadore della altrui felicità a segno di promettersi che un dato genere di vita più di un altro gli conviene?»

46 Nel paragrafo Della educazione, in ivi, p. 79, Verri avvertiva: «Non toccherò, che di passaggio questa

importantissima materia essendo stato preceduto da troppo grandi uomini perché io osi aggiungere del mio. Fra i libri scritti su questo argomento L’Emile è de’ più grandi. Lo spirito ardito, e sublime, ed il desiderio del ben essere degli uomini che anima quest’opera ritrova in me un ammiratore».

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15

mortificazione,48 e priva di amorevolezza a un rinnovato e illuminato rapporto familiare, basato sul valore tutto illuministico dell’amicizia:

Io non vedo come non possa avere figli amici, quel padre, il quale non usò di questo sacro nome che per formarsi a se ed alla patria de’ sostegni e de’ cittadini. Altro vincolo io non ritrovo, che possa felicemente unire un padre e un figlio, che quello dell’amicizia; i nomi di autorità e di potere ponno usarsi talvolta, ma è interesse d’ambo le parti di non usarli giammai.49

Dopo la frequentazione delle Arcimboldi di Milano, il Verri otteneva il titolo dottorale in giurisprudenza presso l’Università di Pavia, titolo che costituiva un passaggio obbligato per il

cursus honorum dei giovani patrizi milanesi. Alessandro ottenne la laurea in diritto nel settembre

1760,50anche se il diploma di laurea risulta datato al 6 dicembre dello stesso anno.51 Ciò non significava per forza che il giovane avesse frequentato i corsi universitari pavesi, perché gli studenti avevano la possibilità di ottenere il doctoratus in utroque iure o direttamente dal collegio dei nobili Giureconsulti – senza passare per l’università –, oppure recandosi a Pavia solo per discutere i

puncta assegnati precedentemente dai docenti e – previa pagamento della tassa – partecipare alla

cerimonia tradizionale di conferimento del titolo.52

Il periodo immediatamente successivo agli studi giurisprudenziali coincide con il ritorno a casa di Pietro Verri, reduce dalla guerra dei sette anni e da un anno passato alla corte di Vienna nella vana speranza di un impiego civile. Era la metà di gennaio 1761. Per Pietro gli anni lontani da Milano furono decisivi, laddove l’esperienza della durezza della vita militare, il contatto con culture di popoli e paesi diversi, l’amicizia con l’ufficiale Henry Lloyd e soprattutto la lettura dei grandi libri dell’illuminismo europeo (Vattel, Helvétius),53

«temprarono il suo carattere e gli allargarono la mente, stimolando il suo interesse per i grandi problemi dell’economia e della politica».54

Ripiombato nell’ambiente chiuso e conservatore della casa paterna, e deciso ad aprirsi una strada

48

Cfr. Carteggio, vol. VIII, p. 156: «Nostro padre bisogna che sia ben mutato; ai nostri tempi non si sentiva discorrere che della povera patria podestà, si minacciava una rivoluzione per tutte le inezie, l’ho veduto quasi svenire di rabbia e gridarmi: “abbassa quegli occhi, briccone, abbassa quegli occhi”, perché in occasione dell’ordine emanato di pranzare in codegogno io sorrisi guardandolo. Sempre si discorreva di ricorrere al governo, di mettere in fortezza, chiudere in una torre e gettare le chiavi in un pozzo; sempre venivano in campo le sante divozioni, sempre il timor Domini».

49 AV 484.3, p. 82.

50 Gabriele Verri scriveva a Pietro, il 9 settembre 1760, che «Alessandrino è ritornato [da Pisa] con la laurea»: in S.

Baia Curioni, Per sconfiggere l’oblio. Saggi e documenti sulla formazione intellettuale di Pietro Verri, Milano, Franco Angeli, 1988, p. 209.

51 È fotoriprodotto in Da Beccaria a Manzoni. La riflessione sulla giustizia a Milano: un laboratorio europeo, a cura di

G. Panizza, Milano, Silvana Editoriale, 2014, p. 190. Il vol. costituisce il catalogo della mostra omonima tenutasi alla Biblioteca Braidense di Milano.

52

Cfr. in ivi, la sezione contenuta nella Scheda delle opere, a cura di Capra, Una formazione “obbligata” e la

discussione sulla giustizia, pp. 189-90, p. 189.

53 Ancora fondamentale per le letture di questo periodo verriano si rivelano le note di F. Venturi, Settecento riformatore.

I. Da Muratori a Beccaria, Torino, Einaudi, 1998², pp. 670-71.

54

Capra, Pietro e Alessandro Verri, in Enciclopedia italiana di Scienze, lettere ed arti. Il contributo italiano alla storia

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nelle cariche pubbliche – giusta il vasto programma di riforme istituzionali promosse a partire dal 1760 dal governo austriaco in Lombardia – il maggiore dei Verri trovava ad attenderlo come unica consolazione i due fratelli, Carlo e Alessandro:

Quello che ho trovato di consolante per me sono i miei due fratelli, hanno terminato i loro studi e sono in casa; sono buoni giovani, ma il primo Alessandro ha un’anima piena di energia, mi pare spinto a diventare mio amico come io di lui; non è un campo coltivato, ma la natura ne è feconda assai e inquieta di produrre.55

È assai probabile, come sottolineano i primi biografi, che fu Pietro che gli «mise in mano i libri», iniziandolo «nell’arte difficilissima di ben pensare, e gl’insegnò come l’uom s’eterna».56

L’esempio e l’incitamento del fratello, lo spinsero verso lo studio, e Pietro divenne ben presto una figura centrale nella vita di Alessandro, «amico» e «padre»,57 mentre nel medesimo tempo si andava costituendo il celebre sodalizio con i personaggi che – riunitisi in casa Verri nelle ore serali di quell’inverno – avrebbero dato vita all’Accademia dei Pugni. È ancora Pietro ad affidare alla carta la memoria di quel glorioso tempo, rievocandone la humus: «Rimasto solo in casa col mio caro Alessandro, che ha una passionata voglia di studiare unita a un ingegno raro, trovo in questo amabile fratello un amico e per uniformità di genio e per la bontà del cuore e per la vivacità e grazia del suo talento. È difficile il ritrovare una più amena società della sua».58

L’accademia dei Pugni – sorta nel pianterreno del palazzo Verri di contrada del Monte – nasceva nel contesto delle speranze suscitate dal nuovo ciclo di riforme, dalla netta connotazione illuministica – avviate a partire dal 1760 dalla nuova burocrazia della corte viennese – e ad essa appartenevano ufficialmente sette membri, ritratti nel celebre quadro di Antonio Perego.59 Quel nomignolo (la società dei “Pugni”), frutto di una diceria sparsasi per Milano nell’agosto del 1763,60

55 La pseudo lettera verriana, datata 16 gennaio 1761, si legge in P. Verri, Memorie sincere, a cura di E. Agnesi,

Modena, Mucchi, 2001, p. 135

56 G.A. Maggi, Vita di Alessandro Verri, cit., p. 7-8, ma cfr. anche A. Lepreri, Studio biografico e critico, cit., p. 8. 57 «Io ti devo tutto al mondo. Tu mi hai incominciato ad instillare sentimenti e coltura; tu mi hai incoraggiato e

sostenuto ne’ miei studi, tu mi hai sottratto alla domestica tirannia, tu mi hai soccorso in ogni occasione, tu sei, io non so se dica il fratello, il mio amico o il mio padre». Carteggio, vol. I parte II, p. 44.

58 P. Verri, Memorie sincere, cit., p. 139 (pseudolettera del 6 aprile 1762).

59 Il quadro di Perego (Milano, collezione Luisa Sormani Andreani Verri), del 1766, fu commissionato da Pietro quando

ormai il sodalizio stata sciogliendosi, per la partenza parigina di Alessandro e Beccaria. Costituisce però un documento visivo fondamentale perché riunisce i sette membri “ufficiali” dei Pugni: oltre a Pietro e Alessandro, il Beccaria, Giambattista Biffi, Luigi Lambertenghi, Alfonso Longo e Giuseppe Visconti di Saliceto. Il carattere informale dell’Accademia, però, permetteva di accogliere saltuariamente anche altri membri (Paolo Frisi e Sebastiano Franci), tra cui anche le donne, come Teresa Blasco, moglie di Beccaria.

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La racconta Pietro, nella Cronaca di Cola de li Picirilli degli avvenimenti pubblici di Milano dell’anno 1763, che si legge ora nel primo volume dell’Edizione nazionale delle opere di Pietro Verri, Scritti letterari filosofici e satirici, a cura di Francioni, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 2014, pp. 454-468, pp. 462-64: «Ne lo mese de Augusto se vociferò molto pe’ la Metropole de na cierta Cademia de Pugni, et se diceva che cierti studiosi pe’ nome Beccaria, Longo, Lambertenghi, Blasco, Visconti et due frati Verri, Alessandro e Pietro, se adunassero pe’ darse de’ Pugni, et tutta la Metropole fue in gran suzzurro pe’ chisso affare, et se diceva che chilli studiosi erano retici et de chiù

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si trasformò ben presto in «un’orgogliosa insegna, indicativa della lotta senza quartiere ingaggiata dai membri del sodalizio contro le storture e i pregiudizi della società milanese»,61 in aperto accordo con l’azione del governo viennese rispetto alla necessità di un cambiamento e una profonda razionalizzazione della società di Antico Regime.62 Questa «antiaccademica società», per usare la felice formula di Sergio Romagnoli,63 si imponeva nel milieu intellettuale lombardo in diretta polemica con le istituzioni accademiche presenti in Italia: solo a Milano ve ne erano venticinque «ed erano, là come altrove, oggetto soltanto ormai di stupita curiosità».64 A parte, forse, la stessa accademia dei Trasformati, alla quale furono iscritti lo stesso Pietro Verri e il Beccaria, così come il Parini, che però malgrado le aperture in senso progressista conservava una chiara impostazione erudita,65 in generale le accademie italiane «ben lungi dal salvare la cultura italiana dalla decadenza l’avevano accelerata, facendo prevalere la critica sulla creazione e il gusto sul genio, portando a una sempre più profonda scissione tra letteratura e scienza».66 A ciò i Pugni opposero un modello organizzativo che non solo mirava ad unire strettamente arte e scienza, ma sottolineava soprattutto la libertà della creazione artistica contro le angustie delle regole e del formalismo, che imprigionavano la libertà espressiva dell’uomo. Lo stesso Alessandro Verri sottolineerà a più riprese, nel Caffè, non solo l’eccessivo numero delle accademie italiane, ma i vizi ad esse connaturati, quali lo spirito di corpo, il conservatorismo, e la conseguente mancanza di libertà intellettuale al suo interno,67 proponendo all’opposto un «piccolo cerchio», caratterizzato da «quella filosofica e dolcissima amicizia che nasce dalla perfetta analogia de’ sentimenti».68

Se a un siffatto modello si ispirò concretamente la società dei Pugni, che durò formalmente 6 anni,

dal 1761 al 1766, è interessante puntare l’attenzione sulle letture del gruppo, importanti altresì per

scommunecati, pechè se dicieva che dicessero ch’era na buona cosa che le molieri facisser becche le mariti et cose simili». La notizia venne messa in circolazione da «no cierto sonatore de cimbalo», Carlo Monza (1705-1801) maestro di cappella della Corte e del Duomo di Milano. Gli stessi Pietro e Alessandro lo definiranno, nel Carteggio, vol. II, p. 95, «l’inventore dell’Accademia dei Pugni», proprio perché fu egli a coniare e diffondere il soprannome poi accolto.

61 Capra, I progressi della ragione, cit., p. 189.

62 Su questo ha insistito di recente lo stesso Capra, L’ Accademia dei Pugni e la società lombarda, in «Archivio storico

lombardo», CXL, vol. XIX, 2014, pp. 29-46. Ma si veda anche Id., L’Accademia dei Pugni e l’illuminismo lombardo, in Da Beccaria a Manzoni, cit., pp. 43-51.

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Romagnoli, Introduzione a Il Caffè, ossia brevi e vari discorsi distribuiti in fogli periodici, a cura di Id., Milano, Feltrinelli, 1960, p. ix.

64 Venturi, Settecento riformatore, cit., p. 680.

65 Cfr. G. Petronio, Parini e l’illuminismo lombardo, Bari, Laterza, 1972², p. 17 e ss. 66

Venturi, Settecento riformatore, cit., p. 680.

67 A. Verri, Dei difetti della letteratura e di alcune loro cagioni, in Caffè, pp. 539-60, in particolare pp. 552:«Ma

succede dappoi che questi corpi pubblici della letteratura, che questi senati delle scienze acquistano di mano in mano uno spirito parziale di corpo che si oppone alla universale libertà della repubblica degl’ingegni. Avvezzi ad essere venerati e a non istimar che se stessi; gelosi del loro credito, vigorosamente s’oppongono a tutto ciò che può scemarlo. Quindi se v’è alcuno che non sia del loro corpo, che faccia qualche straordinario volo nelle arti o nelle scienze, eglino sono sempre gli ultimi ad acconsentirvi, perché di troppo amano la dittatura delle lettere, che hanno ottenuta in tempi meno colti e che sono avvezzi ad esercitare». E ancora (p. 553): «L’accademia è immortale; i nuovi candidati non piegano il corpo alle loro opinioni, ma essi conviene che si pieghino a quelle del corpo; e così hanno nelle loro cose questi ceti, come la maggior parte, uno spirito di immobilità».

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