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alla prova: adattamento e degenerazione (1934-1975)

La crisi internazionale dei primi anni Trenta fece precipitare le grandi banche miste in uno stato di grave crisi, immobilizzandone gli attivi con il rischio di coinvolgere, in ultima istanza, la stessa Banca d’Italia (Toniolo, 1978). Le

operazioni di salvataggio delle tre banche miste, sotto la direzione di Beneduce, fecero emergere, tra l’ottobre 1931 e il marzo 1934, “un disegno coerente di ristrutturazione finanziaria e industriale del paese”, imperniato sulla separazione tra banca e industria, sulla specializzazione funzionale del credito, per scadenze temporali omogenee, tra banche commerciali e istituti di credito speciale, sulla

pubblicizzazione di fatto di larga parte del sistema bancario italiano (Toniolo, 1993). Quel disegno di riassetto finanziario riprendeva l’idea che lo stesso Beneduce aveva seguito negli anni Venti nella creazione dei primi istituti di credito speciale (Icipi, Crediop, Istituto di Credito Navale). Le stesse operazioni di salvataggio transitarono per la costituzione di un istituto di credito speciale di diritto pubblico, l’Istituto Mobiliare Italiano (Imi), che avrebbe dovuto finanziare le imprese a lungo termine mediante l’emissione di obbligazioni,

Il ruolo dello Stato imprenditore e regolatore

Dall’Unità ai giorni nostri: 150 anni di borsa in Italia

stato robustamente sviluppato a partire dalla ricostruzione postbellica (Lombardo e Zamagni, 2009). Il finanziamento a lungo termine delle grandi opere infrastrutturali e delle imprese dei settori capital intensive richiedeva il raccordo del risparmio con gli investimenti in condizioni di particolare tutela, ovvero mediante un circuito obbligazionario parapubblico alternativo al modello incentrato sull’integrazione tra banca mista e mercato azionario tratteggiato in età giolittiana da Joel della Banca Commerciale (Bonelli, 1985; De Cecco, 1997; Piluso, 1999). Con il nuovo ordinamento sancito dalla legge bancaria del 1936, un ordinamento di impianto dirigista, si rinunciò a recuperare quel potenziale di sviluppo che il mercato azionario aveva manifestato di possedere prima della crisi del 1907 e, ancora, aveva dimostrato di avere in relazione alla fisiologia operativa della banca universale durante gli anni Venti (Onado, 2003; Piluso, 2010).

Dopo la seconda guerra mondiale l’ordinamento della legge bancaria del 1936 fu assegnato all’efficace e autorevole regia di uno dei suoi estensori, Donato Menichella, quale governatore della Banca d’Italia dal 1948 al 1960 (Cotula, 1999). Durante il governatorato Menichella tenne ben fermo il principio che la crescita dovesse essere finanziata in condizioni di stabilità macroeconomica, al di fuori di dinamiche inflazionistiche. Nel dopoguerra l’adattamento del sistema finanziario, il cui

ordinamento era stato concepito per ridurne l’esposizione a shock esogeni e in un’economia

tendenzialmente chiusa, alle necessità dell’economia e delle imprese in un quadro di apertura e integrazione nei mercati

internazionali non escluse, in linea di principio, che il mercato azionario potesse essere un canale di provvista di fondi per il settore privato. Nonostante la legge bancaria ignorasse la borsa, Menichella seguì con favore i tentativi di riforma della borsa, ancora ferma alla normativa del 1913, e sostenne attivamente le fasi espansive del mercato attraverso le autorizzazioni alle emissioni di azioni e obbligazioni, purché la raccolta di mezzi per la crescita delle imprese non fosse in contrasto con la politica monetaria perseguita, incentrata sull’obiettivo fondamentale della stabilità macroeconomica, interna ed esterna (Menichella, 1997; Fratianni e Spinelli, 1997; Cotula, 1999; Conte, 2008).

Nonostante una fase espansiva dei corsi e dei volumi trattati negli anni Cinquanta, grazie anche ai buoni rendimenti azionari (Barca, 1997), la borsa perse di fatto la capacità di rappresentare le imprese italiane, fissandosi la composizione del listino al quadro settoriale precedente il miracolo “economico”, rimanendo tenue l’aumento del numero delle società quotate e contenuta la capitalizzazione azionaria (Barbiellini Amidei e Impenna, 1997). Che il mercato di borsa continuasse a essere regolato dalla farraginosa normativa sovrappostasi alla legge del 1913, come osservò la Commissione economica dell’Assemblea

Costituente, non favoriva certo un incremento dell’efficienza e della trasparenza delle negoziazioni,

che rimanevano ancora in larga misura segnate da manipolazioni dei corsi che penalizzavano i risparmiatori che accedevano agli investimenti in azioni. Il primo tentativo di riformare con un disegno regolamentare complessivo la normativa, intrapreso nel 1948 con la creazione di una apposita

commissione ministeriale, naufragò nei primi anni Cinquanta per un contrasto tra le banche e gli agenti di cambio. Né le proposte avanzate dai primi anni Sessanta di introdurre i fondi comuni e le azioni privilegiate trovarono riscontro nell’azione del legislatore. La regolazione dei mercati finanziari fu piuttosto affidata alla prassi delle autorizzazioni alle emissioni da parte della Banca d’Italia e alla legislazione fiscale

tendenzialmente punitiva, come fu la legge Tremelloni del gennaio 1956 che introduceva un dispositivo di enforcement della nominatività dei titoli al fine di recuperare un imponibile che tendeva a sottrarsi alla

tassazione. La legge Tremelloni fece crollare l’entità dei riporti e delle operazioni a termine, con effetti immediatamente negativi sulla funzionalità del mercato azionario secondario. L’adozione della cedolare secca nel 1963 non fu di per sé sufficiente a invertire la tendenza negativa prodottasi all’apertura del decennio, restituendo tono e volume a un mercato azionario che registrava negativamente la contemporanea nazionalizzazione dell’industria elettrica e la manovra monetaria restrittiva di quell’anno (Nardozzi e Piluso, 2010). La normativa fiscale non

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solo indicava la preferenza per obiettivi di natura fiscale presso il legislatore, ma, più in generale, era segno della sostanziale mancanza di favore politico verso il mercato azionario come strumento allocativo. Le politiche economiche della seconda metà del decennio, quelle dell’intervento pubblico straordinario inaugurate con il Piano Vanoni del 1957, tesero piuttosto a rafforzare il circuito delle obbligazioni degli enti pubblici e degli istituti di credito speciale. Nella fase ascendente dell’economia italiana la domanda di fondi da parte del settore privato venne del resto soddisfatta altrimenti. Negli anni Cinquanta il finanziamento della crescita delle imprese italiane fu, in effetti, sostanzialmente affidato all’allentamento dei vincoli di liquidità derivante dai soddisfacenti margini di profitto connessi all’espansione delle esportazioni e della domanda interna (Boltho, 1996; Rossi e Toniolo, 1996). Né le banche impressero un impulso verso le imprese

minimamente analogo a quello che le banche miste dell’età giolittiana avevano dispiegato a promozione degli investimenti e della crescita (Gigliobianco, Piluso e Toniolo, 1999).

La stessa stabilizzazione della lira e del debito pubblico operata da Luigi Einaudi quale governatore della Banca d’Italia produsse un efficace e rapido contenimento della massa del debito liberando risorse per le imprese.

La dinamica del debito, dopo lo shock finanziario della guerra che era tuttavia iniziato con la guerra in Etiopia, descrive il rapporto tra debito e prodotto aggregato in termini estremamente positivi. La crescita degli anni Cinquanta e Sessanta, in assenza di incrementi di spesa sostanziali, consentì di mantenere il debito pubblico sotto controllo, a livelli stabilmente inferiori al 35 per cento del reddito, con un’unica eccezione, sino allo shock petrolifero del 1973 (Artoni e Biancini, 2003; Ricciuti, 2008) (si veda la Figura 4.4).

L’abbattimento del debito pubblico favorì anzi una stagione di cattura del mercato primario da parte delle imprese quotate maggiori, pubbliche e private, che dal 1948 al 1961 vi collocarono a più riprese imponenti emissioni di azioni e obbligazioni drenando una quota consistente di risparmio e limitando l’ingresso in borsa ai nuovi soggetti che emergevano negli anni del miracolo (Onado, 2003). L’irrigidimento del listino delle società quotate in una fase pur positiva di crescita del mercato azionario, ma non di sviluppo funzionale, fu aggravato dalla nazionalizzazione

dell’industria elettrica.

La nazionalizzazione, anche per le modalità prescelte su pressione del governatore della Banca d’Italia Guido Carli (Carli, 1977), non modificò una tendenza alla stagnazione del listino

chiaramente delineatasi nei precedenti decenni, ma semplicemente accelerò un processo di deterioramento funzionale del mercato azionario