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della Banca Commerciale Italiana, del Credito Italiano, della Società Bancaria Italiana Banca Italiana di Sconto e del Banco di Roma, 1895-

Fonte: Bava, 1926, appendice; Confalonieri, 1980, vol. III, p. 447, tab. 63. 0,000 0,050 0,100 0,150 0,200 0,250 0,300 0,350 1895 1897 1899 1901 1903 1905 1907 1909 1911 1913 1915 1917 1919 1921 1923 1925 BCI CI SBI BdR

Il ruolo dello Stato imprenditore e regolatore

Dall’Unità ai giorni nostri: 150 anni di borsa in Italia

e selezionare così efficientemente imprese e progetti di investimento. Non prese corpo un progetto di promozione del mercato azionario, una riforma che razionalizzasse i mercati di borsa e ne riducesse la segmentazione, definisse le funzioni complementari rispetto agli intermediari, regolasse

opportunamente i diritti dell’insieme degli azionisti delle imprese. Lo sviluppo di un mercato

azionario avrebbe potuto, in quella direzione, rafforzare la formazione di capitale nel settore privato, creare un mercato per l’allocazione dei diritti di proprietà e controllo delle imprese. I provvedimenti normativi presi durante la crisi e soprattutto quelli che seguirono con la legge di riforma della borsa del 1913 (20 marzo 1913, legge n. 272) mirarono, invece, a contenere la speculazione più che

a consolidare la domanda di investimento in titoli azionari (Aleotti, 1989; Riva, 2007). Il modello di intermediazione su cui si concentrarono le autorità centrali, sulla scorta delle autorevoli memorie di Stringher, richiedeva che la politica monetaria fosse autonoma dalle esigenze di finanziamento della liquidità del mercato azionario e mirasse a stabilizzare la circolazione, i rapporti di cambio e le

aspettative degli investitori, così da contenere, in prospettiva, i costi e lo stock del debito pubblico e liberare risorse per il settore privato nel medio termine. Le proposte in tema di finanziamento a lungo termine emerse dopo il 1907 indicarono un’opzione che non prevedeva necessariamente lo sviluppo del mercato azionario. La proposta di creare un istituto di credito speciale che si finanziasse

mediante l’emissione

di obbligazioni, in condizioni fiscali di favore, avanzata dalla Assonime nel 1911 indicò una prima

convergenza tra l’associazione delle società per azioni e le autorità centrali (Confalonieri, 1982). I progetti di riforma messi a punto sin dal 1908, infine recepiti dalla legge del 1913, furono intonati a una rigida regolazione del mercato e degli operatori, relegando la borsa in una posizione secondaria rispetto agli intermediari. La cattiva regolamentazione e le derivate disfunzionalità fecero entrare il mercato azionario in una fase di contenimento delle proprie potenzialità di sviluppo (Siciliano, 2001; Riva, 2007), mentre la riflessione sui problemi di maturity mismatch tra attivo e passivo degli intermediari orientava l’azione dei tecnocrati nittiani che definirono l’architettura regolamentare del sistema finanziario tra la prima guerra mondiale e la grande depressione. Le ricorrenti tensioni tra banche miste e imprese sottocapitalizzate, frenate nella raccolta di capitale di rischio dalla fragilità del mercato azionario, indussero la Banca d’Italia a estendere la propria area di intervento, configurandosi progressivamente come la “mano tecnica” con cui l’intervento pubblico mirava a dare, in condizioni di stabilità interna dei prezzi ed esterna dei rapporti di cambio, continuità alla crescita degli investimenti. La costituzione del Consorzio per Sovvenzioni su Valori Industriali (Csvi) nel 1914 prefigurò la creazione di quel circuito obbligazionario, con il quale alimentare gli istituti di credito speciale, che sarebbe stato il perno del modello Beneduce

(Bonelli, 1984 e 1985; Franzinelli e Magnani, 2009).

L’impegno finanziario della grande guerra innescò, anche attraverso la monetizzazione dei disavanzi, un rapido e netto aumento del rapporto tra debito pubblico e prodotto aggregato, sino ai livelli particolarmente acuti raggiunti nella difficile fase di aggiustamento postbellica (Confalonieri e Gatti, 1986; Zamagni, 1998; Artoni e Biancini, 2003; Francese e Pace, 2008) (si veda la Figura 4.2). Con la fase espansiva dell’economia italiana e le parallele politiche di contenimento della spesa pubblica e rientro dal disavanzo, culminate con la regolazione dei debiti interalleati tra il 1924 e il 1925, si presentarono condizioni macroeconomiche permissive alla crescita della borsa. Pur in presenza dell’alta instabilità dei mercati valutari internazionali, il venir meno di fatto del regime di gold standard in Europa rese possibile allentare i vincoli di riserva che avevano inciso restrittivamente sulla regolazione della liquidità interna in età giolittiana. Le specifiche condizioni del sistema monetario

internazionale indussero le autorità centrali italiane a tollerare

l’allargamento della base monetaria con cui le banche miste poterono sostenere le posizioni rialziste in borsa attraverso le operazioni di riporto (si veda la Figura 4.3). I vincoli macroeconomici esterni che avevano interrotto la crescita della borsa nel 1907 furono pertanto rimossi in parte, dando impulso a un movimento “carsico”, registratosi tra il 1924 e il 1925, di rilancio del mercato azionario, con un aumento dei corsi e dei volumi trattati, alimentato anche dalla

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liquidità iniettata dalla riduzione del debito pubblico. La decisione di stabilizzare il sistema monetario internazionale delineatasi con i rumours di un prossimo ritorno all’oro della Gran Bretagna ai primi del 1925 imposero anche alle autorità monetarie italiane comportamenti e scelte che contemplassero il rispetto dei vincoli macroeconomici connessi (Stringher, 1926; Tattara, 1993). Dal febbraio 1925 il ministro delle Finanze Alberto De Stefani emanò una serie di provvedimenti che misero pressoché immediatamente in crisi il modello di “cattura” della borsa da parte della banca mista, secondo una prassi ammessa dalla normativa del 1913 ma

deformatasi dopo la guerra. Il rapido deterioramento del rapporto di cambio sollecitò le autorità monetarie a contenere la massa monetaria e a premere sulle banche che dovettero perciò ridurre le proprie esposizioni (in particolare i riporti che si contrassero con un lieve anticipo rispetto ai corsi di borsa). Oltre alla netta caduta dei corsi, destinata a pesare sui valori posti all’attivo delle banche che

dovettero sempre più trasformare i crediti incagliati o i titoli non collocati in equity, si registrò un deterioramento funzionale dei mercati primario ma soprattutto secondario. Nella seconda metà del decennio tale processo degenerò gravemente in una “fratellanza siamese” tra le maggiori banche miste e le grandi imprese industriali affidate e ora sempre più partecipate (Mattioli, 1962), sino a che non fu necessario intervenire con le operazioni di smobilizzo e salvataggio condotte dall’Istituto

per la Ricostruzione Industriale (Iri) sotto la regia di Alberto Beneduce (Toniolo, 1978 e 1993; Bonelli, 1984 e 1985; Confalonieri, 1994). La competizione tra i due modelli, fino allora latente per

l’allentamento dei vincoli esterni, divenne aperta e diretta con i provvedimenti presi da De Stefani e con la politica monetaria restrittiva che seguì sino alla decisione dell’agosto 1926 di stabilizzare la lira contro la sterlina a quota novanta. La normativa emanata da De Stefani separò la borsa dalle banche, che ne uscirono di fatto, affidando le contrattazioni e gli scambi agli agenti di cambio, il cui status veniva assimilato a quello di pubblici ufficiali e il cui numero diveniva chiuso. L’impianto liberista della precedente legge veniva modificato e la regolazione veniva irrigidita da una normativa di segno differente che moltiplicava vincoli e restrizioni, impediva qualsiasi forma di integrazione tra intermediari e mercati. La competizione tra i modelli, nonostante alcuni provvedimenti fiscali favorevoli presi dal nuovo ministro delle Finanze Giuseppe Volpi, fu ulteriormente acuita dai provvedimenti che rafforzavano le funzioni di controllo della circolazione assegnate alla Banca d’Italia con la legge sull’unicità dell’emissione del maggio 1926, con la quale si posero le condizioni per quota novanta (Cotula e Spaventa, 1993; Nardozzi e Piluso, 2010). La politica monetaria restrittiva di quota novanta costrinse le banche, di fronte a un mercato azionario secondario sempre meno liquido e tonico, a estendere

la conversione dei crediti in sofferenza in partecipazioni azionarie esponendole in alto

grado, come osserva Gianni Toniolo, agli shock che avrebbero colpito l’economia internazionale e italiana dalla seconda metà del 1929 (Toniolo, 1993).

4.3 Il modello Beneduce

alla prova: adattamento