• Non ci sono risultati.

Una visione del divenire nei centocinquant’anni dell’Unità d’Italia della disciplina delle società quotate non è certamente possibile nel succinto spazio concesso, non foss’altro per la molteplicità delle prospettive attraverso le quali la vicenda dovrebbe essere affrontata. È evidente infatti, per limitarci solo all’angolo visuale giuridico, come alla ricostruzione del divenire della regolamentazione, sia codicistica sia della legislazione speciale (che grande rilevanza ha assunto in materia societaria) dovrebbe accompagnarsi uno studio “sul terreno” degli statuti, delle deliberazioni societarie, del contenzioso, della

regolamentazione pubblicistica. Basti pensare, al riguardo, come

Piergaetano Marchetti

2

praticamente sino alla fine degli anni Cinquanta a livello legislativo non si pose il problema di una (corposa e significativa)

regolamentazione differenziale tra società quotate e non. Di qui il grande interesse che avrebbero ricerche ad ampio raggio sugli statuti, così come sull’attività delle Camere di Commercio e ancor prima sulle prassi autorizzative (sino all’entrata in vigore del codice di commercio del 1882 che abolì l’istituto della autorizzazione alla costituzione delle società) e poi su quelle omologatorie da parte dei tribunali civili (prassi, queste ultime, sulle quali si cominciò a far luce all’inizio degli anni Settanta al Tribunale di Milano). Anche questo lavoro, verosimilmente, getterebbe nuova luce nel diritto societario volta volta vigente, non tuttavia, probabilmente, tale da evidenziare

La regolamentazione delle società quotate

Dall’Unità ai giorni nostri: 150 anni di borsa in Italia

particolari specificità per le società quotate.

In effetti, all’epoca dell’unificazione politica del Paese, il fenomeno della società per azioni

è perlomeno limitato e l’istituto è concepito tipicamente come funzionale a raccogliere capitali nel pubblico, anche se questo pubblico è un pubblico limitato. Basti pensare che al 31 dicembre 1865 si annoverano 343 società per azioni, delle quali solo venti con azioni di valore nominale unitario di meno di cento lire (corrispondenti al 2008 a più di 400 euro). Le società quotate alla Borsa di Milano erano due, salite nel 1867 a otto. Non pare azzardato ritenere che

complessivamente in tutte le Borse italiane i titoli azionari nazionali trattati negli anni dell’Unità non superassero venti-venticinque società.

Se volessimo usare un linguaggio attuale potremmo dire che la società per azioni nei primi decenni dell’Unità è tipicamente, secondo il modello legislativo, una società con azioni diffuse tra il pubblico. Che la diffusione poi fosse tale da approdare anche alla trattazione in borsa (per la quale non era richiesta una specifica dimensione) era un accidente sostanzialmente privo di rilievo legislativo (Pivato, Scognamiglio, 1972, p. 14; De Luca, 2002). Che la società per azioni fosse tipicamente destinata a fare un qualche appello al risparmio anonimo e diffuso emerge dall’unico modo di costituzione che i codici preunitari, ma anche il codice di commercio, conoscevano, vale a dire la costituzione per pubblica sottoscrizione in adesione a un

programma (i primi prospetti) diffuso dai promotori. E che la società per azioni tipicamente si prestasse ad abusi in fase soprattutto di sottoscrizione era nozione di comune esperienza, addirittura enfatizzata dai giuristi. È d’obbligo la citazione

nientemeno che di Jhering (Acerbi, 2011, p. 28) che vede nelle società per azioni uno degli istituti giuridici «più calamitosi» che si risolve in un perenne «campo di battaglia, un cimitero; pozza di sangue, cadaveri, tombe, saccheggiatori, sciacalli».

Facevano eco gli economisti quali Boccardo, per cui i «forsennati giochi di Borsa» erano divenuti, «abitudine pressoché universale e … funesta», vero flagello (Teti, 1999, p. 1217). Insomma, il fenomeno dei venditori di cieli azzurri, o comunque di abili speculatori che lanciano sottoscrizioni a caro prezzo di azioni di società con

programmi velleitari, irrealizzabili, se non proprio fraudolenti è coevo all’affermarsi in Italia, pur nei limiti di cui si è detto, della società anonima.

Il problema centrale con il quale, per quanto attiene alla disciplina societaria, nasce il Regno d’Italia è quello di coniugare i principi liberisti con adeguate cautele nei confronti dei gravissimi rischi che l’istituto della società per azioni può arrecare, diremmo con linguaggio moderno, al pubblico risparmio. Per rendersi conto di come il giurista vedeva il problema nei primi anni dell’Unità pare significativo questo brano di Vivante: «La costituzione delle società anonime diede frequenti occasioni in tutti i paesi e anche in tempi recenti a deplorevoli

45 44

abusi dei loro fondatori. Profittando della fiducia degli azionisti, essi riuscirono spesso a farsi assegnare un grande numero di azioni quale compenso di conferimenti in natura, di fatiche, di progetti cui davano un valore esagerato e le misero in

circolazione anche prima che tutto il capitale fosse sottoscritto, illudendo il pubblico col vanto di un capitale che ancora non esisteva. Con false notizie, con programmi ingannevoli o con altri artifici fecero salire il corso delle azioni collocandole nelle mani di povera gente, di operai, di domestici, di piccoli commercianti che ritiravano in cambio dei loro risparmi un foglio di carta senza valore. Quando non poterono spacciare immediatamente le azioni, si prepararono l’occasione di un più lento ma più lucroso collocamento distribuendo coi primi bilanci lauti dividendi, nel cui pagamento impiegavano i primi versamenti fatti dagli azionisti. Le grandi Banche che dovrebbero aiutare la costituzione delle nuove imprese col più scrupoloso senso di responsabilità, favoriscono spesso ogni genere di emissione pur di guadagnare delle laute provvigioni sul collocamento dei titoli. Questi furti, che l’impunità legale rese molto frequenti, non solo pregiudicarono i disgraziati possessori delle azioni, ma screditarono eziandio le imprese onestamente progettate che non poterono costituirsi.

Questa dolorosa esperienza ci dà la ragione del sistema complicato e diffidente con cui le leggi s’ingegnarono di garantire nella fondazione dell’impresa l’integrità del suo capitale contro gli abusi dei promotori, e dell’indole

imperativa delle sue disposizioni che restringono la libertà dei contraenti in limiti insolitamente ristretti.» (Vivante, 1903, p. 153 s.). A centocinquant’anni, dopo crisi e qualche incredibile scorreria, forse le crude e semplici parole del grande commercialista prefigurano un dilemma ricorrente.

2.2 Dall’Unità al codice