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di commercio del

In particolare, e tra l’altro, il tema centrale di discussione fu

rappresentato dal controllo pubblico autorizzativo (non solo di legalità) e dalla figura dei commissari per la vigilanza sulla gestione. Un progetto piemontese (Lanza) poco prima dell’Unità proponeva per il Regno Sabaudo di riformare, rispetto al codice di commercio colà vigente, la disciplina delle società per azioni (ma anche dell’accomandita per azioni) in senso fortemente pubblicistico, nel senso cioè di sottoporre costituzione e gestione a forte controllo amministrativo, giungendo sino a fissare un valore minimo unitario dell’azione col dichiarato fine di evitare l’adescamento di troppo vaste schiere di pubblico non adeguatamente responsabile. Il tema è al centro delle iniziative per la riforma societaria

all’indomani della proclamazione del Regno d’Italia. A poco più di un anno dalla proclamazione, viene presentato alla Camera un progetto ministeriale (Pepoli, dal nome del ministro proponente) che pure esso si ispira a una linea piuttosto severa prevedendo sempre l’autorizzazione per la costituzione e commissari di

vigilanza sulla gestione, nonché un valore minimo delle azioni. Questa impostazione, certo prevenuta verso l’istituto societario, nella sua moderna forma anonima, turbata dai rischi di frodi, ma forse mossa anche dall’esigenza di controllare il formarsi di forti centri di potere (residuano elementi della vecchia autorizzazione di polizia), certo consapevole che l’appello al risparmio (relativamente) diffuso

La regolamentazione delle società quotate

Dall’Unità ai giorni nostri: 150 anni di borsa in Italia

insito tipicamente nell’istituto della società per azioni poteva, senza controlli esterni, creare rischi sistemici significativi, suscitò non poche reazioni, a cominciare dallo stesso Parlamento. Fu così che la Camera istituì una commissione di pochi deputati coordinata da Tommaso Corsi, la quale adottò un’impostazione nettamente liberista giudicando inutile e controproducente il controllo pubblicistico. Il sistema

capitalistico, si afferma, «ha capacità civile per trattare i propri affari» (Padoa Schioppa, 2010, p. 208), non ha bisogno di tutele esterne che già avevano dato pessima prova nel prevenire frodi. Sono sufficienti adeguate norme organizzative idonee (anche attraverso vigilanti interni: inizia ad apparire l’istituto dei sindaci) che potranno dare, grazie alle tutele offerte agli stessi partecipanti, la possibilità di esperire azioni di responsabilità e favorire in genere, per così dire, l’operare degli anticorpi

del sistema.

In questo contrastato quadro i lavori per la disciplina societaria non progrediscono e si preferì affrontarli attraverso la revisione del codice di commercio piemontese, revisione compiuta nella primavera 1865 ed entrata in vigore il 1° gennaio 1866. Fu questo, anche formalmente, il primo codice di commercio dell’Italia unita.

Si deve all’indagine attenta di Giuseppe Acerbi (2011, p. 40) aver messo in luce che nei pochi anni che trascorsero dalla discussione sul progetto Pepoli e la

commissione (dal nome del relatore) Corsi – cioè da fine 1862 al 1865 – si assistette a una significativa attività che in via amministrativa, da un lato, imponeva la pubblicazione degli atti costitutivi delle società per azioni autorizzate, dall’altro, offriva criteri per il rilascio della

autorizzazione (di competenza centralizzata ministeriale), sul valore unitario delle azioni, sui conferimenti, su altri aspetti più sensibili al fine di prevenire frodi al risparmio.

I giudizi complessivi sul codice di commercio del 1865 non sono unanimi. A un’opinione (dominante) che la valuta in termini di un mero restyling del codice

piemontese, si affianca una visione più propensa a coglierne non pochi aspetti innovativi. Certo è che, per quanto attiene alla disciplina societaria, rimane, e anzi si estende (a tutte le accomandite per azioni, fossero queste nominative o al portatore) il controllo autorizzativo e dei commissari governativi, anche se non è esclusa la nomina volontaria di censori, prototipo dei sindaci, da parte degli azionisti. Si

lascia ampio spazio all’autonomia statutaria in materia assembleare (competenze, quorum, ecc.), ma appare una prima disciplina del conflitto di interessi del socio amministratore (art. 148). I casi in cui il socio amministratore non può votare sono solo due, ma di essi uno ha un’importanza enorme: «gli amministratori non possono dar voto … nell’approvazione del bilancio». E ancora, vale la pena di rammentare il divieto di delega di voto agli amministratori e la loro responsabilità secondo le norme del mandato.

Si inaspriscono le norme sull’effettività del capitale, contro gli abusi dei promotori e sui conferimenti, secondo le proposte che già figuravano nel progetto piemontese Lanza. Lo schema costitutivo continuava a essere quello dell’offerta in sottoscrizione cui seguiva l’assemblea dei sottoscrittori secondo lo schema (alternativo rispetto alla

costituzione contestuale) rimasto in vigore sino alla recentissima riforma del 2003.

Il controllo pubblico viene dunque mantenuto, ma il codice del 1865 pone solide basi per un suo superamento nel momento in cui accredita e vuol dare solide basi a una disciplina che, a prescindere dalla vigilanza esterna e pubblica, concepisce gli amministratori come mandatari, oggi diremmo

rigorosamente imparziali, caratteristica questa che è addirittura sancita nell’art. 129, il primo articolo della sezione dedicata alle società anonime e che ne definisce i caratteri tipologici essenziali.

Il dibattito tra fautori del controllo pubblico e i liberisti che lo considerano indebito e quindi

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di intralcio alla vita economica continua a fasi alterne.

Se nel 1866 si istituisce presso il Ministero delle Finanze un ufficio strutturato “di sindacato” sulle società, competente per il rilascio delle autorizzazioni e per la vigilanza continua (con competenze particolarmente incisive sugli istituti di credito), dopo solo tre anni l’ufficio è soppresso.

La competenza è attribuita alle Camere di Commercio (rectius: a un ufficio provinciale composto dal Prefetto e da due membri eletti dalla Camera di Commercio): regio decreto 5 settembre 1869, n. 5256 (Padoa Schioppa, 1992, p. 213). Le ispezioni vengono ridimensionate perché avranno luogo solo «sul reclamo … » di azionisti (che rappresentano almeno il 10% del capitale sociale) e sono dirette a verificare il rispetto della legge e dello statuto (escludendosi così nettamente il merito). Eppure, un certo contrappasso si registra in questa deriva verso l’abolizione del controllo pubblico, nel senso che tutte le società industriali e commerciali dovranno pubblicare il loro resoconto (confermandosi così quanto già stabilito in sede di entrata in vigore del codice del 1865 con il regio decreto 30 dicembre 1865, n. 2727),

rendiconto lasciato peraltro all’autonomia privata, ma con obbligo di indicare distintamente il capitale nominale, quello sottoscritto e quello realmente versato. Il rendiconto, almeno per estratto, è pubblicato sul Foglio Annunzi Legali e l’ispezione, pur nella più blanda versione adottata dopo la deliberazione di

soppressione dell’ufficio di sindacato, si estende (sempre peraltro sul reclamo degli azionisti

che rappresentano almeno un decimo del capitale) all’ipotesi di evitare che “i resoconti e i prospetti pubblicati siano inesatti” (il che, in assenza di una analitica disciplina della materia, continua a tenere aperto un significativo spazio al controllo di merito).

2.3 Il codice di commercio