• Non ci sono risultati.

e degli Amici del Mondo La Commissione Santoro

Passarelli

Il discorso della riforma è ripreso a metà degli anni Cinquanta da una ristretta pattuglia di uomini che comprende pubblicisti

e polemisti (Ernesto Rossi e il giovane Eugenio Scalfari), giuristi (Tullio Ascarelli e Bruno Visentini), politici (Riccardo Lombardi e Ugo La Malfa). Il “Mondo” e i convegni degli Amici del Mondo costituiscono il luogo in cui si coagula la posizione riformista sul governo delle imprese in un clima culturale eclettico, occidentale, antimarxista ma sensibile alle esigenze di economia sociale e liberal-socialiste.

Inizia così una “lunga marcia” per la riforma del diritto societario e per la disciplina

antimonopolistica che non a caso vedrà costantemente nel ruolo di protagonisti alcuni di coloro che parteciparono all’evento che in qualche modo segna l’avvio di tale lunga marcia, vale a dire il Convegno tenutosi a Roma il 12 e 13 marzo 1955 per iniziativa degli Amici del Mondo. Basti pensare al fatto che tra i membri del

La regolamentazione delle società quotate

Dall’Unità ai giorni nostri: 150 anni di borsa in Italia

si annoverano Ugo La Malfa e Bruno Visentini, che il progetto di riforma allora delineato venne presentato come proposta di legge nel 1956 e nel 1958, che Bruno Visentini fa parte della

Commissione ministeriale che mise a punto il “grande” progetto di riforma nel 1965, che decisivo è il ruolo di La Malfa nella ripresa di un progetto di riforma nel 1973 e poi nel varo della riforma del 1974 (il decreto legge 8 aprile 1974, n. 95 convertito nella legge 7 giugno 1974, n. 216) che, con l’istituzione della Consob, avrebbe costituito la prima importante riforma del diritto societario. La legge antitrust italiana vede la luce nel 1990 sulla base di due progetti di legge dovuti a un esponente del partito di La Malfa, Battaglia, e a un giurista sensibile all’insegnamento di Ascarelli, Guido Rossi (Donativi, 1990).

La riforma della disciplina societaria viene concepita in funzione antimonopolistica. La valenza monopolistica della disciplina societaria (allora vigente) è, per Ascarelli, duplice. Da un lato, si osserva come sussista «la possibilità di utilizzare la formazione di varie società per conciliare l’unità di comando di varie imprese da parte di una persona o di un gruppo», grazie alla leva finanziaria che il gruppo assicura. Dall’altro lato,

vi è il rischio «della formazione di prepoteri di singoli o gruppi all’interno della società (…) e così pure sempre (della) formazione di prepoteri e di concentrazione di poteri che costituisce il quadro nel quale deve collocarsi

il fenomeno delle formazioni monopolistiche, ove se ne voglia cogliere l’intera portata nella

struttura economica e nella stessa funzionalità della struttura

politica». Entrambi tali aspetti, nel momento in cui viene a mancare il meccanismo regolatore insito nell’associazione tra potere e rischio, pone una domanda di meccanismi idonei a selezionare «i dirigenti capaci e incapaci» (Ascarelli, 1956, 1955). In questa prospettiva, è logico che le proposte di riforma societaria si fondino, tra l’altro, sullo smantellamento dei sistemi di partecipazioni reciproche, sulla limitazione del proliferare di opache società di comodo (che spesso nascondono il

perseguimento di fini consortili), su di un irrobustimento dei controlli e del ruolo degli azionisti (della “maggioranza” degli

azionisti delle società a capitale diffuso) e degli spazi di

autotutela, sulla conseguente introduzione di una legittimazione di gruppi di soci a esperire direttamente l’azione di

responsabilità, sulla elezione per liste del collegio sindacale (il collegio sindacale «assumerebbe allora nei confronti degli

amministratori che costituirebbero l’esecutivo, una funzione

parlamentare di esponente dell’elettorato attivo riunito in assemblea», sull’incentivazione di forme associative tra azionisti diversi da quelli che costituiscono il gruppo di controllo, su di una limitazione dell’incetta

“inconsapevole” di deleghe di voto, e così di seguito. La limitazione della possibilità di autofinanziamento dei gruppi di controllo, la facilitazione dell’exit degli azionisti (attraverso la rimozione di vincoli alla libera circolazione delle azioni), rigorosi

divieti di finanziamenti infragruppo dovrebbero concorrere a costituire un presidio alla posizione

patrimoniale del socio escluso dal comando.

A tutto ciò si aggiunge la forte istanza per un’adeguata informazione dei mercati accompagnata da un controllo pubblicistico sulla completezza e veridicità dei dati diffusi. Complessivamente, da un lato «devono studiarsi misure pubblicistiche integrative in relazione a quella più vasta diffusione delle azioni che si collega col loro collocamento nel pubblico attraverso le borse» (la necessità di una

regolamentazione dei collocamenti e dell’appello al pubblico

risparmio è ricorrente); «dall’altro non devono trascurarsi le misure volte a facilitare la possibilità di autotutela del singolo», dal momento che, nonostante l’assenteismo dell’azionista risparmiatore, l’esperienza storica e comparatistica dimostra «una certa efficienza di norme la repressione della cui violazione è affidata all’iniziativa del singolo» (Ascarelli, 1956).

Il progetto di Ascarelli venne tradotto in una proposta di legge del 1956 di Villabruna e

ripresentato nel 1958 da La Malfa e Lombardi. In essi si delinea un sistema misto, che oggi definiremmo di supervisione interna ed esterna sul governo delle imprese, e un ruolo del mercato finanziario (il “collocamento” o “l’opinione pubblica” dei risparmiatori nel linguaggio ancora incerto dell’epoca) come “momento della verità” (il luogo

57 56

la capacità) e luogo di controllo di quella concentrazione di potere finanziario che, grazie al sistema delle partecipazioni reciproche e del reticolo di gruppo, può agevolare sistemi – diremmo sempre oggi – di “tasca profonda”, i quali, a loro volta si ribaltano a livello del mercato del prodotto.

In Ascarelli ricorrono, come è evidente, molti motivi già presenti nel primo Vivante degli anni Venti, ma anche dosi di realismo che caratterizzano i progetti successivi. Il filone riformatore non è

antisistema. Lo stesso controllo precostituito attraverso i patti di sindacato come la scissione tra proprietà e controllo sono dati di fatto accettati, da “sfidare” con antidoti e contropoteri, con una supervisione interna ed esterna. La proprietà diffusa e la

maggioranza figlia del caso sono prospettive illusorie e mistificatrici. Non escludono la contendibilità se si sanno trovare strumenti adatti quali l’abbattimento delle partecipazioni reciproche, degli autofinanziamenti e delle spoliazioni arbitrarie, la coalizione delle minoranze, le proxy fights, la trasparenza che induca alla reazione, il controllo rigoroso dei conti.

Il progetto Ascarelli resta senza seguito.

Nel 1959, tuttavia, sembra che la fiaccola della riforma societaria debba essere presa in mano dallo stesso governo, in un clima economico non privo di aperture e caratterizzato da un assai favorevole andamento della borsa (Castronovo, 2006, p. 409 ss.). È infatti il Ministro dell’Industria a istituire una commissione di studio,

presieduta dal giurista Francesco Santoro Passarelli, con il compito di delineare obiettivi e temi di intervento di una riforma del diritto societario. E in questo contesto, appunto, che prende corpo l’evoluzione-involuzione del disegno ascarelliano.

La Commissione Santoro Passarelli si chiude con un nulla di fatto. Durante i lavori si verifica una spaccatura netta tra due orientamenti. Emerge infatti una posizione nuova, fautrice della distinzione delle azioni in due categorie: azioni senza diritto di voto (concepite come strumento di investimento del risparmio) e azioni con diritto di voto (concepite come azioni di comando). A compensare la privazione del voto dovrebbero esservi privilegi patrimoniali e un forte controllo esterno di natura pubblicistica (un pubblico revisore individuato in Banca d’Italia) destinato a sostituire il collegio sindacale, munito di forti poteri,

La regolamentazione delle società quotate

Dall’Unità ai giorni nostri: 150 anni di borsa in Italia

compreso quello di impugnazione delle delibere assembleari (pure quelle di approvazione del bilancio) e di denunziare gravi irregolarità. A questa impostazione sostenuta da Bruno Visentini e Gino de Gennaro (e condivisa non senza difficoltà da Assonime) (Marchetti, 2010, p. 122 ss.) si contrapponeva quella di «conservare anche per le grandi e grandissime imprese la struttura attuale della società per azioni con una serie di modifiche destinate a rendere possibile, in relazione alle mutate condizioni di fatto, un’effettiva partecipazione degli azionisti alla vita sociale e comunque un concreto dibattito sugli interessi degli azionisti e un efficace controllo sull’operato dei gruppi di gestione» (Relazione in Scotti Camuzzi, 1966, p. 30 ss.). La tesi delle due categorie di azioni approderebbe a una concezione della grande società, in particolare della società quotata “di tipo oligarchico”. Il controllo esterno, a sua volta, si risolverebbe in un controllo pubblicistico invasivo delle imprese e così si aprirebbe la via a una deriva dirigistica di controllo di merito annientando l’iniziativa privata. Su questo contrasto si arenano i lavori della Commissione e il tema del controllo esterno, cavallo di Troia di una progressiva dilatazione della presenza pubblica che peserà, come vedremo, sui tentativi di riforma sino al 1974.

2.8 I progetti del centro sinistra

(Commissione De Gregorio)

Con il primo centro-sinistra la riforma delle società per azioni entra a far parte del programma di governo nel 1963, indicandone anche le linee direttrici di fondo. Di esse alcune rispondono a un’esigenza di “bonifica”: capitale minimo, oggetto consistente in un’attività imprenditoriale, regolamentazione restrittiva delle partecipazioni reciproche, maggiore informativa contabile, rafforzamento della tutela delle minoranze e dei diritti patrimoniali degli azionisti e revisione della disciplina assembleare, dei doveri e responsabilità degli

amministratori, dei prestiti obbligazionari. Per quanto attiene alle società quotate, le linee programmatiche di governo adottano la tesi, secondo la quale occorre dare «adeguata disciplina (…) alle azioni di risparmio, azioni che, per un verso, attribuiranno ai titolari diritti patrimoniali

inderogabili e, per altro verso, siano prive di diritti di

coamministrazione ed in

particolare del voto». Anche per le azioni di risparmio tuttavia, doveva restare fermo il principio della nominatività obbligatoria. Quanto alla vigilanza, si prevede la formazione presso Banca d’Italia di «un organo di vigilanza sulle società per azioni con compiti di tutela delle minoranze e di controllo nell’osservanza delle norme della nuova legge». (Scotti Camuzzi, 1966, p. 3 ss. ove tutti i documenti sui progetti di cui si dirà in questo capitolo).

Viene istituita nel 1964 una Commissione presieduta da Alfredo De Gregorio per redigere

la riforma. All’inizio del 1965 la Commissione licenzia un progetto, che sarà poi modificato (1967) in alcuni punti da un comitato interministeriale composto dai ministri che avevano designato i componenti della commissione stessa (Giustizia, Industria, Bilancio, Finanze, Tesoro). Il progetto era accompagnato da una relazione con due osservazioni in parte dissenzienti, rispettivamente, dei commissari Auletta e Giannotta e de Gennaro e Ferri.

Il progetto De Gregorio prende atto della separazione irreversibile tra proprietà e controllo.

L’influenza della posizione di Visentini nella Commissione Santoro Passarelli è evidente. Il mito della autotutela delle minoranze è archiviato. Occorrono norme inderogabili e organi pubblici di controllo. Le norme inderogabili ripercorrono le misure classiche del miglior filone

riformista: divieto di partecipazioni incrociate, divieto e forte

limitazione nella raccolta di deleghe, più largo spazio alla rilevanza del conflitto di interesse, divieto dell’esercizio del voto a esclusivo danno delle minoranze, forte tutela patrimoniale degli azionisti in caso di aumento di capitale e di fusioni, e così di seguito anche attraverso un significativo richiamo a una maggior incisività del ruolo del consiglio di amministrazione. I poteri dell’organo di vigilanza nel progetto De Gregorio riguardavano, si è visto, oltre che il controllo dell’informazione, la gestione. L’organo di vigilanza infatti (art. 46 del progetto originario del 1965) poteva muovere rilievi sull’andamento

59 58

della gestione e sul bilancio da render noti all’assemblea, esercitare – ove non vi avesse provveduto l’assemblea – l’azione sociale di responsabilità verso gli amministratori, denunziare ex art. 2409 cod. civ. le irregolarità riscontrate nell’adempimento dei doveri di amministratori e sindaci, impugnare le delibere assembleari, render note al pubblico le proprie censure. Questa concezione “forte” della supervisione esterna sostitutiva di quella interna doveva tuttavia scatenare ancora una volta il timore che il controllo pubblico esterno sulla grande impresa azionaria diventasse l’occasione per una dilatazione della presenza della mano pubblica. È questo il tema che viene sinceramente o

strumentalmente cavalcato per frenare il rinnovato impulso riformatore, come già cinque anni prima in occasione della

Commissione Santoro Passarelli. Lo stesso governatore della Banca d’Italia (cui pure si pensava allora di affidare il compito di

supervisore pubblico esterno) nella relazione annuale (1966) esprime larga adesione al progetto di riforma De Gregorio, ma manifesta altresì una netta preferenza per la supervisione affidata «sul piano civilistico» a «una disciplina assai rigorosa delle società per azioni, tale da offrire ai risparmiatori e più in generale alla collettività le maggiori garanzie nel loro corretto funzionamento, piuttosto che a forme di supervisione affidate a controlli esterni». Il fuoco di sbarramento nei confronti del rischio di una dilatazione dell’ipoteca pubblica sul governo delle imprese fece presa. La versione modificata del

progetto De Gregorio del Comitato dei Ministri nel 1967 elimina infatti il potere di promuovere azioni di responsabilità, di avviare il procedimento ex art. 2409 cod. civ., di muovere rilievi

sull’andamento della gestione. E anche su questa versione più ridotta il Ministro del Bilancio muoveva riserve, riserve foriere, si è detto, dell’arenamento del progetto.

La prima legislatura del centro- sinistra (1963-1968) si chiudeva così con un nulla di fatto sulla riforma societaria. Il confronto tra l’ampio spazio dedicato al problema nell’accordo «politico programmatico per il governo di centro-sinistra» del dicembre 1963 e la ben minore attenzione riservata dal paragrafo 39 del programma per il quinquennio 1966-70 (l. 685/1967) danno conto della fase “calante” in cui ormai la disciplina della società per azioni si colloca (Minervini, 1967).

Occorre peraltro ricordare come il controllo esterno nel progetto De Gregorio viene ricondotto a Banca d’Italia e ciò rende evidente quanto eccessivo fosse il timore di una deriva dirigistica tanto evocata. Nella relazione che accompagna il progetto De Gregorio si sottolineava come la scelta di attribuire la vigilanza alla Banca d’Italia fosse scelta “politica”, sorretta dall’intento «di inserire la vigilanza sulle società per azioni entro le linee del sistema già in atto», precisandosi altresì che il nuovo tipo di controllo si configurava non già come controllo parallelo «a quello già esistente presso la Banca d’Italia», bensì come arricchimento e sviluppo della

funzione (già) propria di «un organo tecnico, istituzionalmente titolare di ampie competenze in ordine a controlli nelle aziende». Si aveva cura infine di

sottolineare, in sede di commento al modo in cui si articolava la (nuova) funzione di vigilanza e della disciplina dei relativi atti amministrativi, che si perseguiva un organico inserimento «nelle strutture amministrative attualmente esistenti».

L’idea del controllo pubblico a tutela del risparmio sulle società quotate si collocava nell’alveo della disciplina bancaria, come estensione soggettiva di competenze, arricchimento e diversificazione di funzioni di uno stesso organo di vigilanza nel rispetto di unicità di moduli, schemi, atti amministrativi. La via “bancaria” del controllo del mercato mobiliare accolta dal progetto De Gregorio corrispondeva, del resto, a una delle originarie ispirazioni della disciplina bancaria italiana: ispirazione secondo la quale «l’intermediazione creditizia è al centro del sistema finanziario», di guisa che le «altre (rispetto a quelle dell’attività bancaria tipica) forme di appello al pubblico risparmio sono assoggettate a poteri di intervento del medesimo organo di vigilanza» delle banche (Carbonetti, 1986).

La regolamentazione delle società quotate

Dall’Unità ai giorni nostri: 150 anni di borsa in Italia

La legislatura 1968-72 non registra progressi sul problema della riforma delle società per azioni. Continua (e tende all’esaurimento) la fase politica in cui è

all’intervento e alla manovra pubblica che si affida il compito di promuovere lo sviluppo economico. Inizia, peraltro, a prender corpo qualche voce più attenta al finanziamento diretto sul mercato dei capitali delle imprese senza la mediazione bancaria e al di fuori del circuito dell’impresa o dell’indirizzo pubblico. Il problema dello sviluppo del mercato mobiliare viene legato a quello dell’aggiornamento della disciplina societaria, ma rigida è la chiusura a forme di una supervisione esterna di legittimità (e ovviamente di merito).

Il 1968, in effetti, vede la presentazione di un progetto di legge governativo per la

costituzione dei fondi comuni (già contemplati, peraltro, nel progetto De Gregorio), mentre la dottrina giuridica italiana (con particolare impegno della Rivista delle società) apre le porte a istituti e problemi tipici della disciplina dei mercati mobiliari e, anzitutto, alle problematiche dell’Opa.

Un corposo progetto di riforma delle borse valori (Rivista delle società, 1968, p. 942 ss.) faceva peraltro parte del programma del primo centro-sinistra (completando così il disegno complessivo che trovava il suo caposaldo nella riforma delle società per azioni). I lavori per il progetto risalgono al 1965 e se il suo contenuto guarda prevalentemente – senza particolari novità rispetto al sistema vigente – al funzionamento delle borse, la relazione rivela un disegno più ambizioso. «Una riforma del mercato mobiliare che dia ad esso nuovo slancio e più ampio respiro» è resa necessaria, afferma la relazione, per far fronte alle «esigenze economiche di reperimento di nuovi capitali occorrenti per gli investimenti di cui l’industria nazionale ha imprescrittibile bisogno per poter operare in condizioni di

competitività con quella straniera e per essere in grado di

soddisfare alla crescente vastità e varietà della domanda interna» Tali esigenze vengono considerate ormai pressanti «da un lato a seguito del notevole assorbimento di mezzi liquidi esercitato dagli organismi economici gestiti o assistiti direttamente dal settore pubblico, dall’altro in relazione

alla esigenza di poter resistere – grazie al raggiungimento di un’ancor maggiore competitività – alla concorrenza estera».

2.9 La riforma del 1974

e la nascita della Consob