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4. C ALLIGRAMMI : CORTOCISCUITI SEMIOTICI TRA ESPRESSIONE E CONTENUTO

4.7 C ALLIGRAMMI ED EFFICACIA ESTETICA

Ora è chiaro che nei testi letterari l’organizzazione planare non è immediatamente percepibile. Eppure i vincoli di testualizzazione sono gli stessi e permetterebbero, in linea di principio, di allargare il gioco calligrammatico a dimensioni percettive che oltrepassino la pagina – troppo legata alla forma “quadro” e ai meccanismi planari. Come in Lissitskji, il cui slogan costruttivista (qui riportato in esergo) sembra quasi scritto per sostenere le nostre ipotesi. In realtà, non c’è bisogno di arrivare a questo, né di invocare il paroliberismo, che avrebbe, in relazione al nostro oggetto, lo stesso valore prototipico del calligramma, ma nulla più. Occorre a questo punto staccarsi dai prototipi e cercare di definire i tratti distintivi della forma letteraria che ci interessa.

La differenza fondamentale, ormai è chiaro, sta nella mancanza di una manifestazione percepibile dell’organizzazione topologica. Ma la messa in rilievo dello “spazio del testo” non avviene necessariamente con mezzi percettivi, anche se è finalizzata, anzi postulata dalla possibilità stessa di una presa estesica virtuale. Interagendo con le pertinenze semantiche attraverso dispositivi trasversali come quello di doppia spazialità, 159 Un esempio, forse ingenuo ma efficace, di “calligramma” il cui effetto di senso non può prescindere dalla disposizione delle lettere in uno spazio tridimensionale simulato, è dato da quelle modalità di scrittura onomatopeica, tipiche dei fumetti, in cui ad esempio il contenuto /allontanamento/ (di una fonte sonora) è rappresentato da una riduzione progressiva del formato delle lettere: effetto di senso che, per essere compreso, invoca appunto una logica prospettica.

160 “[…] les artifices typographiques poussés très loin avec une grande audace ont l’avantage de faire naître un lyrisme visuel qui était presque inconnu avant notre époque. Ces artifices peuvent aller très loin encore et consommer la synthèse des arts de la musique, de la peinture et de la littérature” (APOLLINAIRE 1946 : 5).

l’organizzazione lineare degli spazi testuali può comporsi in reti topologiche potenzialmente esperibili non solo in senso planare, ma addirittura in senso volumetrico.

Lo ha visto bene Geninasca, nel riprendere e ampliare le intuizioni di Jakobson: il

surplus di senso della prensione semantica è dato proprio dalla possibilità di interpretare le

relazioni semantiche tra spazi (di equivalenza, complementarietà) come relazioni spaziali (limite/non limite, centro/periferia, parte/tutto); relazioni il cui significato – è bene sottolinearlo ove si inseriscano in un discorso estesico – è legato a fenomeni che Eco chiamerebbe di attenzione primaria o comunque ad una pre-semiosi (dominio analiticamente inaccessibile, se non come area confinante con quella propriamente percettiva, di cui in termini più generativi costituisce la fase aurorale).161

Tanto più se si considera che postulare questa pseudo-percezione è l’unico modo per comprendere a fondo la differenza tra prensione semantica e impressiva, che altro non è che una considerazione della prima in termini di percezione anche virtuale, volta cioè alla “rete di virtualità semantiche” sotto un profilo puramente plastico, considerata cioè come sistema di salienze percettive. Le organizzazioni topologiche a cui si applica questa presa pseudo-percettiva, se percepite come isomorfe, generano infatti quella consonanza con la configurazione timica del soggetto che, per Geninasca, fonda la “conciliazione estetica di sensibile e intelligibile”; se dinamizzate, le stesse configurazioni si danno come vicende ritmiche.

In questo modo anche la prensione ritmica si rivela essere una versione “tensiva” e tentativa (semiosi in atto, non a caso) di ciò che – da un punto di vista statico e terminativo – chiamiamo prensione impressiva. Ovvero (ribaltando ancora i termini di un’opposizione che è solo tra punti di vista interdipendenti162) quell’annullamento delle tensioni

discretizzanti tra soggetto e oggetto, quella fusione, quel porsi improvviso al crocevia del chiasmo percettivo – annullandolo e annullando insieme ad esso la logica “giuntiva” – che altro non è che la risoluzione “musicale” di una vicenda tensiva comune con il percetto: distensione finale, euforizzante e “consonante”, che succede alla meraviglia dell’accidentale, nel ricomporlo in un ordine superiore.163 È con queste suggestioni, infine,

che ci aggiungiamo ad affrontare in nostri testi.

161 Si potrebbe quasi parlare di primitivi semiotici, purché la nozione sia adeguatamente “corretta” come in Eco (1997), per cui tali significati altrove platonicamente definiti “innati” sono da considerarsi al massimo postulabili, e solo in senso pre-categoriale: ovvero proprio in relazione ai fenomeni di “attenzione primaria”. 162 Ovvero di razionalità interdipendenti, tattica e strategica, sintagmatica e paradigmatica, che non a caso nel capitolo 3 abbiamo appunto definito in termini di focalizzazione

163 Se si radicalizza l’interpretazione epistemologica dell’opposizione tra le due razionalità nei termini che abbiamo proposto nel cap.2, si può forse intravedere un fondamento dell’esperienza estetica talora legata all’attività scientifica. Questo è possibile – o perlomeno pensabile – nella misura in cui le dominanti delle due razionalità, rispettivamente tattico-processuali e strategico-sistematiche possono convertirsi in vicende ritmiche e impressive non appena si consideri il processo euristico in termini tensivi, come interazione “polemologica”; cosa per cui basta – come spesso avviene - un’interpretazione della ricerca come “sfida” tra soggetto e “realtà”, o anche solo una disposizione modale. Del resto, non è forse accompagnato da un’esperienza estetica il “salto quantico” che per Gödel è necessario al progresso del pensiero? Non è forse questo salto quantico verso un metalinguaggio gerarchicamente superiore la scoperta di “un nuovo ordine di intelligibilità”, step finale di una vicenda cognitiva pienamente timica e tensiva?

PARTE SECONDA

5. L

AVIE MODE D

EMPLOI

:

UNO SPAZIO DAESPERIRE

.

Quando non manca niente, manca qualcosa che non è niente; quindi manca quasi niente. Infatti manca l'essenziale! (Vladimir Jankelevitch)