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1. I POTESI E COORDINATE TEORICHE : UN PRIMO ORIENTAMENTO

1.5 L A QUESTIONE DELL ’ OPERATIVITÀ

In una configurazione di senso complessa e multilaterale una salienza può relazionarsi variamente e simultaneamente ad altre salienze dello stesso livello di eminenza 37 Questo era già evidente nell’Eco di Semiotica e filosofia del linguaggio, laddove si parlava di rappresentazioni dizionariali come ritagli ad hoc, contestualmente e localmente operati, di un’organizzazione rizomatica enciclopedica postulata come ipotesi regolativa ma irrappresentabile in quanto tale.

38 Del resto, anche nell’analisi del testo visivo si procede per opposizioni binarie e non è chi non veda quanto questo sia un espediente operativo di portata puramente locale.

o di altri livelli: uno stesso elemento saliente, come nota giustamente, Barbieri, può fungere al contempo da rilievo sul piano espressivo, narrativo, valoriale, prosodico, etc. Un’adeguazione rigorosa richiederebbe allora uno strumento descrittivo in grado di gestire relazioni non binarie, o almeno la relazione incrociata e complessa tra opposizioni binarie. Ovvero uno strumento che possa restituire dei tipi qualitativi con un grado di astrazione sufficiente ad estenderne in qualche modo l’applicazione ma con un grado di differenziazione adeguato a non appiattire ogni configurazione su opposizioni binarie.

La teoria delle catastrofi, almeno nell’idea del suo primo sviluppatore René Thom, nasceva proprio dall’ambizione di poter descrivere dei tipi qualitativi di crescente complessità attraverso dei tipi topologici. Oltre a questa ispirazione epistemologica fondamentale (almeno per le scienze qualitative), la teoria delle catastrofi presentava però una spiccata ispirazione fenomenologica: i tipi qualitativi, in ultima analisi, non sono che lo scheletro figurale delle forme fenomeniche. L’ipotesi è che l’universo variabile delle forme possa essere “censito” attraverso sette tipi qualitativi fondamentali, “emergenti” dal sostrato materiale (ma indipendentemente dalla natura di questo) in forma topologica, ovvero come distribuzione tipica di salienze. Questo rende la modellizzazione topologica (più precisamente una schematizzazione, nel senso quasi kantiano del termine) adeguata ad una descrizione delle configurazioni complesse.

Soprattutto, non si tratta di modellizzazioni statiche: le “catastrofi” elementari hanno il vantaggio di poter restituire le linee di sviluppo potenziale di una forma secondo una logica del tutto immanente. Questo permette di restituire non solo l’aspetto paradigmatico, ma anche l’aspetto sintagmatico e dinamico della forma; insomma, l’aspetto “ritmico” del fenomeno di senso. Il tutto secondo un’idea di sviluppo instabile che se non può essere “previsto” in termini quantificabili (ovvero determinato spazio-temporalmente), può essere tuttavia “predetto”, ovvero considerato secondo una prevedibilità “debole”, legata a percorsi di sviluppo preferenziali e immanenti alla forma stessa; ovvero, deleuzianamente, legata al suo “dispiegamento”.39

L’idea è in altri termini che vi sia una regolarità della trasformazione, delle “vie obbligate”, ma non necessariamente univoche, che uno stato stabile può imboccare in senso 39 Particolarmente significativa ci pare, in questo senso, la convinzione di Thom di poter assegnare ai modelli qualitativi non certo una vera e propria efficacia previsonale (che egli stesso dichiarava inconsistente in assenza di quantificazione spazio-temporale) ma almeno un valore predittiva, nei termini di proprietà propagative o generative dei morfismi. Così Thom.: “Même si les modèles de la théorie élémentaire (TCE) ne conduisent pas à aucune prévision quantitative, ils n’en ont pas moins un réel intérêt. En effet, ils permettent parfois une prédiction qualitative: si l’on peut réaliser tel ou tel chemin dans le déploiement U, on obtiendra telle ou telle transformation morphologique. De plus, le simple fait d’avoir une théorie permettant une classification des situations analogiques est, sur le pan philosophique, un acquis non négligeable. Car le notion d’analogie, même si elle est rejetée par l’épistémologie neo-positiviste, n’en joue pas moins un rôle heuristique fondamental en science” (THOM 1982 : 266, corsivo nostro).

In altri termini, l’ermeneutica catastrofica implica che il ruolo predittivo in senso “forte” giocato dal prolungamento analitico nei modelli quantitativi, possa essere correttamente assunto da una procedura di estensione strutturale di tipo analogico o morfogenetico. Una volta individuato un morfismo, ottenuto per epigenesi a partire da un dato fenomeno e definito da una particolare distribuzione di punti di singolarità, è possibile dotare il modello di proprietà predittive o attraverso una propagazione spaziale (l’estensione delle caratteristiche topologiche del morfismo su un substrato altro: una definizione topologica dell’analogia) o attraverso la definizione di un creodo (un “percorso obbligato” di evoluzione, in cui il morfismo di partenza rappresenta il termine a quo dal quale si sviluppa, per estensione generativa, uno o più stati considerati come termini ad quem: la morfogenesi, appunto). Su questo tema si veda in particolare THOM 1982.

evolutivo. In questo modo, fenomeni come l’ambiguità, tanto percettiva quanto semantica, possono essere descritti rigorosamente come processi di differenziazione per biforcazione e conflitto. Siamo allora d’accordo con Rastier, per il quale la forza ermeneutica di una rappresentazione morfodinamica è da ricercarsi nella dimensione dinamica del fenomeno semantico:

Les représentations morphodynamiques se sont heurtées à l’objection qu’elles n’apportent rien d’un point de vue descriptif par rapport à une représentation discrète. Mises à part les études phonologiques, elles ont été employés pour décrire l’évolution d’unités déjà discrétisées: actants de la phrase, acceptions lexicales. Par ailleurs, les applications

adoptaient toutes, à ma connaissance, une perspective synchronique, alors que les représentations morphodynamiques s’accordent mieux avec les phénomènes diachroniques. Nous n’affirmons pas pour autant que les évolutions diachroniques soient

continues au sens mathématique du terme: elles sont sans doute graduelles et comportent des seuils, franchis par des emplois singuliers qui font événement pour des raisons externes au système. Cependant, les seuils successifs peuvent être reliés entre eux par des segments continus hypothétiques.

Quoi qu’il en soit, la modélisation continuiste présente un avantage d’importance: le graduel et le discret peuvent être décrits comme des cas particuliers du continu, et non l’inverse. Aussi, sans faire d’hypothèse forte sur le caractère continu de “l’espace sémantique”, ni d’ailleurs sur la caractère spatial des schèmes cognitifs, nous admettrons que la discrétisation sémantique consiste à isoler des points ou des sections remarquables sur des dynamiques. (RASTIER 2001b : 122)

Soprattutto, il modello morfogenetico permette di restituire fenomeni che un modello formale non riesce a rendere in modo altrettanto efficace: come ad esempio i fenomeni di “salto quantico” tra piani, o ancora la ricorsività delle strutture. Pensiamo in particolare agli effetti di d’isteresi o di “doppio vincolo”40, tipici delle strutture ambigue, che nel

modello morfogenetico si possono identificare con il processo di fusione metabolica, sorta di esplicazione differenziante della corrispondente fusione statica: come nota Petitot, mentre la seconda può anche essere descritta in senso formale, come operazione logica, la seconda “non ha senso se non morfodinamico”.41

Così com’è, almeno negli intenti, il modello fornirebbe la strumentazione metodologica ideale per una descrizione topologica e qualitativa davvero adeguata, sia dal punto di vista paradigmatico che sintagmatico. Il problema è che il modello, di natura matematica, è difficilmente gestibile in modo rigoroso in tutte le sue implicazioni. Le catastrofi superiori a quella della cuspide (due dimensioni di controllo e tre di rappresentazione grafica) sono non solo difficilmente maneggiabili da un punto di vista 40 Come si vedrà, è il fenomeno della fusione dinamica a restituire in forma schematica il dispositivo dialettico del doppio vincolo: abbia individuato in tale dispositivo una sorta di traduzione schematica del doppio vincolo: […] outre à la fusion statique, le schème du cusp comporte un second type de synthèse, appelé par Thom fusion métabolique et formellement analogue au fameux ‘double bind’ de Bateson. (PETITOT

1983 : 19). Il doppio vincolo, com’è noto, rappresenta una delle interpretazioni più note dell’eziologia schizofrenica Cfr. BATESON 1956 e WATZLAWICK 1967 e 1974). È esattamente in questo senso che abbiamo

altrove (PANOSETTI 2006) utilizzato il modello per rendere conto della proiezione a livello espressivo, tramite

la strutturazione topologica, del tema della schizofrenia nella Trilogie di Agotha Kristof.

operativo, ma anche difficilmente visualizzabili da chi non possieda una competenza matematica più che approfondita.

Questo problema può essere però ovviato attraverso l’esplicitazione di un principio, enunciato direttamente da Thom, e cioè che ogni catastrofe superiore deriva dalla collisione (ma non da una semplice combinatoria) delle catastrofi più semplici. Detto altrimenti, le catastrofi superiori schematizzano le possibili interazioni tra diversi piani di sviluppo morfogenetico di livello inferiore. La cuspide, ad esempio, è il risultato della collisione di due pieghe; la coda di rondine, invece, di una cuspide e una piega. Questo fa sì che sia metodologicamente lecito procedere per focalizzazioni locali, ovvero per descrizione di piani specifici, e ricostruire una visione globale per catalisi.

Vi sono poi ostacoli all’applicazione di ordine più generale e meno pragmatico. Prima di tutto, a rigore, una modellizzazione catastrofica richiederebbe dei parametri di controllo a variazione continua, ma comunque misurabili (lo stesso concetto di catastrofe indica un cambiamento di stato discontinuo su una dimensione generato da una variazione continua su uno o più dimensioni di controllo). Insomma, l’applicazione dei modelli morfogenetici – soprattutto nella rielaborazione proposta da Christopher Zeeman (1977) – necessita di una qualche forma di quantificazione (che in questo senso va distinta dalla modulazione quantitativa).

Si tratta, evidentemente, del problema della predittività, ovvero della validità di un modello qualitativo del tutto indipendente dalla misurazione quantitativa, problema la cui discussione ha occupato molti anni e molte risorse negli anni in cui la teoria delle catastrofi sembrava costituire una rivoluzione epistemologica (merito che a nostro parere permane nonostante l’abbandono, dovuto soprattutto alle difficoltà pragmatiche di cui sopra). In altri termini, si è sostenuto che è possibile ad esempio applicare un modello catastrofico ai cambiamenti di fase in fisica (la trasformazione dell’acqua in ghiaccio) perché è possibile misurare quantitativamente sulla dimensione di controllo la soglia oltre la quale si innesca il cambiamento (0 gradi) e, dunque, formulare previsioni esatte. Al contrario, applicare il modello a cuspide ai comportamenti etologici – come è stato fatto – ridurrebbe il modello a pura metafora euristica, in grado di descrivere il fenomeno ma non di “spiegarlo”.

Premesso che lo stesso Thom ammetteva la non predittività del modello, senza però escludere un valore di previsione puramente qualitativo (non sappiamo quando o dove, ma sappiamo come qualcosa succederà), diciamo subito che è ovvio che un’applicazione semantica non può in nessun modo restituire una quantificazione di questo tipo. Non è possibile “misurare” il senso, questo è quantomai ovvio. Si può però, nei termini di cui sopra, pensare ad un’oggettalità o anche solo ad una oggettivabilità del senso, se non altro in forma negativa e presupposta (le linee di resistenza). Ma per quanto possiamo postulare parametri di variazione continua (la densità isotopica, ad esempio) o discontinua (l’emergenza di un effetto di senso specifico), non è possibile avere di tali variazioni un riscontro estensionale e, di conseguenza, applicarvi una misurazione.

In queste condizioni, l’utilizzo del modello catastrofico dovrebbe essere ammissibile e conveniente solo quando aumenta il valore euristico del fenomeno, mettendo in luce aspetti e dinamiche “non triviali”: detto altrimenti, quando permette di dire qualcosa che

con altri strumenti non si può dire42. O anche, aggiungeremmo, qualcosa che magari si può

dire, ma in modo meno adeguato.

Per quanto riguarda il primo caso, vedremo come fenomeni quali il doppio vincolo o l’isteresi non siano affatto banali e non ci sembra possano essere resi altrimenti (ad esempio attraverso una modellizzazione formale generativa o una descrizione delle dinamiche interpretative), almeno non con lo stesso rigore. Come esempio invece di fenomeni “più adeguatamente” restituiti dalla schematizzazione, ricordiamo il caso dell’ambiguità – che è poi il modello alla base del fenomeno anamorfico. Ci pare che da una lettura morfogenetica tale fenomeno guadagni in rigore ed intelligibilità generale, soprattutto grazie alla messa in rilievo di una dimensione di svolgimento dinamico del fenomeno, colto bene dalle scienze cognitive (pensiamo ad esempio al fenomeno del riconoscimento percettivo incerto) ma quasi assente nelle modellizzazioni semantiche (si pensi all’analisi retorica43 o semantico-componenziale).

Nel prevenire le obiezioni che facilmente potrebbero sollevarsi di fronte al nostro tentativo di applicazione del modello morfogenetico rivendichiamo dunque le sue potenzialità euristiche, sia in termini di adeguatezza della descrizione che in termini di “non trivialità” dei fenomeni modellizzati. La nostra applicazione non ha del resto – è bene ricordarlo – alcuna ambizione esplicativa, ma solo ed esclusivamente descrittiva: per l’elaborazione di ipotesi esplicative ci rivolgeremo comunque agli strumenti più propriamente semiotici, utilizzando la prospettiva morfogenetica come una pura lente analitica supplementare ma non, almeno così crediamo, accessoria.

Non intendiamo insomma (né potremmo per i motivi appena esposti) uscire dall’ambito del qualititativo (se non nel senso del tutto particolare che quantitativo a volte prende in semiotica, sostanzialmente coincidente con la mereologia) né avanzare ipotesi sulla questione dello statuto ontologico delle entità strutturali che andremo ad analizzare (non è in questo senso, come abbiamo tentato di spiegare, che si intende qui la possibilità di una oggettalità del qualitativo). E tuttavia ci sembra di poter rivendicare un potere di previsione, per quanto non di predittività, del modello. Una previsione puramente qualitativa, che non è molto dissimile, in sostanza, al principio di previsione abduttiva (nello specifico, un’abduzione alla regola): si tratta, in ogni caso, di scommettere su un ordine di coerenza strutturale che permetta di ricondurre il fenomeno locale e “inatteso” – le salienze – ad un campo di dispiegamento superiore.

Se un testo ad esempio (cfr. La vie mode d’emploi) presenta un’identità figurale ambigua, schematizzabile attraverso la catastrofe a cuspide, di tale ambiguità è possibile prevedere uno o più possibili sviluppi potenziali che sono, di principio, gli stessi sviluppi possibili del parallelo processo pragmatico di attualizzazione di senso che l’enunciatario opera a partire da tale configurazione di salienze. Se in altri termini le salienze del discorso 42 Questo criterio di ammissibilità rispetto all’applicazione puramente descrittiva ed euristica del modello morfogenetico ci è stato del resto confermato dallo stesso Petitot, nel corso di una comunicazione personale recentemente e gentilmente concessaci. Ricordiamo inoltre che nel periodo in cui la teoria delle catastrofi era in pieno centro del dibattito epistemologico si è parlato esplicitamente, per il progetto di Thom, di “ermeneutica” (della quale testimonia esemplarmente, sin dal titolo, il suo Predire n’est pas expliquer). 43 Fanno eccezione i recenti tentativi di elaborazione di una retorica tensiva per cui si veda ad esempio il numero monografico di Langages “Sémiotique du discours et tensions rhétoriques” – BORDRON & FONTANILLE

si dispongono secondo un rapporto di differenziazione biforcativa rispetto ad una matrice, instaurando tra loro un rapporto di attualizzazione alternativa e reciproca, i fenomeni dinamici che possono darsi sono senz’altro differenti, ma comunque descrivibili e prevedibili, anche se non determinabili. Ovvero, si può dare oscillazione tra i due poli semantici (isteresi), progressione dalla matrice (differenziazione) o regressione verso la matrice (fusione). È possibile allora perlomeno supporre che un’attualizzazione adeguata di tale struttura di senso da parte dell’enunciatario implicito debba seguire almeno una di queste vie di sviluppo creodico obbligato.

Si possono così motivare su base tensiva e topologica, sia nella dimensione ritmica che impressiva, effetti di senso non solo semantici (ambiguità, oscillazione), ma anche patemici (inquietudine, equilibrio, schizia) e cognitivi (doppio vincolo, paradosso, salto di paradigma). Questo tuttavia senza ricorrere a nessun tipo di psicologismo, ma su strette basi testuali e attraverso l’ammissione del principio per cui l’attualizzazione di una struttura di senso richiede l’assunzione di una posizione enunciativa all’interno dello “spazio del testo” (ovvero il campo discorsivo inteso come campo d’interazione simulacrale, ma diversamente configurato e “piegato” dalla presenza e dalla disposizione singolare delle salienze, dal suo sistema liminare) e dunque un’implicazione per quanto simulacrale all’interno della configurazione morfogenetica singolare di quel testo (la sua identità figurale). Posizionalmente implicata nello spazio del testo, l’istanza dell’enunciazione ne sperimenta le caratteristiche posizionali e topologiche: sia in senso impressivo (la configurazione statica) sia in senso ritmico, prefigurandone e percorrendone le possibili trasformazioni.

2. L

A MODELLIZZAZIONE MORFOGENETICA

:

TRA TOPOLOGIA

,

MEREOLOGIA E SCHEMI