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4. C ALLIGRAMMI : CORTOCISCUITI SEMIOTICI TRA ESPRESSIONE E CONTENUTO

5.3 E LOGIO DELL ’ INTELLIGENZA TATTICA

Prima di spiegare in che senso un’analoga epifania del vuoto attende al varco il lettore, torniamo al rapporto Bartlebooth-Winckler, che per la sua centralità fornisce alcune chiavi interpretative estendibili anche al resto del variopinto universo de La vie.

La scelta dell’autore di lasciare nell’ombra le motivazioni dell’anti-soggetto Winckler sembra rispondere ad un effetto di senso preciso: lasciare nel dubbio la fonte – trascendente o immanente, divina o terrena – dell’accidentalità che, sotto forma di emergenza inattesa del vuoto, dissolve il progetto dell’Inglese. Si noti che le connotazioni evidente) e la presenza di temi e configurazioni discorsive afferenti all’isotopia fondamentale del puzzle, che mette in relazione il capitolo in questione – LXX – col prologo e il capitolo XLIV (cfr. nota precedente) 187 Cfr. par. 5.8 e seguenti. Questo è valido, ne La vie, per la maggior parte delle linee di sviluppo discorsivo e attoriale, inesorabilmente spezzate e disseminate in capitoli anche molto distanti tra loro. Quello di Winckler non è che il caso più esemplare.

fatalistiche che tale evento assume dal punto di vista del soggetto-Bartlebooth non vengono affatto intaccate dal suo essere riconducibile – ab externo e secondo una diversa messa in

prospettiva188 – a un programma narrativo avverso. L’ambiguità riguardo all’origine

trascendente o terrena dell’accidentalità non è casuale: che si accolga l’una o l’altra ipotesi, l’effetto strategicamente perseguito dal testo è quello di lasciar intravedere comunque dietro tale accidentalità un artefice nascosto, il cui fine è quello di rimescolare le carte, in senso più che metaforico.

Ad emergere dal vuoto che la figurativizza è in fondo un’istanza impersonale, un’intelligenza sintagmatica nascosta, discorsivamente riconducibile tanto a Winckler quanto al “destino”, ma comunque di tipo tattico. In altri termini, si tratta qui di un principio di razionalità opposto a quello, profondamente strategico e paradigmatico, incarnato da Bartlebooth, per cui l’accidentale non è semplicemente “ciò che accade”, ma piuttosto ciò che non è prevedibile da nessuna regola. È proprio per far esplodere le strutture di previsione – arma primaria della mens strategica – che l’intelligenza tattica introduce una smagliatura nel sistema. L’apertura all’interno del territorio di un vuoto, di un punto cieco nel campo di visione strategica, è la forma più pura dell’espediente, con cui il soggetto tattico, per definizione privo di potere, riesce ad assumere le costrizioni da un’altra istanza definite fino a volgerle ai propri fini – divini o umani, questo in fondo non importa.189

È dunque un elogio dell’intelligenza miope e tattica, del “muoversi negli interstizi” e nell’incontrollabile, il nocciolo del discorso valoriale de La Vie. Del tutto in linea del resto coi principi dell’Oulipo, che lungi dal imprigionare l’opera d’arte in un reticolo autodeterminante, vedeva nelle contraintes (costrizioni, appunto) un mezzo per la costruzione di uno “spazio non proprio” nel quale muoversi tentativamente, e argutamente 188 È essenziale qui distinguere con rigore il punto di vista, dispositivo essenzialmente discorsivo e dipendente da un attante osservatore che può o meno trovarsi in sincretismo col soggetto, e la prospettiva, parametro puramente narrativo legato alla relazione speculare che la struttura polemica instaura tra i programmi del soggetto e del anti-soggetto. Mentre la prospettiva è virtualmente ribaltabile in sede d’analisi (in questo senso, ab externo) senza provocare distorsioni descrittive, il punto di vista dipende strettamente dall’effettiva realizzazione dei processi a livello discorsivo e non può essere modificato se non come prova di commutazione, in quanto ogni assunzione diversa di punto di vista modifica inevitabilmente l’effetto di senso finale.

189 Il sommo artefice è un abile tattico, sembra dirci Perec, più che un infallibile stratega. È evidente che questa è solo una delle possibili fughe connotative innescate dal testo. Per quanto infatti ne La vie sia presente una visione “cosmologica” piuttosto evidente, non c’è traccia del tema religioso: a reggere i fili è piuttosto qualcosa di simile al destino. Ma l’evidente strutturazione delle vicende non permette di leggere questo destino come fato e casualità. Che sia un principio trascendente e divino o un qualche forma di energia immanente, si tratta pur sempre di una forma di intelligenza.

D’altra parte, l’interpretazione religiosa se non è suggerita, non è neppure esclusa dall’economia del testo e può anzi essere facilmente attivata inserendo La vie nel corpus idiolettale dell’autore, che rivela nel complesso la presenza costante e trasversale di temi e figure dell’ebraismo, perlopiù affrontati con lo spirito critico di un “ebreo sradicato” quale era Perec. E in effetti, se c’è una visione del divino in Perec, questa include una qualche forma di autonomia della dimensione umana, uno spazio di libertà irrinunciabile. La negazione di ogni forma di totalizzazione è infatti uno dei capisaldi valoriali non solo de La vie, ma di tutta l’opera di Perec. Si tratta di una visione significativamente divergente da quella ebraica, che vede in Dio istanza massimamente panottica e strategica. A ben guardare, è il libero arbitrio ad implicare una natura tattica dell’intelligenza divina: garantendo uno “spazio proprio” all’uomo l’istanza divina non può che intervenire negli spazi franchi, nel non normativo, nell’accidentale. Come dire che Dio tutto vede e tutto sa ma non tutto può, e per sua scelta: per lasciarsi – e lasciarci – spazi di “gioco”; non con lo spirito ludico di una divinità burlesca, ma con tutto il rischio degli effetti tragici che il gioco può avere e di cui ogni vero giocatore ha piena coscienza.

(con metis) districarsi. Si comprende così il senso profondo del “motto” dell’Opificio:

Oulipiens: rats qui construisent eux-mêmes le labyrinthe dont ils se proposent de sortir. Ed

è in questo senso – come coscienza di un movimento inevitabilmente miope – che va intesa l’inquietudine di cui parleremo più avanti.190

Ma ritorniamo all’epifania del vuoto all’interno del puzzle incompleto di Bartlebooth. Posta nel finale (posizione di per sé strutturalmente rilevante) di un romanzo “totale” (“romanzi” nel sottotitolo significativamente voluto da Perec) e rafforzata dalla marca disforica della morte, l’immagine inesorabile di vacuità e di assenza che abbiamo esaminato assume i contorni di un’inappellabile rivendicazione di inanità: l’inanità di qualsiasi progetto totalizzante.

Totalizzante (“une certaine idée de la perfection”) è senz’altro il progetto di Bartlebooth nel suo tentativo di sostituire le impreviste oscillazioni tensive dell’esistenza con un dispositivo auto-regolante (“parti de rien, Bartlebooth reviendrait au rien”), di rimpiazzare l’intenzionalità fenomenologica con una progettualità algoritmica, un movimento autarchico e macchinico. Ma totalizzante appare anche e soprattutto – persino al lettore più ingenuo – il progetto dell’autore-modello Perec, che concepì La vie, sorta di

Comédie Humaine del novecento, come un tentativo sfacciatamente (e ironicamente)

ambizioso di rendere narrativamente la “ricchezza incommensurabile della vita”. Si confronti il progetto di Bartlebooth:

Imaginons un homme dont la fortune n'aurait d'égale que l'indifférence à ce que la fortune permet généralement, et dont le désir serait, beaucoup plus orgueilleusement, de saisir, de

décrire, d'épuiser, non la totalité du monde - projet que le seul énoncé suffit à ruiner - mais un fragment constitué de celui-ci : face à l'inextricable incohérence du monde, il

s'agirait alors d’accomplir jusqu'au bout un programme, restreint sans doute, mais entier,

intact, irréductible. (ivi : 152)

col progetto scritturale di Perec, per cui l’obiettivo dell’attività letteraria è quello di accedere a

[…] la compréhension du monde, l'appréhension correcte et conquérante de sa complexité, l'exploration de son incommensurable richesse. (ivi : 85)

L’“inestricabile incoerenza del mondo” che Bartlebooth sfida così ciecamente appare come una versione meno euforica, incastonata a livello enunciativo, della “ricchezza incommensurabile” che La vie vorrebbe tentare di restituire a livello enunciazionale. Riconoscendo nel progetto scritturale oulipiano e dunque estremamente “vincolato” di Perec l’equivalente del programma auto-regolato di Bartlebooth, sembrerebbe dunque lecito identificare in quest’ultimo la principale manifestazione testuale dell’autore modello. Tuttavia, la valorizzazione del frammento, caricata e concentrata nella figura della tessera di puzzle, induce ad ipotizzare un gioco simulacrale ben più complesso.

Senza dover arrivare ad aprire il discorso amplissimo del gusto leibinziano per l’ars

combinatoria e della sua fortuna nella cultura “neo-barocca”, è indubbiamente vero che la

poetica oulipiana prevede una sorta di “epistemologia del frammento”. Le contraintes del resto sono primariamente vincoli di configurazione, ovvero di discretizzazione: in altri termini la contrainte guida il taglio, scorpora il non necessario e prescrive regole per “costruire frammenti”. Ma anche, va da sé, regole per gestirli. In altri termini, ciò che spesso non si considera è che le contraintes permettono anche di dominare la proliferazione monadica, di controllarla. Niente di meno deterritorializzante: al contrario, la contrainte è un mezzo di territorializzazione, di controllo sugli spazi (anche immaginativi). Solo si tratta di un modello di territorializzazione non uniforme e soprattutto non uniformante. Soprattutto, si tratta di un modello di definizione territoriale (in senso etimologico: definire come tracciare fines) volto esclusivamente a garantire il campo di gioco per la comparsa di un’istanza tattica antagonista. Costruire da sé il labirinto da cui dover poi uscire: così il soggetto oulipiano riunisce Dedalo e Teseo in un paradossale sincretismo.

Nel progetto scritturale Perec troviamo all’opera lo stesso paradosso di sapore borgesiano: l’autore modello incarnazione della strategia testuale tradisce di certo la pulsione uniformante di Bartlebooth, ma con altrettanta evidenza partecipa della devianza accidentale di Winckler. Tanto la “diabolica utopia” del miliardario quanto la “vitalità faustiana” dell’artigiano. (RINALDI 2004 : 124) convivono dunque, anche se in modo alquanto inquieto, nell’artefice nascosto de La vie191.

Scrive Michel Serres che non è della totalità che bisogna aver paura, il frammento è ben più solido.192 Ora, ad onta di quanto si ritiene, c’è in Perec una nostalgia della totalità;

anche se si tratta di nostalgia per un concetto non ingenuo, non “moderno” di totalità. Una totalità la cui costitutiva irrealizzabilità è stata coscientemente accettata e che permane, dunque come semplice principio regolatore; un modello di regolarità che si manifesta sempre come deformato rispetto al polo locale in cui ci si pone e dalla quale lo si intravede come obiettivo, come vise. Un concetto che si direbbe forse più vicino a quello contemporaneo di globalità, intendendo con questa un’uniformità la cui origine più che trascendente è immanente, emergente a partire dall’insieme delle sue parti e diffusa attraverso una dinamica autoregolativa.193 Anche per la globalità vale tuttavia il paradosso

generato dalla sua “messa in situazione”: l’unica possibilità di manifestazione del globale risiede sempre e comunque nelle sue varianti glocal, in una delle sue declinazioni locali.

La contrainte del resto è esattamente una prescrizione di “ambizione globale”, ma di applicazione locale: prescrive regole che definiscono i frammenti parziali solo per 191 L’inquietudine con cui in Perec tale conciliazione viene affrontata è del tutto assente, come vedremo, nella visione oulipiana standard, che assume il paradosso dei “topi che costruiscono il proprio labirinto” in modo neutrale e aproblematico. Nei giochi oulipiani la sovrapposizione di intelligenza tattica e strategica non è niente più che un dispositivo funzionale, un semplice ingranaggio di una machinerie letteraria adamantina, autarchica e in ultima analisi alquanto asettica.

192 Cfr. SERRES 1992, per un’interpretazione recente, si veda FABBRI 1998 : XVII.

193 A prescindere dall’apparente contrasto dovuto all’uso di “totalità” secondo diverse accezioni, l’idea di totalità non ingenua a cui ci riferiamo è per certi aspetti vicina all’ “universale senza totalità” di cui parla Pierre Levy nel suo fortunato Cyberculture (1997).

permettere di oltrepassarli secondo un punto di vista totale, o meglio, in vista della totalità. Non realizza la totalità, ne promette l’accesso, subordinandolo alla ricerca di espedienti di natura inevitabilmente contingente, inventati “all’occasione”. In altri termini, come principio creativo – “pompe à imagination” – la contrainte ha la precisa funzione di invitare al suo stesso tradimento, alla sua trasgressione. E la trasgressione si dà per mezzo

dei frammenti locali, ma in una prospettiva globale senza la quale trasgressione e

tradimento non vi sarebbero194. Né senza un sostrato comune vi sarebbero gli interstizi in

cui l’intelligenza tattica si muove, ma solo frammenti irrelati, atomi indivisibili: solidità inscalfibili, come suggeriva Serres. Tutt’al più questi frammenti possono combinarsi in configurazioni inedite: ma anche la combinatoria è muta se non serve a suggerire una diversa intelligenza sistematica, un’inedita identità del “tutto” entro la quale questa gioca e “si gioca”. Siamo dunque d’accordo con Mele, uno dei più lucidi commentatori di Perec, quando scrive:

La relazione tra il frammento e la totalità è il cuore del savoir-fiction di Perec. Il sistema

inachevé, il puzzle della Vita ne è solo la forma visibile (MELE 1991 : 374)

Il frammento che ha in mente Perec non è dunque quello solido e monadico (“entier,

intact, irreductible”) su cui Bartlebooth indirizza la propria utopia di controllo, unico

oggetto accessibile in un mondo altrimenti “irriducibile”. Il frammento di Perec, seppure esiste, è quello mobile e “sempre mancante al suo posto” di Winckler.

La rilevanza indubbia della vicenda di Bartlebooth, unica linea narrativa davvero dominante in un romanzo per il resto massimamente polifonico, è dunque solo la principale tra le tante trappole per il lettore: è altrove che emerge che la voce dell’autore – e soprattutto il suo humus valoriale. Manca, in Bartlebooth, quella certa inquietudine di fondo che sempre percorre lo stile discorsivo di Perec. E manca anche quella metis che è propria dei “senza luogo”, coloro che, come Winckler, non controllano territorio alcuno, ma si muovono nel campo di potere altrui, per dominarlo “en le bouleversant”, ovvero volgendone i mezzi, da altre istanze predisposti, a proprio vantaggio.

Manca insomma in Bartlebooth e nella sua razionalità “comprensiva” e territorializzante, la correzione apportata da una razionalità miope e tentativa, che stemperi l’ideale di totalità introducendovi il frammento come elemento accidentale eppure necessario.195 La metis196 è del resto intelligenza “marginale” in senso niente affatto

194 A proposito della relazione regola-trasgressione si noti che Perec include nel progetto de La vie anche due contraintes programmaticamente “devianti”, significativamente denominate “faux” e “manque”. Di questo, e in generale della dinamica creativa e tattica innescata dalle contraintes si parlerà diffusamente in 8.1.

195 Le due razionalità rimandano a due forme di prensione che, come si è visto (cap. 3), funzionano in maniera integrata, egualmente dotate di valore: ma la “parola letteraria” ci vuol parlare del valore dei valori, che qui sembra propendere con più forza per il versante tattico.

196 Intendiamo qui per metis quella forma di intelligenza che agisce nella contingenza, nell’“occasione” (kairos). Cfr. DETIENNE-VERNANT 1974 ma anche DE CERTEAU 1980. Il concetto è inoltre molto vicino a quello

di bricolage di Levi-Strauss, soprattutto nella rilettura fatta da Floch, ovvero come pratica di costruzione di senso, approssimativamente descrivibile come la proverbiale “arte di arrangiarsi”, la disposizione pragmatica per cui “si sa che in molte circostanze si può ‘arrangiarsi’: si può, cioè, sbrogliarsela” (FLOCH 1995 : 229). In

questo senso il bricoleur, come il polumetis è un ruolo tematico da inserirsi in una più ampia forma – o stile – di vita : “il bricolage è una forma di pensiero, ma anche un modo di fare e produrre senso” (ibid. : 228), l’arte di chi riesce a rinviare i progetti (si pensi alla vendetta procrastinata di Winckler) e ad adattarli alle

valoriale, ma esclusivamente posizionale; come quella di Winckler appunto, la cui vendetta così abilmente e freddamente “servita” al lettore, nell’universo narrativo de La Vie rimane invisibile a tutti (tranne che a Valène, del cui ruolo di osservatore privilegiato si è detto). È una vendetta sotterranea, interstiziale: una vittoria predisposta e ottenuta “in territorio altrui”.197

Non è dunque nella ubris monolitica di Bartlebooth che vanno ricercate le tracce dello stile discorsivo di Perec (discorsivo nel senso di Geninasca, e cioè profondamente intriso di una data visione epistemica). In realtà se proprio un simulacro discorsivo va ricercato, questo è piuttosto incarnato dall’arguto e ambiguo Winckler198. Nella

caratterizzazione discorsiva del melanconico artigiano, infatti, l’attitudine alle pratiche di “aggiustamento” con l’oggetto e le due nervature, la capacità tipicamente tattica di plasmare senza programmare, di piegare la materia secondo il proprio estro ma rispettandone le linee profonde, rimanda ad una manipolazione “magica” più che tecnica o addirittura, come in Bartlebooth, “tecnocratica”199:

Winckler. L’ebanista che costruisce i puzzles per incarico di Bartlebooth, è veramente il personaggio magico del libro: l’artigiano come mago. (CALVINO 1984b : 1398)

Si vedano allora le configurazioni discorsive in cui questo attore viene inserito (inganno e illusione da una parte, calma, imperturbabilità e un certo sentimentalismo dall’altra) e l’allestimento figurativo che lo attornia (ambienti essenziali e asciutti da un lato e dall’altro librerie intarsiate di scene immaginifiche, “anelli del diavolo”, giocattoli mirabilmente costruiti e, a dirla tutta, un tantino inquietanti200). Soprattutto, si vedano i suoi

fluttuazioni dell’ambiente.

197 Alla luce di questa opposizione strategia/tattica, il puzzle appare come “campo polemologico” su cu si scontrano i simulacri degli attori. Del resto, il discorso sull’arte del puzzle (nel preambolo e nel capitolo XLIV) è sviluppa con una certa evidenza le analogie tra questa pratica ludica e quella degli scacchi (peraltro raffigurati a p. 395), attivando nel gioco del puzzle le pregnanze semantiche culturalmente riconducibili alla configurazione della sfida in absentia, condotta per simulacri e su un campo strutturato (cfr. “La sfida” in GREIMAS 1983). Del resto, il topos discorsivo degli scacchi come simbolo dello schema narrativo della sfida

virtuale, condotta per simulacri ha avuto una grande fortuna nella letteratura: si pensi a Le città invisibili (analizzate più avanti), La difesa di Luzin di Nabokov, La novella degli scacchi di Zweig, ma anche a esempi più recenti come La variante di Luneburg di Maurensig.

198 “Come Winckler, Perec si iscrive in una sospensione dell’idea stessa di perfezione, il rifiuto dello spazio, dell’oggetto o delle istruzioni per l’uso ideali. Egli sfugge alla lusinga della descrizione o dell’illustrazione onnicomprensiva e totale, alla lusinga di un puzzle unico e grandioso, come sfugge alla lusinga del “candore immacolato del nulla”. Entusiasta delle scale, luoghi di incontri casuali, che rappresentano l’imprevedibile, il contingente, Perec – come un gatto? – trova il suo percorso per sfuggire alla tirannia degli oggetti. (…) consapevole che solo nei “punti di sospensione” la sua scrittura testimonierà per coloro i quali resteranno per sempre assenti dalla sua scrittura” (GUNN 1993 : 150).

199 Facciamo qui riferimento alla tipologia del fare strategico, secondo dominanti di “manipolazione” o di “manovra”, proposta da Landowski nel saggio “Esplorazioni strategiche”. Nella prospettiva di Landowski il fare magico si esplicherebbe attraverso la scelta strategica di “manipolare le cose come uomini”, opponendosi tanto al fare tecnologico – “manovrare le cose” – quanto al fare tecnocratico – “manovrare gli uomini come cose” (LANDOWSKI 1989). Le tre tipologie strategiche (non abbiamo qui descritto la quarta, il

fare politico) sembrano distinguere bene l’artista/artefice (fare magico: Winckler) dall’artigiano/ingegnere (fare tecnologico, ad esempio Morrellet) e dal manager organizzatore (fare tecnocratico, Bartlebooth).

200 Tra questi, dei piccoli specchi convessi, di cui non si capisce “perché vi dedicasse tanto tempo. Non cercò di venderli e non ne regalò mai nessuno” (PEREC 1978 : 38 tr. it.); di fronte a questa palese dichiarazione di

gratuità, una possibilità di senso viene data dalla descrizione degli specchi: “pezzi di legno al centro dei quali il piccolo specchio lucente sembrava uno sguardo metallico, un occhio freddo, spalancato, carico

ruoli tematici e patemici: illusionista, abile artigiano, arguto, astuto, paziente. In una parola: polumetis.201