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L’altro che non conosciamo più

Anche al di là della cultura Occidentale esistono nozioni simili alla nozione di pudore che abbiamo cercato di ricostruire. L’economia del presente lavoro non ci consente se non un accenno, ma ne vale comunque la pena nella prospettiva di aprire ulteriori percorsi di riflessione.

La valorizzazione di in concetto assai simile al pudore per come l’abbiamo inteso, la troviamo nell’antica civiltà cinese. Come ha approfondito Bongrae Sook, nei testi che segnano l’origine

432Ivi, pag. 202. A sua volta Vernant fa riferimento a B. Groethuysen, Anthropologie philosophique, Paris, 1952, pag.

61.

433 Su questo cfr. Maria Paola Mittica, Raccontando il possibile. Eschilo e le narrazioni giuridiche, Giuffrè, Milano, 2006. 434 Jean-Pierre Vernant, L’individuo nella città, cit., pag. 198.

del confucianesimo – Anacleti,Mengzi e Xunzi – la vergogna (osservata però come disposizione a sostenere la propria esposizione al fuori) viene intesa come una delle maggiori virtù morali nella relazione con l’altro.“Confucian shame - nota Sook - is an excellent moral emotion, not just because it shares many characteristics with guilt, nor because it comes out of one’s inner moral conscience, but because it is a meta-virtue for the ever-growing ever- improving Confucian moral self”436.

La stessa valorizzazione la troviamo nel mondo arabo con il concetto di “hayāʾ”, traducibile sia come vergogna che come pudore o modestia, ma che – nota Marion Holmes Katz – “does not suggest the possession of a retiring or self-effacing personality, but merely a sensi- tivity to the possibility that specific actions may be unbecoming”437. Si tratta, dunque, nella

sostanza della relazione più di pudore che di vergogna. E l’etimologia del termine ce ne dà ragione. Risulta infatti che “hayāʾ” derivi significativamente dal termine “hayāt” (vita) e sia allo stesso tempo imparentato con quello sanscrito e hindi “lajja”438, e con l’urdu “sharam”,

tanto che in lingua urdu troviamo sia “sharam” che “hayāʾ” come sinonimi439. Si tratta di

termini che rimandano tutti all’idea di vergogna, ma in un’accezione più ampia, quella appunto che abbiamo già riconosciuto come pudore e nel sentimento positivo che un soggetto coltiva nella propria intimità per comportarsi in modo appropriato a ogni nuova relazione.

Sono soltanto due esempi, ma possono bastare per formulare un’osservazione che ci preme. Se per certo ognuna delle nozioni considerate ha una propria storia, e questo già rende appena pronunciabili le considerazioni che abbiamo tracciato, il fatto che queste intervengano nello stesso movimento che abbiamo rintracciato a proposito di pudore e vergogna suggerisce che sul piano esistenziale, al di là delle specifiche culture, ciò che ci accomuna all’altro da noi è il nostro essere ineludibilmente esposti all’altro.

436 Cfr. Bongrae Sook, Moral Psychology of Confucian Shame. Shame of Shamelessness, Rowman & Littlefielfd

International Ltd, London, New York, 2016, Ed Kindle, pos. 3758. Per un confronto tra la saggezza cinese e la filosofia occidentale non possiamo non citare ancora François Jullien, Il saggio è senza idee o l’altro della filosofia, Einaudi, Torino, 2002 [1998].

437 Marion Holmes Katz, Shame (Ḥayāʾ) as an Affective Disposition in Islamic Legal Thought, in Journal of Law,

Religion and State, 3 (2014), 139-169. Naturalmente, ma è bene precisarlo, il nostro discorso si svolge su un piano

esistenziale-relazionale. Che poi questo piano, da un punto di vista storico-empirico, risulti sempre incardinato in una dimensione culturale-normativa, che con le sue specifiche prescrizioni sussume dimensioni esistenziali all’interno di rapporti di potere e in particolare, parlando di pudore e vergogna, quelli di genere, è un discoro che esula dal nostro. E questo vale per il mondo islamico, così come per le altre culture prese in esame (l’antica Grecia, l’antica Rome, l’antica Cina). In altri termini, che l’onore e la vergogna siano storicamente legati ai valori tipici di una società patriarcale, non preclude la possibilità di una loro valorizzazione sul piano esistenziale relazionale.

438 Cfr. Dharm P.S. Bhawuk, lajja in Indian Psychology: Spiritual, Social and Literary Perspectives, in The Value of Shame:

Exploring a Health Resource in Cultural Contexts, a cura di Elisabeth Vanderheiden, Claude-Hélène. Bhawuk, dopo

un lungo lavoro di analisi attraverso testi della tradizione ma anche attraverso la cultura attuale, osserva che “lajja is the internal governor that guide one not only in not doing what is inappropriate, but also in doing what is appropriate”. Ivi, pag. 129. Sul concetto di “lajja” vedi anche R. A. Shweder, Toward a deep cultural psychology of shame, Social Reserch, 2003, 70, 1401-1422.

Ma se siamo accomunati, appunto come “umani”, dal pudore, perché noi occidentali non riusciamo più a decifrare questa dimensione esperienziale della relazione?

Perché il velo delle donne islamiche, per esempio, mediamente, per un occidentale non ha altro valore se non quello di una costrizione, o di un’auto-costrizione che deriva dall’appartenenza culturale? Attraverso una ricerca etnografica nella regione del Punjab, Anjum Alviha mostrato che, diversamente da questo pregiudizio diffuso, una delle motivazioni decisive che spingono una donna ad indossare il velo, sia proprio quella di preservare lo“sharam”.

Questa parola: vergogna. No, devo scriverla nella sua forma originaria, non in questa strana lingua contaminata da concetti sbagliati e dall’accumularsi dei detriti dell’incorreggibile passato dei suoi proprietari, in questo angrezi in cui sono costretto a scrivere, e a alterare quindi per sempre ciò che è scritto… La parola è sharam. E questo squallido “vergogna” ne è una traduzione del tutto inadeguata. Tre lettere shìn rè mìm (scritte naturalmente da destra a sinistra); più accenti zabar che indicano i suoni vocalici brevi. Una parola corta, ma che contiene enciclopedie di sfumature. Non era solo la vergogna ciò che le sue madri vietavano a Omar Khayyam di provare, ma anche l’imbarazzo, il disagio, il pudore, la modestia, la timidezza, la sensazione di avere un proprio posto prestabilito nel mondo e altre espressioni dell’emozioni per le quali l’inglese non ha equivalenti440.

Il velarsi rappresenta, in altre parole, un modo di tenere il proprio sé esposto e in relazione a quello dell’altro441.

Naturalmente, questo non implica che il velo non sia anche segno di un rapporto di potere, e che la vergogna dietro il velo spesso non sia una disposizione relazionale quanto una mortificazione di sé instillata dal potere patriarcale442. Tuttavia, proprio questo è un caso che

ben rappresenta come esistano versanti di complessità nella relazione che oggi noi occidentali fatichiamo a comprendere. Perché, appunto, l’uso del velo ci confonde. Come ricorda Michela Marzano: “il velo rivela più di quanto non nasconda: rivelando l’oscurità mostra ciò che prima era inaccessibile allo sguardo, l’invisibile dell’altro; consente di considerare il suo corpo”443.

440 Salman Rushdie, La Vergogna, cit., pos. 500-511. La nostra difficoltà di accostarsi alla dimensione dello

“sharam” emerge anche nella ricerca di Maria Grazia Soldati, Il purdah o della protezione. Educazione e trasmissione

culturale nelle famiglie emigranti pakistane, Franco Angeli, Milano, 2011, in particolare il paragrafo “Sharam come

confine”, pag. 118.

441 Anjum Alvi, Concealment and Revealment. The Muslim Veil in Context, Current Anthropology Volume 54,

Number 2, April 2013. In questa direzione va anche Diana Sartori, la quale proprio a proposito del velo e del pudore ci spinge “a riconoscere le vie impreviste della libertà che forse sarebbe raccomandabile nel guardare a quel che ci mostrano le donne velate, al di là di quello che dalla nostra posizione e dalla nostra storia vediamo in loro, lo sguardo di una libertà che non necessariamente imbocca la via dell’emancipazione, che pratica altri sentieri non sempre per noi così visibili e che forse può aprire varchi imprevedibili, anche per noi, tra ciò che è visibile e che è invisibile”. Diana Sartori, La pratica femminile tra visibile e invisibile, cit., pag. 101.

442 L’autrice stessa invita infatti a considerare il velo sempre nella complessità del contesto. Cfr. Diana Sartori,