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Passando attraverso l’opera di Simmel abbiamo individuato il pudore come lo scarto da sé da parte del soggetto e abbiamo osservato, inoltre, come in questa distanza (da sé, generata dallo scarto) si giochi il rapporto tra la vita e le forme.

Lo studio dedicato a Georg Simmel da Vladimir Jankélévitch, uno dei primi studiosi a porre l’attenzione sull’importanza dell’opera simmeliana, sembra confortare la nostra interpretazione. Nella lettura di Jankélévitch, infatti, la possibile armonizzazione del rapporto tra la vita e le forme risiederebbe per Simmel nel mantenimento della distanza tra soggetto e oggetto (forme)162.

Lo dice bene Laura Boella nell’introdurre lo studio del filosofo francese:

Jankélévitch arriva al punto cruciale della sua lettura, attirando l’attenzione su una categoria simmeliana al centro della Filosofia del denaro, la “distanza”, che permette di creare un “piano intermedio di proiezione”, ossia uno spazio in cui i valori o le forme non hanno ancora acquisito un’oggettività totalmente indipendente dal soggetto, mentre questo a sua volta sta allentando la sua presa su ciò che è esterno. La “distanza” è un dispositivo che tiene a freno l’assolutismo sia del soggetto sia dell’oggetto163.

Questa idea di distanza sembra collegarsi esattamente con la visione del pudore sin qui emersa. Stando appunto nella distanza, anche il pudore, inteso come scarto, contribuirebbe alla creazione di quel piano intermedio in cui l’oggettività viene sospesa consentendo l’avvicinamento meglio approssimato, quindi la forma meglio misurata, nella dialettica tra soggetto e oggetto.

Certo, diversamente dall’idea di pudore che c’è parso di mutuare correttamente da Simmel, segnata ineludibilmente dalla frattura, la visione della distanza proposta da Jankélévitch contempla la possibilità di una composizione della dialettica vita/forme che, sebbene configurandosi come equilibrio dinamico, risponderebbe a una concezione della vita come unità – dunque in contrasto con lo sfondo sul quale abbiamo collocato il pudore. Tuttavia, non v’è una reale contraddizione. Così come Simmel continuerà a oscillare tra le due visioni – del possibile rinvenimento di un’unità originaria di vita e forme e della loro frattura ineludibile – lo stesso Jankélévitch, durante il suo percorso intellettuale, approderà ad una visione etico-esistenziale, tutta imperniata sulla frattura.

Ancora una volta ci viene in aiuto Laura Boella:

Jankélévitch radicalizza drammaticamente la condizione umana di intermediarietà, imprimendole un carattere etico-esistenziale. La “posizione mediana” ha ben poco a che vedere con una sintesi, sognata, provvisoria, ma instancabilmente inseguita, di temporale e di eterno, di relativo e di assoluto. Essa è piuttosto lacerazione costitutiva, derivante dal carattere unico, individuale, istantaneo e irripetibile (“semelfattivo” dirà successivamente Jankélévitch) di ogni azione umana, che si sporge su un confine, che è il mistero, l’alterità assoluta, ma non può essere oggetto di conoscenza affermativa o misticheggiante164.

Il pudore sarebbe la manifestazione incarnata della frattura165.

Chiudere la questione sulla possibilità di comporre la dialettica vita/forme, con la visione della vita nel “flusso continuo delle forme” è in ogni caso una tesi riduttiva. Recentemente, introducendo lo studio simmeliano su Goethe, Michele Gardini si interroga rispetto all’effettiva esperienza della vita da parte del soggetto, giungendo alla conclusione che essa è tutt’altro che immediata e solidale partecipazione ad un flusso.

[m]a davvero noi avvertiamo in questo modo la vita e la sua ritmica? Sentiamo un flusso vitale che entra in una forma per poi tracimare e che, ritornato libero fluire, dismessi i propri panni, cerca e trova una forma più adatta con la quale ripetere la sua eterna vicenda?166

La nostra esperienza della vita si gioca, piuttosto, nell’esperienza della finitezza, dice Gardini. Tale esperienza è segnata originariamente dalla scissione e, per andare incontro alla vita, è con questa che bisogna fare i conti.

[n]oi non abbiamo esperienza, a quanto sembra, di un flusso vitale che si raggela in forme, ma abbiamo direttamente esperienza di forme, di schemi, di strutture che si

164 Laura Boella, Introduzione, cit, pag. 17.

165E non a caso Jankélévitch insisterà sulla dimensione del pudore, tanto da meritare l’epigrafe di “filosofo del

pudore” da parte di Rovatti, altro studioso coinvolto da questo tema. Cfr. Pier Aldo Rovatti, Se la musica è silenzio, in La Repubblica, 2 Febbraio 1986.

166 Michele Gardini, Il Goethe di Simmel, in Georg Simmel, Goethe, Quodlibet, Macerata, 2012 [1913], pag. 42.

confrontano, e talora si scontrano drammaticamente, con l’ambiente esterno ed interno. […] Originaria sarebbe allora la forma, e ciò che chiamiamo vita riceverebbe in noi rappresentanza dall’oscura ma effettiva percezione di queste transizioni formali, talora rapidissime, talora laboriose e sofferte: percezione di un dinamismo, di una pulsione che davvero sottende l’inquieta dialettica delle nostre forme. In una parola soltanto, la vita coinciderebbe non tanto con l’intuizione quasi mistica di un flusso vitale, ma con la consapevolezza emotiva ed esistenziale della precarietà e della mobilità, del carattere

metamorfico delle nostre forme167.

L’essere umano non ha esperienza che di forme e del loro essere continuamente insufficienti, della loro eterna imperfezione, da cui consegue il continuo movimento del loro farsi e disfarsi. Ma questo movimento testimonia non solo il pulsare della vita e la sua dialettica con il mondo delle forme; nel continuo farsi e disfarsi delle forme, oltre che sulla vita, il soggetto si trova affacciato anche sulla morte.

L’esperienza della finitezza, a ben vedere, è tematizzata da Simmel in uno dei suoi ultimi scritti, Metafisica della morte. Qui egli osserva esplicitamente il rapporto consustanziale della vita con la morte: l’una esiste solo in rapporto all’altra.

La formulazione hegeliana, che ogni quid esige il suo contrario e insieme ad esso giunge alla sintesi più elevata, in cui certo viene “tolto” ma proprio in questo modo “giunge a se stesso”, forse in nessun luogo fa risplendere il suo significato profondo come nel rapporto tra la vita e la morte. La vita esige, a partire da se stessa, la morte, come proprio contrario, come l’“altro” che il quid diviene e senza il quale questo quid non avrebbe il suo senso specifico e la sua specifica forma168.

La vita, dunque, è se stessa solo in quanto è in un rapporto differenziale con la morte. Per poter sentirsi viva, la vita necessita del suo contrario.

Le forme, a loro volta, si innestano in questa tensione reciproca (ancora una volta la

wechselwirkung), cercando di porre al riparo i contenuti della vita dal loro essere destinati alla

morte. Dice infatti Simmel:

In tale misura vita e morte stanno su un gradino dell’essere, come tesi e antitesi. In questo modo però si eleva al di sopra di esse qualcosa di più alto, valori e tensioni della nostra esistenza (Dasein), che sono superiori alla vita e alla morte e non più toccati dal loro contrario, e nei quali soltanto la vita giunge propriamente a se stessa, al più alto senso di se stessa. […]

Se noi vivessimo eternamente, forse la vita rimarrebbe indifferenziatamente fusa con i suoi valori e i suoi contenuti, non vi sarebbe alcun reale impulso a pensarli al di fuori dell’unica forma nella quale li conosciamo e spesso senza limiti li possiamo «vivere». Ora, però, noi moriamo e sperimentiamo così la vita come qualcosa di casuale, di passeggero, come qualcosa che può essere anche diversamente. Solo per questo sarà sorto il pensiero, che i contenuti della vita non hanno bisogno di condividere il destino

del suo processo, solo così si sarà posto in rilievo il significato di certi contenuti valido al di là della vita e della morte, indipendentemente da ogni scorrere e finire. Solo l’apprensione della morte avrà sciolto quel legame, quella solidarietà dei contenuti della vita con la vita169.

Dall’esposizione alla morte sorge la dimensione specificatamente umana delle forme, in quanto è contro la morte che il soggetto costruisce quella dimensione. Ma ciò significa anche che la morte è ciò per cu il soggetto si distanzia dalla sua vita, in quanto, appunto, proprio nel suo tentativo di fuggire la morte dando forma al mondo il soggetto reifica la vita, e dunque si allontana da essa.

Potremmo dire che la morte è quello iato tra la vita e le forme, per cui ogni ricomposizione dell’unità della vita attraverso le forme non può che risultare vana. Oppure, specularmente, essa è ciò che fa sì che il soggetto, per andare incontro alla vita,sia chiamato ad oltrepassare uno iato, è chiamato cioè ad un salto oltre un fossato, oltre una frattura: oltre la morte. Ciò che noi esperiamo allora, come giustamente nota Gardini, non è il flusso vitale, la sua pienezza e la sua forza, quanto una forma che nella precarietà dell’Io si trova in tensione con la morte. Da questo punto di vista, allora, più della conciliazione tra la vita e le forme, che Simmel ha in qualche modo tributato al genio goethiano170, è importante e significativa la

sconfitta di Michelangelo.

Nessuno come Michelangelo aveva fatto tanto per chiudere la vita nel cerchio della forma terrestremente visibile dell’arte, perché essa trovasse in sé la propria soluzione, non solo creando a partire dal corpo e dall’anima, che fino ad allora era appesa al cielo, un’unità della visione ancora ignota, ma portando ad espressione finita tutte le discrepanze del vivere, tutte le tragedie che si sviluppano tra i suoi livelli superiori e inferiori, nel singolare movimento delle sue figure, nella lotta delle loro energie. Ma nel

169Ivi, pagg. 14-15.

170 Anche se nello studio su Goethe non mancano indicazioni che vanno nella nostra direzione. Ad esempio

Simmel ritrova nella vita di Goethe un sentimento per noi particolarmente significativo su cui si sofferma in questo modo: “La sensazione di questa sorda resistenza del mondo reale, cui noi stessi apparteniamo, contro il superiore e l’assoluto, dal quale il mondo stesso riceve senz’altro in feudo il proprio contenuto e valore, si riflette bene in un sentimento che egli formula spesso, ad. es. nella frase seguente: “L’idea, quando entra nel fenomeno, qualunque sia il modo, suscita sempre apprensione, un certo genere di soggezione, imbarazzo, repulsione, nei cui confronti l’’individuo in qualche maniera si mette in posa””. Georg Simmel, Goethe, cit., pag. 159.

Nella stessa direzione va la sua analisi di un altro tratto che percorre l’esistenza goethiana: la rassegnazione, la rinuncia: “Nella rassegnazione siamo soliti rilevare e avvertire soprattutto il momento del patire, ma questo riflesso sentimentale è del tutto inessenziale per Goethe. Il “rinunciante” è l’uomo che dà alla propria esistenza soggettiva la forma mediante la quale essa può inserirsi nell’ordine oggettivo della società e del cosmo in generale; oppure, dall’altro lato, non appena l’uomo vuole darsi una forma che superi il semplice diffondersi della propria esistenza, nella quale intuire sé stesso come oggetto, come un elemento del mondo, egli deve allora abdicare. Ogni forma è limitazione, è rinuncia a ciò che sta oltre il limite; e solo tramite la conformazione sorge quell’essere stabile, commisurato al mondo, che si trova dinanzi al soggetto, e del quale questo stesso deve assumere la forma”. Georg Simmel, Goethe, cit., pag. 210. Tuttavia, questo aspetto evidenziato da Simmel costituisce solo un momento dell’arte di Goethe che si supera in direzione dell’unione della vita con le forme.

conferire forma definitiva alla possibilità di portare la vita, per la via dell’arte, a unità e completezza, gli divenne terribilmente chiaro che questi limiti non avevano fine171.

Il rapporto vita/forme è ineludibilmente attraversato dalla morte, la quale impedisce ogni possibilità di “pacificare” quel rapporto. La pretesa dell’unità, al contrario, è il sogno o la presunzione tracotante dell’immortalità.