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La sentinella più accorta della vergogna che invade la soggettività contemporanea si incarna nel corpo.

462 Ivi, pag. 40. 463 Ivi, pag. 41. 464 Cfr. ivi, pagg. 42-59.

Per Anders466, come per Pulcini467 e Turnaturi468, il corpo concretizza il più visibile limite alla

smania (hybris) di perfezione e completezza del soggetto.

Lo abbiamo visto nel primo capitolo, analizzando il pudore dal punto di vista normativo. Il corpo e la sessualità oggi sono riscoperti come qualcosa di disincarnato, astratto, senza vita, cosa che rivela come, dietro il lavorio di individui indaffarati con le immagini dei loro corpi, vi sia in realtà un sentimento di vergogna per il proprio corpo reale. Un corpo, peraltro, che si tocca, senza riuscire davvero a prendere con sé.

Non è un caso, allora, come ci fa vedere Tamar Pitch, che la riscoperta del corpo si accompagni ad una recrudescenza delle norme del pudore e del decoro, solamente però verso quei corpi che ci chiamano al confronto con l’alterità: i corpi umili dei margini, i corpi ribelli della devianza, i corpi infranti del lavoro, i corpi malati degli ospedali, i corpi morti dei cimiteri469. In altri termini, in tutti quei luoghi dove davvero il corpo dell’altro ci espone al

confronto con il nostro corpo, ecco che quei corpi fanno vergogna e sono etichettati come osceni. Nel barricarsi dietro quelle norme non possiamo che vedere ancora la vergogna di sé del soggetto contemporaneo.

La nostra impressione, in tutto ciò, è che seppure oggi l’individuo ha superato l’interdetto che riguardava il corpo e la sessualità, l’ha fatto, soltanto in modo individualistico: si è liberato dai divieti, perdendo l’esposizione all’altro.

Di fronte alla crisi e alla fragilità della soggettività contemporanea, pur di non riconoscere la propria frattura e il bisogno dell’altro, il soggetto si aggrappa al corpo e al sesso in cerca di una terraferma che lo sottragga alla vergogna di sé di fronte all’altro. Il corpo e il sesso divengono, in altri termini, il luogo più prossimo in cui ricercare la propria verità. Quando ogni verità di sé sembra venire meno, ci si rivolge al corpo e al sesso in cerca del proprio fondamento.

Tuttavia, come abbiamo visto, il corpo in senso autentico è là dove non se ne parla. Il corpo è dove la forma si sospende sulla soglia della vita. Laddove il corpo oggi è discusso, spettacolarizzato, messo in mostra, non abbiamo il corpo ma il discorso sul corpo. Abbiamo un corpo posseduto, invece di un corpo esistito. Tutt’altro che a difesa della propria esposizione all’altro, il corpo è uno scudo espropriato dietro cui nascondere la propria vergogna.

Se questa è la condizione dei corpi nella nostra società, non ci stupisce allora, come rilevano sia Anders che Pulcini, l’anestetizzazione della soggettività contemporanea, la sua incapacità di “sentire” la propria esperienza.

466 Günther Anders, L’uomo è antiquato, cit., pagg. 40-41. 467 Elena Pulcini, La cura del mondo, cit., pag. 53. 468 Gabriella Turnaturi, Vergogna, cit., pagg. 43-45.

Privato ormai, a causa della fine di ogni reale garanzia immunitaria, della possibilità di un porto sicuro nel quale sentirsi al riparo dai pericoli del mondo, l’Io globale si ritrae nell’unico spazio apparentemente in grado di proteggerlo da eventi e minacce che non è in grado di gestire: vale a dire nello spazio tutto interiore di un’indifferenza emotiva, di

un’anestesia delle emozioni, generata dalla messa in atto di sofisticati, e per lo più inconsci

meccanismi, di difesa470.

Dietro questa incapacità di vivere emozionalmente ciò che sta accadendo, possiamo riscontrare ancora una volta una soggettività erosa dalla vergogna. Una soggettività pietrificata di fronte alla propria contraddizione. E proprio perché la vergogna non può essere ammessa, dato che ammetterla significherebbe negare il proprio essere individuo, questa vergogna è ciò che rende incapace il soggetto di prendere atto della sua condizione. Questo meccanismo, dunque, sembra contribuire anche ad un altro tratto caratteristico del soggetto contemporaneo rilevato da Elena Pulcini: il “diniego”, l’incapacità del soggetto di fronteggiare emotivamente la realtà di fronte ai suoi occhi471. Questa infatti gli fa vergogna,

lo costringe a mettersi in discussione, e dunque da essa cerca di difendersi.

Dobbiamo imparare a riconoscere la vergogna come ciò che accompagna il soggetto e ne condiziona la sua condotta di vita, ma che tuttavia, in quanto differita dall’individuo, dato che mette in discussione il suo stesso essere individuo, sembra non esistere. Dobbiamo imparare a riconoscere dunque la vergogna che sorprende l’individuo prima ancora di agire, impedendogli di fare esperienza. La vergogna inespressa, quella che non raccontiamo nemmeno a noi stessi, quella a cui non è concessa nemmeno la consistenza del rossore. Quella che impedisce al soggetto di sentire il corpo come il darsi dell’esperienza, e dunque ciò che gli impedisce di vivere a pieno la sua azione. Questa è la vergogna di conoscerci, la vergogna di incontrarci: di incontrare noi stessi, e di incontrare l’altro. Di incontrare noi insieme all’altro.

La vergogna non è semplicemente segno di una crisi del sé di fronte ad un giudizio morale negativo. Nell’assolutizzazione dell’individuo, essa è vergogna di esistere. Questa vergogna è ciò che blocca e pietrifica il soggetto preso nella contraddizione tra hybris e nemesi, tracotanza e realizzazione del fallimento.

La vergogna dunque, cova in noi stessi, e li rimane. Muta. Inespressa. Ma non per questo inattiva. Anzi, proprio correndo sottopelle, essa allontana sempre più i soggetti tra loro. Soggetti che divengono sempre più docili, incapaci di indignarsi e sempre più inclini al potere.