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L’ambito applicativo: solo imperizia o anche negligenza e imprudenza?

Nel documento Linee guida e colpa del medico (pagine 101-104)

8. La colpa grave

8.2 La restrizione della responsabilità per i soli casi di colpa grave in riferimento a

8.2.2. L’ambito applicativo: solo imperizia o anche negligenza e imprudenza?

Il secondo dei profili controversi in ordine al campo di operatività della novella riguarda la sua perimetrazione rispetto alle declinazioni in cui si può articolare l’illecito colposo194.

Come anticipato, ci si chiede se l’esercente la professione sanitaria che rispetta linee guida e buone pratiche accreditate e, ciò nonostante, versi in colpa lieve, vada esente da responsabilità solo se tale forma di rimprovero possa essere considerato un’ipotesi di imperizia o se, innovando rispetto all’elaborazione giurisprudenziale formata rispetto all’art. 2236 del codice civile, l’esimente introdotta dall’articolo 3 spieghi e suoi effetti anche per le condotte negligenti e imprudenti195.

194 Sull’elaborazione dottrinale dei concetti di negligenza, imprudenza e imperizia si veda A. DI LANDRO, I criteri di valutazione della colpa penale del medico, dal limite della gravità ex art. 2236 c.c.

alle prospettive della gross negligence anglosassone, cit., pp. 746-747, per il quale: «si spiega che la

negligenza, essendo l’opposto della diligenza (ossia, richiamandosi all’etimo latino, dell’amorevole cura e sollecitudine) sia considerata, ancora oggi, un sinonimo di trascuratezza, dimenticanza, svogliatezza, leggerezza o superficialità, ripetendosi poi da più parti che la negligenza costituisce il profilo meno scusabile della colpa del medico, in quanto non dipende dalla sua cultura o competenza tecnica, ma semplicemente dalla qualità del rapporto umano stabilito col paziente. All’imprudenza, poi (forma contratta di “in-previdenza”) si attribuisce il significato di avventatezza, di insufficiente ponderazione, che implica scarsa considerazione degli interessi altrui. E, volendo istituire un confronto con la negligenza, si ritiene di desumere il tipo di qualifica dalla natura rispettivamente attiva od omissiva della condotta imposta dalla regola cautelare violata. L’imperizia, infine, è concetto che ha più specifica attinenza logica con l’esercizio di una professione, e si definisce violazione – vuoi per insufficiente preparazione vuoi per inettitudine – delle regole tecniche (o leges artis) dettate dalla scienza e dalla pratica».

195 Reputa del tutto superflua una simile problematica O. DI GIOVINE, In difesa del c.d. decreto Balduzzi

(ovvero: perché non è possibile ragionare di medicina come se fosse diritto e di diritto come se fosse matematica.), cit., p. 7, secondo la quale «in medicina sfuma, perdendo la sua restante importanza

(ammesso che ne avesse ancora), la distinzione tra imperizia, da una parte, e negligenza e imprudenza, dall’altra. Non colgo quindi la rilevanza della questione se la nuova disposizione debba o meno essere riferita alla sola imperizia, sulla scia di quanto avvisato dalla Corte Costituzionale nella celebre sentenza n. 166 del lontano 1973. Prescindendo pure dall’obsolescenza della tripartizione (soppiantata dalla consapevolezza della natura costitutiva dei giudizi di prevedibilità ed evitabilità dell’evento), mi sembra

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Sin dai primi commenti196 la dottrina maggioritaria ha proposto un’interpretazione che si pone in continuità con il passato e che limita il beneficio ai soli casi di imperizia. In primo luogo, tale orientamento è fondato sulla considerazione che le linee guida e i protocolli racchiudono esclusivamente regole di perizia che il medico deve applicare nella sua attività professionale, lasciando invece in disparte i distinti ambiti della diligenza e della prudenza197.

Si è inoltre evidenziato che, anche a voler prescindere dalla tipologia di precetti cautelari di norma incorporati nelle linee guida e nei protocolli, l’atteggiamento soggettivo di chi cagiona un evento lesivo per negligenza o imprudenza è, in ragione della sua particolare rimproverabilità, di per sé non sussumibile entro l’alveo della colpa lieve.198

Alla luce di tali considerazioni, l’Autore199 sopra citato, ritenendo che sia proprio il

concetto di negligenza ad essere incompatibile con la lievità della colpa, afferma che «il senso della modifica normativa sembra rivolto ad escludere la responsabilità penale di chi, in qualche modo, sia stato osservante di regole cautelari precostituite ma non di chi fondi la sua condotta nel disinteresse e nella noncuranza della salute del paziente o in avventate iniziative contrastanti con essa anche se non può escludersi in assoluto che

che tale opzione potrebbe avere ancora senso, al limite, ove si abbracci una visione dell’attività medica come riflessione teorica da realizzare “a tavolino”, casomai mediante computi di stampo ragionieristico. Ciò che (fortunatamente) non è. Nella realtà dei casi complessi, il confine tra conoscenza, uso appropriato della cautela, avventatezza o trascuratezza nella scelta di quella adatta mi pare troppo sottile, e troppo pericolosa una distinzione che voglia essere dirimente ai fini penali. Certamente, d’altronde, una siffatta distinzione difficilmente sarà rinvenibile in termini rigidi nemmeno nelle linee guida, che mirano – senza porsi problemi definitori – ad assicurare la perizia, ma anche la diligenza del medico e la tempestività del suo intervento».

196 In questo senso, P. PIRAS, in culpa sine culpa, cit., p. 3; C. CUPELLI, op. cit., p. 10; L. RISICATO,

Le linee guida e i nuovi confini della responsabilità medico-chirurgica, cit., p. 200.

197 G. IADECOLA, op. cit., p. 549.

198 Sulla distinzione fra imperizia e negligenza, ha osservato C. BRUSCO, op.cit., p. 20, che «il medico che si sia attenuto acriticamente alle linee guida senza valutare se le caratteristiche del caso portato alla sua attenzione richiedessero un approccio terapeutico almeno in parte diverso (o non abbia tenuto conto della circostanza che le linee guida applicate avevano carattere di genericità o comunque non disciplinavano interamente il caso da lui affrontato) dimostra di non essere sufficientemente preparato ad affrontare casi che fuoriescono dalla prassi routinaria e quindi di essere imperito. Ma può anche avvenire che egli abbia omesso di acquisire un’informazione o i risultati di un esame che gli avrebbero meglio chiarito la natura della patologia e l’insufficienza (o peggio) di un trattamento ispirato esclusivamente all’osservanza delle linee guida e in questo caso ci troviamo in presenza di negligenza».

199 ID, Ibid, si chiede: «come è possibile ritenere la colpa lieve quando ci si trovi in presenza di trascuratezza, mancanza di attenzione, disinteresse, mancata considerazione dei segnali di pericolo? E lo stesso potrebbe dirsi per i casi di imprudenza (avventatezza, scarsa ponderazione, sottovalutazione dei segnali di pericolo)».

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possa configurarsi una colpa lieve nella trasgressione minima di una regola di diligenza o prudenza».

La giurisprudenza finora maggioritaria si è collocata nel solco segnato dalla dottrina esposta. La Suprema Corte200 ha infatti sancito il principio secondo il quale «l’ambito di operatività della normativa sopravvenuta appare riservato esclusivamente ai casi in cui venga mosso all’esercente la professione sanitaria un addebito di imperizia e non anche nei casi, come quello in esame, nei quali il rimprovero si basa, indipendentemente poi dalla fondatezza o meno di esso, sui rimanenti aspetti della colpa generica, in particolare riguardante la violazione del dovere di diligenza e di prudenza».

Secondo una diversa impostazione, invece, occorrerebbe considerare che le buone pratiche spesso contengono regole procedurali finalizzate ad evitare che l’evento lesivo si realizzi proprio a causa di negligenza o di imprudenza201.

Un esempio significativo in tal senso è offerto dalle c.d. checklist202, le quali contengono indicazioni di carattere per lo più procedurale che, di conseguenza, non sono riconducibili nell’area delle norme di perizia.

Gli echi dell’orientamento favorevole all’estensione dell’esimente anche alle ipotesi di negligenza e imprudenza sembrano trovarsi, seppur in termini di semplice accenno, in un’unica pronuncia della Suprema Corte203, nella quale i giudici di legittimità hanno affermato che «il riferimento alle buone pratiche pone nuovi dubbi all'interprete. Le

200 Cass., sez. IV, sent. n. 7951 del 2014 (pres. Zecca, rel. Esposito; imp. Giordano) in C.E.D. Cass., cfr p. 153. Nello stesso senso Cass., sez. IV, sent. n. 242 del 2013 (pres. Marzano; rel. Piccialli; imp. Pagano) in

C.E.D. Cass., Rv. 257505, cfr p. 133; Cass., sez. III, sent. n. 5460 del 2014 (pres. Fiale; rel. Di Nicola;

imp. Grassini) in C.E.D. Cass., Rv. 258847, cfr p. 156.

La stessa Corte Costituzionale, con ordinanza 6 dicembre 2013 n. 295 pres. Silvestri, rel. Frigo (in

http://www.penalecontemporaneo.it/upload/1386350920Cost.%20201300295.pdf, con nota di G. L.

Gatta, Colpa medica e linee-guida: manifestamente inammissibile la questione di legittimità

costituzionale dell’art. 3 del decreto Balduzzi sollevata dal Tribunale di Milano, in http://www.penalecontemporaneo.it, nel dichiarare manifestamente inammissibile la questione di

legittimità sollevata dal Tribunale di Milano, ha rilevato come «nelle prime pronunce emesse in argomento, la giurisprudenza di legittimità abbia ritenuto – in accordo con la dottrina maggioritaria – che la limitazione di responsabilità prevista dalla norma censurata venga in rilievo solo in rapporto all’addebito di imperizia, giacché le linee guida in materia sanitaria contengono esclusivamente regole di perizia: non, dunque, quando all’esercente la professione sanitaria sia ascrivibile, sul piano della colpa, un comportamento negligente o imprudente».

201 A. ROIATI, op. cit., p. 108, il quale osserva che «l’opposto orientamento sembra risentire, da un lato di un’attenzione rivolta esclusivamente alle linee guida, dall’altro risulta storicamente condizionata dalla ben nota sentenza n. 166 del 1973 della Corte Costituzionale relativa all’art. 2236 c.c.».

202 V. supra cap. I, par. 2.3.

203 Cass., sez. IV, Sentenza n. 5028 del 2014 (pres. Zecca; rel. Serrao; imp. Usai) in C.E.D. Cass, cfr p. 151.

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cosiddette buone pratiche non di rado si traducono, infatti, in regole che indicano la procedura da seguire al fine di evitare condotte negligenti ed imprudenti, cosicché il criterio interpretativo del limite di operatività della norma alle sole ipotesi in cui venga contestato un comportamento imperito risulta oggi messo in crisi dal nuovo testo normativo».

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