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L’ambivalenza del gesto

Nel documento Lexia 31-32 (pagine 95-99)

Martirio e testimonianza L’ambivalenza del concetto cristiano di “martirio”

4. L’ambivalenza del gesto

Benveniste, nel suo Vocabolario delle istituzioni indoeuropee ([1969] 2001, pp. 485–496), richiama l’attenzione sull’etimologia del termi- ne “superstizione”, mettendolo vicino ai termini supertes, “soprav- vissuto”, “testimone” e superstitiosus, “indovino”, e affermando che all’origine la superstitio sia “la facoltà di testimoniare a fatto avvenu- to ciò che è stato abolito, di rivelare l’invisibile”46. Da un punto di

46. “È all’origine la facoltà di testimoniare a fatto avvenuto ciò che è stato abolito, di rivelare l’invisibile. L’evoluzione del termine verso un senso unicamente peggiorativo si spiega con il discredito che colpiva, a Roma, indovini, maghi, ‘veggenti’ di ogni tipo”. Benveniste (2001), p. 485.

vista etimologico, anche il “martirio”, in quanto vicino al termine “testimonianza”, avrebbe a che fare con la facoltà di testimoniare qualcosa di non presente e non visibile. Ma il martire in senso cristia- no, ci dice Benveniste, è rispetto al latino testis, un “testimone della divinità” (ivi, p. 493). Negli Acta Martyrum, come abbiamo visto, i martiri/testimoni sono effettivamente descritti come testimoni di Cristo: delle figure intermedie, in grado di stabilire un contatto di- retto con la trascendenza divina. Il tema della visione ultramonda- na, della luminosità del volto, della somiglianza con gli angeli, ne sono la prova. Nel Martyrium Polycarpi si dice che Policarpo diede testimonianza “quasi ne apponesse il sigillo”, ponendo così fine alla persecuzione. Questo riferimento all’apporre il sigillo è particolar- mente interessante in quanto ci rimanda a una definizione, presente anche in Esichio, dei giuramenti come “vincoli del sigillo” o “vincoli sigillanti”47. Non c’è dubbio che il termine “μαρτυρία” — inserito in

un contesto come quello processuale romano — rimandasse anche all’atto del giuramento e della testimonianza in tribunale. Eppure que- sti atti di parola concernono, come ci insegna Agamben (2009, pp. 44–47), non tanto una testimonianza giuridica neutra, come affer- mazione di un fatto e di un evento, quanto lo stesso potere significante del linguaggio, il quale aveva a che fare con la dimensione sacramen- tale e performativa di un atto compiuto di fronte agli dei. Quando si contrappone la terminologia giuridica a quella religiosa, secondo la contrapposizione moderna tra diritto e religione, bisogna sempre ricordare che i romani consideravano la sfera del sacro come parte integrante del diritto48. In questo senso la testimonianza aveva a che

47. Per un approfondito studio del carattere sacrale del linguaggio giuridico riman- do ad Agamben (2009), p. 46: “Una glossa di Esichio (horkoi: desmoi sphragidos) definisce i giuramenti come ‘vincoli del sigillo’ (o sigillanti, se si preferisce la lezione sphragideis). Nello stesso senso nel fr. 115 di Empedocle si parla di un ‘decreto eterno degli dèi, sigil- lato con grandi giuramenti’”.

48. Cfr. Agamben (2009), pp. 27–28; Rimando inoltre, agli studi di antropologia storica di Mauss, il quale afferma a livello etnografico una coincidenza originaria nella condizione psicologica umana primordiale, tra sentimenti religiosi e diritto penale. Si veda a tal proposito Mauss (1998), in particolare cap. 1, Parte terza, La religione e le origini

fare, al pari del giuramento nel nome degli dei, con la dimensione religiosa del diritto49. Nei diversi acta, i proconsoli chiedono ai mar-

tiri/testimoni di compiere sacrifici e di giurare sulla fortuna e sul genio dell’Imperatore, siglando in questo modo un atto sacro di sot- tomissione50. I primi cristiani, i quali infransero con il loro rifiuto le

istituzioni del sacrificio e del giuramento, attestavano invece, con la loro testimonianza, la loro esclusiva sottomissione a Dio. È in que- sto senso secolarizzante e politico che va letta negli acta la ripetuta affermazione: “Onore a Cesare, in quanto Cesare, ma timore solo verso Dio”51. Come è stato osservato da Brown, troppo spesso la

storiografia si è occupata di analizzare le credenze religiose tardoan- tiche e il nascente culto dei martiri e dei santi, secondo un modello storiografico “a due piani” di origine illuministica. Secondo questo modello, le credenze religiose vengono divise tra quelle proprie di un volgo ignorante, “politeista” e “pagano” e quelle di un’élite cultu- rale alta, razionale, in grado di liberarsi delle superstizioni popolari e di comprendere le verità di fede52. Bisogna invece, secondo quan-

del diritto penale, p. 178: “Così il diritto penale e la religione appaiono come intimamente legati, mentre, presso i popoli civilizzati, la divisione del lavoro ha introdotto una tale se- parazione tra i fatti che i rapporti non sono più evidenti, senza contare che l’introduzione dei pregiudizi filosofici ha ancora oscurato la vista delle connessioni reali e naturali”.

49. Cfr. Agamben (2009) pp. 27–28; e p. 34: “Quando, proiettando anacronisticamente un concetto moderno sul passato, si parla oggi di una ‘religione romana’, non si deve dimen- ticare che, secondo la perspicua definizione che Cicerone mette sulle labbra del pontefice massimo Cotta, essa non era che l’insieme delle formule e delle pratiche rituali da osservare nello ius divinum: cum omnis populi Romani religio in sacra (le consacrazioni) et in auspicia (gli auspici da consultare prima di ogni importante atto pubblico) divisa sit (De nat. Deorum III, 5). Per questo egli poteva indicarne l’etimologia (del resto condivisa dagli studiosi moderni) nel verbo relegere, osservare scrupolosamente: qui autem omnia quae ad cultum deorum pertinerent

deligenter retractarent et tamquam relegerent, sunt dicti religiosi ex relegendo (ivi, II, 72)”.

50. Negli “Acta Phileae”, confrontandosi con il proconsole romano, Filea affer- ma facendo riferimento a Mt 5,37: “Ci è stato comandato di non giurare”., Bastiaensen (1987), p. 287.

51. Ivi, p. 103.

52. Brown critica in particolare le posizioni di Gibbon (1967), secondo il quale le élites culturali cristiane avrebbero nel IV e V sec. d.C. capitolato di fronte ai modi di pensare che prima appartenevano soltanto al “volgo”, secondo quella che è la tendenza a concepire la storia culturale tardoantica come la storia di “cedimenti” inarrestabili tra le élites e le

to afferma Brown, abbandonare questo modello “a due piani”, per entrare nel vivo dei processi di pensiero e dei bisogni che portarono al sorgere e all’espandersi di certe credenze. Allo stesso modo po- tremmo dire che l’analisi storiografica, concettuale e terminologica riferita al “martirio” tende a prendere in considerazione solo quel- le definizioni teologiche patristiche che, stabilendo delle differenze terminologiche rispetto ad altre figure (i confessori, i lapsi, ecc.), hanno definito la figura del martire e il concetto di “martirio” a par- tire dall’opposizione ad esse. Una figura che si trova, però, già da subito al centro di un culto e di un’attività religiosa testimoniata in numerosi documenti: la morte miracolosa dei martiri/testimoni ve- niva infatti percepita dai presenti — testimoni oculari — come segno della potenza di Dio che agisce attraverso il martire. Se si guarda al fenomeno del martirio da un punto di vista semiotico, e non mera- mente semantico, ci accorgiamo che esso ha che fare in primo luogo con un gesto — ovvero, quello di una testimonianza/avvenimento, percepito dai presenti come un miracolo e riportato nei vari racconti come prova della presenza dello Spirito nella comunità — e soltan- to in un secondo momento con una definizione teologica rigorosa. L’ambivalenza del concetto cristiano di “martirio” non ha dunque soltanto a che fare con la sua radice etimologica, ma anche con una ragione che potremmo definire performativa o fenomenologica53.

La testimonianza giuridica del martire/testimone riguarda infatti, da un lato, la dimensione attiva di una testimonianza della divinità, dall’altro quella passiva dell’accettazione della propria morte e pas- sione54. Il martire/testimone si trova coinvolto in un gesto, al tempo

masse: “Si ritiene così che momenti drammatici di ‘democratizzazione della cultura’ o di capitolazione di fronte ai bisogni popolari abbiano introdotto una serie di ‘mutazioni’ nel cristianesimo della tarda antichità e del primo medioevo”. Brown (1983), p. 26.

53. Cfr. Lucatti et al. (2016).

54. Su quest’ambivalenza insistono anche Panattoni e Solla (2007), p. 7, nella loro introduzione all’antologia di testi dedicata al tema del martirio: “L’atto della testimo- nianza, che la parola ‘martirio’ implica fin dalla sua origine nella lingua greca, porta iscritto in sé un indice che lo rimanda all’atto di immolarsi. Il martirio è così immediata- mente preso nel concetto di sacrificio. Tuttavia se questa corrispondenza fosse del tutto

stesso attivo e passivo, il cui valore è duplicemente legato alla testi- monianza pubblica di Cristo e all’atto dell’auto–immolazione e del sacrificio. Nelle sue lettere Ignazio di Antiochia si autodefinisce “vit- tima”, paragonandosi ad un agnello sacrificale da immolare all’alta- re di Dio55. Eppure, se il concetto di “martirio” non è sovrapponibile

con quello di “testimonianza”, esso non è nemmeno sostituibile con quello di “sacrificio”56; esso rimane, per così dire, sul confine tra que-

sti due significati. Come si diceva sopra, se pensiamo all’attuale uso politico e religioso delle parole “martirio” e “martire”, ci accorgia- mo che esse ci sono state trasmesse in un duplice significato; sia per designare le vittime passive e innocenti di una violenza subita, che per significare l’azione auto–sacrificale di chi muore per una causa politica o religiosa. Il martire/testimone cristiano vive un’esperien- za paradossale, che consiste nell’“edificare la potenza nel seno stesso dell’impotenza totale” (Van der Leeuw 1960, p. 185).

Nel documento Lexia 31-32 (pagine 95-99)