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La “trasgressione dei precetti”

Nel documento Lexia 31-32 (pagine 35-43)

Martirio e Keddushat Hashem

3. La “trasgressione dei precetti”

Dunque la religione (il rapporto con la Divinità e l’osservanza dei riti) fa parte integrante della cittadinanza e in genere non ha sen- so in questo contesto cercare di costringere qualcuno a cambiarla o a rinunciarvi, un tentativo che è la premessa necessaria del rifiu- to con quella resistenza eroica che il cristianesimo nomina come “martirio”. Non vi sono martiri ebrei nel Tanakh perché nessuno al tempo di quegli scritti credeva in una fede universale, staccata cioè dall’appartenenza a un popolo e nessuno pensava di poterla impor- re o strappare. Quel che accade invece nelle Scritture è che vi sono imposizioni, minacce e seduzioni che riguardano la sfera dei com-

portamenti, cioè le conseguenze pratiche di quel “timor di Dio” o di quel “rispetto” di cui ho appena parlato. Insomma si tratta di azioni

pratiche, del rispetto dei precetti13. Nel libro della Genesi, Giuseppe

va in prigione in conseguenza del suo rifiuto di consumare un adul-

13. Traduco con “precetti” il concetto ebraico di mitzvot, cioè quell’insieme molto fitto di regole (la tradizione ne numera 613) che avvolgono tutta la vita ebraica determi- nandone la dimensione etica e sociale come quella liturgica e “religiosa”.

terio con la moglie di Putifar, che egli rifiuta citando esplicitamente la legge divina (Gen. 39:6–20):

Ora Giuseppe era bello di forma e avvenente di aspetto. 7 Dopo questi fatti, la moglie del padrone gettò gli occhi su Giuseppe e gli disse: “Unisciti a me!”. 8 Ma egli rifiutò e disse alla moglie del suo padrone: “Vedi, il mio signore non mi domanda conto di quanto è nella sua casa e mi ha dato in mano tutti i suoi averi. 9 Lui stesso non conta più di me in questa casa; non mi ha proibito nulla, se non te, perché sei sua moglie. E come potrei fare questo grande male e peccare contro Dio?”. […] . 17 Allora gli disse le stesse cose: “Quel servo ebreo, che tu ci hai condotto in casa, mi si è accostato per scher- zare con me. 18 Ma appena io ho gridato e ho chiamato, ha abbandonato la veste presso di me ed è fuggito fuori”. 19 Quando il padrone udì le parole di sua moglie che gli parlava: “Proprio così mi ha fatto il tuo servo!”, si accese d’ira. 20 Il padrone di Giuseppe lo prese e lo mise nella prigione, dove erano detenuti i carcerati del re. Così egli rimase là in prigione.

Più complicato e interessante è il caso assai più tardo (tanto nella cronologia che nell’ordine testuale) di Daniele, il quale con i suoi compagni incorre in almeno quattro situazioni di pericolo legate alla sua appartenenza religiosa. In primo luogo rifiuta di “contaminarsi con le vivande del re e con il vino dei suoi banchetti e chiede al capo dei funzionari di non obbligarlo a contaminarsi” (Dan. 1:8) Riesce a ottenere di “mangiare verdure” (così in genere suonano le traduzioni, ma il testo è più estremo, parla di “semi”) e bere acqua, mettendo a rischio il suo protettore che era stato inca- ricato di nutrirlo bene, ma miracolosamente resta sano con la sua dieta assolutamente kasher14. Poi i suoi compagni vengono gettati

in una fornace perché si rifiutano di adorare una statua del re, ma ne escono sani e salvi (cap. 3). In seguito (cap. 6) Dario impone di non offrire preghiere ad altri se non lui stesso per trenta giorni, Daniele non obbedisce, prega Dio e viene gettato nella fossa dei leoni, ma anche lui si salva senza problemi. Viene poi sottoposto

14. Kasher in ebraico significa “adatto”. La parola è usata per designare i cibi che rispettano le regole alimentari tradizionali e in particolare le interdizioni che vi sono stabilite; cfr. Volli (2016).

di nuovo alla medesima prova, su pressione dei Babilonesi, nel ca- pitolo quattordicesimo.

Sembrerebbe che almeno negli ultimi tre episodi si sia vicini alla fattispecie del martirio, perché Daniele e i suoi compagni sono con- dannati a morte per evitare di piegarsi agli idoli. Ma la logica del testo è molto diversa: questi “martiri” non soffrono, non si turbano, non rischiano davvero la vita, non credono nemmeno di essere in pericolo, non desiderano morire. Quel che viene sottolineato qui non è un coraggio estremo o uno stoicismo senza pari, ma l’onnipo- tenza divina e la serena decisione degli ebrei a rispettarne la legge. Il clima è del tutto lontano dall’iperrealismo della sofferenza e della morte delle agiografie, somiglia piuttosto alla tranquillità di certi miracoli fiabeschi. Questo è chiarissimo nella risposta che i tre com- pagni di Daniele danno nell’episodio della fornace e nel modo in cui l’episodio si sviluppa:

3:16 Sadrac, Mesac e Abdènego risposero al re Nabucodònosor: “Noi non abbiamo bisogno di darti alcuna risposta in proposito; 17 sappi però che il nostro Dio, che serviamo, può liberarci dalla fornace di fuoco ardente e dal- la tua mano, o re. 18 Ma anche se non ci liberasse, sappi, o re, che noi non serviremo mai i tuoi dèi e non adoreremo la statua d’oro che tu hai eretto” […] 91 Allora il re Nabucodònosor rimase stupito e alzatosi in fretta si rivol- se ai suoi ministri: “Non abbiamo noi gettato tre uomini legati in mezzo al fuoco?”. “Certo, o re”, risposero. 92 Egli soggiunse: “Ecco, io vedo quattro uomini sciolti, i quali camminano in mezzo al fuoco, senza subirne alcun danno; anzi il quarto è simile nell’aspetto a un figlio di dèi”. 93 Allora Na- bucodònosor si accostò alla bocca della fornace di fuoco ardente e prese a dire: “Sadrac, Mesac, Abdènego, servi del Dio altissimo, uscite, venite fuori”. Allora Sadrac, Mesac e Abdènego uscirono dal fuoco. 94 Quindi i sàtrapi, i governatori, i prefetti e i ministri del re si radunarono e, guardando quegli uomini, videro che sopra i loro corpi il fuoco non aveva avuto nessun pote- re, che neppure un capello del loro capo era stato bruciato e i loro mantelli non erano stati toccati e neppure l’odore del fuoco era penetrato in essi. 95 Nabucodònosor prese a dire: “Benedetto il Dio di Sadrac, Mesac e Abdène- go, il quale ha mandato il suo angelo e ha liberato i servi che hanno confi- dato in lui; hanno trasgredito il comando del re e hanno esposto i loro corpi per non servire e per non adorare alcun altro dio all’infuori del loro Dio”.

Ciò che merita di essere sottolineato in questo testo esemplare è che i fedeli non pensano di diventare “martiri”, non cercano la mor- te, magari sono disposti ad accettarla se essa viene, ma non danno mostra di volere il martirio. E il miracolo che avviene li lascia vivi e intatti a dedicarsi alla loro vita. In generale, anche quando compare, il martirio non è trattato dalla tradizione ebraica come una condi- zione da ricercare, anzi, come vedremo, vi sono forti limiti alla sua legittimità.

Prima di affrontare questi limiti, è il caso di vedere ancora un esempio di possibile martirio ante litteram nella letteratura apolo- getica dell’ebraismo antico, studiando due brani del Secondo libro

dei Maccabei. Il primo riguarda uno dei capi degli scribi (τις τῶν

πρωτευόντων γραμματέων ἀνὴρ) che nell’ambito di un’invasione “di dissolutezze e gozzoviglie da parte dei pagani, che gavazzava- no con le prostitute ed entro i sacri portici si univano a donne e vi introducevano le cose più sconvenienti viene obbligato a violare la legge”, ma rifiuta di piegarsi (2 Mac. 6):

18 Un tale Elazer, uno degli scribi più stimati, uomo già avanti negli anni e molto dignitoso nell’aspetto della persona, veniva costretto ad aprire la bocca e ad ingoiare carne suina. 19 Ma egli, preferendo una morte glorio- sa a una vita ignominiosa, s’incamminò volontariamente al supplizio, 20 sputando il boccone e comportandosi come conviene a coloro che sono pronti ad allontanarsi da quanto non è lecito gustare per brama di soprav- vivere.

C’è un tentativo di trovare un compromesso inducendolo a bara- re sulla violazione che cercano di imporgli.

21 Coloro che erano incaricati dell’illecito banchetto sacrificale, in nome della familiarità di antica data che avevano con quest’uomo, lo tirarono in disparte e lo pregarono di prendere la carne di cui era lecito cibarsi, preparata da lui stesso, e fingere di mangiare la porzione delle carni sacri- ficate imposta dal re, 22 perché, agendo a questo modo, avrebbe sfuggito la morte e approfittato di questo atto di clemenza in nome dell’antica amicizia che aveva con loro. 23 Ma egli, facendo un nobile ragionamento,

degno della sua età e del prestigio della vecchiaia a cui si aggiungeva la veneranda canizie, e della condotta irreprensibile tenuta fin da fanciul- lo, e degno specialmente delle sante leggi stabilite da Dio, rispose subito dicendo che lo mandassero alla morte. […] 30 Mentre stava per morire sotto i colpi, disse tra i gemiti: “Il Signore, cui appartiene la sacra scienza, sa bene che, potendo sfuggire alla morte, soffro nel corpo atroci dolori sotto i flagelli, ma nell’anima sopporto volentieri tutto questo per il timo- re di lui”. 31 In tal modo egli morì, lasciando non solo ai giovani ma alla grande maggioranza del popolo la sua morte come esempio di generosità e ricordo di fortezza.

La parola chiave in questa storia è “esempio”. Elazer si rende con- to che ciò che conta non è l’atto in sé ma il messaggio che dà gli altri e dunque rifiuta non solo di compierlo, ma anche di fingere di farlo. Del resto, in generale, anche in circostanze in cui non vi è oppressio- ne agli ebrei è proibito non solo violare i precetti ma anche compiere atti che possano sembrare violazioni.

Il secondo brano, celeberrimo, spesso viene intitolato proprio “martirio dei sette fratelli” (2 Mac. 7):

1 Ci fu anche il caso di sette fratelli che, presi insieme alla loro madre, fu- rono costretti dal re a forza di flagelli e nerbate a cibarsi di carni suine proi- bite. 2 Uno di essi, facendosi interprete di tutti, disse: “Che cosa cerchi di indagare o sapere da noi? Siamo pronti a morire piuttosto che trasgredire le patrie leggi”. 3 Allora il re irritato comandò di mettere al fuoco padelle e caldaie. 4 Diventate queste subito roventi, il re comandò di tagliare la lingua, di scorticare e tagliare le estremità a quello che era stato loro portavoce, sotto gli occhi degli altri fratelli e della madre. 5 Quando quegli fu mutilato di tutte le membra, comandò di accostarlo al fuoco e di arrostirlo mentre era ancora vivo. Mentre il fumo si spandeva largamente all’intorno della padella, gli altri si esortavano a vicenda con la loro madre a morire da forti, esclamando 6 “Il Signore Dio ci vede dall’alto e in tutta verità ci dà conforto, precisamente come dichiarò Mosè nel canto della protesta: Egli si muoverà a compassione dei suoi servi”. 7 Venuto meno il primo, in egual modo tra- evano allo scherno il secondo e, strappatagli la pelle del capo con i capelli, gli domandavano: “Sei disposto a mangiare, prima che il tuo corpo venga straziato in ogni suo membro?”. […] Dopo costui fu torturato il terzo, che alla loro richiesta mise fuori prontamente la lingua e stese con coraggio le

mani 11 e disse dignitosamente: “Da Dio ho queste membra e, per le sue leggi, le disprezzo, ma da lui spero di riaverle di nuovo”; 12 così lo stesso re e i suoi dignitari rimasero colpiti dalla fierezza del giovinetto, che non teneva in nessun conto le torture. 13 Fatto morire anche costui, si misero a stra- ziare il quarto con gli stessi tormenti. […] Subito dopo, fu condotto avanti il quinto e fu torturato. […] Dopo di lui presero il sesto; mentre stava per morire, egli disse: “Non illuderti stoltamente; noi soffriamo queste cose per causa nostra, perché abbiamo peccato contro il nostro Dio; perciò ci succe- dono cose che muovono a meraviglia. 19 Ma tu non credere di andare impu- nito dopo aver osato di combattere contro Dio”. [… Quanto al settimo] 39 Il re, divenuto furibondo, si sfogò su costui più crudelmente che sugli altri, sentendosi invelenito dallo scherno. 40 Così anche costui passò all’altra vita puro, confidando pienamente nel Signore. 41 Ultima dopo i figli, anche la madre incontrò la morte.

Vale la pena di notare che 2 Maccabei, anche se ne è evidente l’intenzione apologetica nei confronti dell’ebraismo e che lo colloca in parallelo con testi canonici quasi coetanei come Ester e Daniele,

non appartiene al canone biblico ebraico (e dunque neppure a quello protestante che ne riprende le esclusioni) ma solo a quello cattolico e di diversi cristianesimi ortodossi. Il testo, della fine del II secolo prima della nostra era, fu scritto direttamente in greco per un pub- blico ebraico probabilmente residente in Egitto e si presenta come il riassunto di un’opera in cinque libri di un certo Giasone di Cirene, autore del quale al di fuori di questa citazione non si sa nulla. Fu introdotto nella grande traduzione dei LXX e per questo ha avu- to peso in ambiente cristiano, probabilmente fungendo in seguito anche da modello per le agiografie di martirio protocristiane, ma non fu mai ammesso nel canone ebraico, come non lo furono gli altri libri dei Maccabei, probabilmente per l’esaltazione che essi con- tengono della dinastia asmonaica, condannata invece dagli ambienti rabbinici che definirono il canone.

I due brani sono evidentemente in relazione fra loro, non solo per- ché consecutivi (la divisione in capitoli dei libri biblici risale solo al 1226, per opera dell’arcivescovo di Canterbury Stephen Langton). Il loro andamento retorico col tentativo di blandizie, il rifiuto con di-

scorso della vittima e la descrizione orribile e grottesca delle tortu- re, segue esattamente la stessa traccia. Elazer viene spesso presentato nell’agiografia cristiana successiva come il maestro o addirittura come il padre dei sette fratelli, fondendo dunque anche tematicamente i due episodi. Ma, soprattutto, uguale è l’oggetto del tentativo di coazione e del rifiuto di “martiri”, che non riguarda però materia di “fede” e nep- pure in generale di un atto di preghiera o di riconoscimento di divinità, come sarà per i martiri cristiani di fronte al culto degli imperatori. L’oggetto del contendere non è teologico ma riguarda il rispetto delle regole alimentari. Rispetto al nostro schema delle storie di martirio questa è una differenza importante: ciò che Antioco IV, il cattivo so- vrano ellenistico, cerca di togliere agli ebrei non è una fede immate- riale, ma un assai più concreto rispetto delle regole di vita ebraiche, che come si legge nel primo brano può anche essere forzato fisicamente introducendo con violenza nella bocca dei “martiri” la carne proibita.

Sia il vecchio scriba, sia i sette giovani sono uccisi per essersi rifiu- tati di mangiare maiale, cioè di violare una regola che alla sensibili- tà attuale appare piuttosto relativa alla sfera del costume che della religione, tant’è vero che nel cristianesimo la norma sulla kasherut alimentare è uno dei primi precetti aboliti sulla via della separa- zione dall’ebraismo, a partire dal sogno di Pietro in cui Dio stesso lo autorizza a mangiare anche gli animali proibiti (Atti 10:1–48) o addirittura dal detto di Gesù riferito da Matteo 15:11; “Non è quel che entra nella bocca che contamina l’uomo; ma quel che esce dalla bocca, ecco quel che contamina l’uomo”. Invece in questo testo e negli altri paralleli, come quello di Daniele, la questione delle interdi- zioni alimentari è considerata così identitaria, insieme con il rispetto della santità del Tempio, da giustificare, in questi scritti apologeti- ci, la morte più orribile e la guerra più feroce. Se i personaggi di 2 Maccabei vanno considerati dei martiri, essi non lo sono in quanto testimoni della fede, ma come custodi della “ortoprassi”15, del rispet-

15. L’espressione ebraica tradizionale a questo proposito, significativa per la sua scelta semantica è shomer mitzvot, cioè “custode dei precetti”.

to dei precetti di vita prescritti dalla Torah e in definitiva della loro identità allo stesso tempo etnica e religiosa.

Una storia certamente derivata da questa è raccontata nel trattato

Gittin del Talmud babilonese al foglio 57b:

Portarono il primo dei figli della donna davanti all’imperatore e gli dis- sero: Adorate l’idolo. Disse loro: Non posso farlo, poiché è scritto nella Torah: “Io sono il Signore Dio tuo” (Esodo 20:2). Lo presero immediata- mente e lo uccisero. Poi portarono un altro figlio davanti all’imperatore e gli dissero: Adora l’idolo. Disse loro: Non posso farlo, come è scritto nella Torah: “Non avrai altri dei al mio fianco” (Esodo 20:3).

La stessa sorte attende gli altri fratelli, ampiamente raccontata nel brano con ricchezza delle diverse citazioni testuali usate dai fratelli per giustificare il loro rifiuto. Qui, al posto del re ellenistico Antiochio IV, protagonista della versione di 2 Maccabei, vi è un imperatore romano. Sono passati almeno tre secoli dato che la storia è attribuita a Rabbi Yehuda (presumibilmente Judah bar Ilai, che visse fra il 135 e il 170)16.

Ma soprattutto il rifiuto dei sette fratelli e della madre riguarda qui non il cibo proibito bensì la richiesta di offrire preghiere a un idolo, che riflette forse il precisarsi della regolamentazione ebraica del problema, che come vedremo è definita nello stesso Talmud. Anche in questo caso però sarebbe sbagliato leggere l’episodio come un esempio di

16. Le attribuzioni delle opinioni ai vari autori riveste grandissima importanza nel Talmud, una composizione collettiva basata su tradizioni orali attribuite ai vari rabbini, e dunque in generale esse vanno considerate attendibili. Bisogna considerare però che la sua “pubblicazione” (naturalmente manoscritta) è datata fra il VII e il IX secolo, a secon- da delle opinioni (cfr. Weiss Halivni 2013) e dunque questa datazione e le altre che riferirò in seguito per altre opinioni talmudiche sono testimoniate solo dall’attribuzione recepita dalla tradizione e non sono storicamente testimoniate in maniera indipendente, tant’è vero che anche nel Talmud esse sono talvolta messe in dubbio. Bisogna considerare che questa narrazione e anche le regole sul martirio di cui riferirò in seguito non compaiono nello strato più antico e apodittico del Talmud (la Mishnà, “pubblicata” alla fine del II secolo) ma solo nel testo più recente e dialettico della Ghemarà, anche se gli autori citati appartengono al tempo della Mishnà. Dato il carattere piuttosto laconico e apodittico di questo testo più antico, tale situazione è molto consueta: quel che sappiamo delle opinio- ni individuali dei maestri della Mishnà è riportato da discussioni più recenti.

martirio per la fede. Quel che i fratelli vogliono evitare non è di perdere la loro concezione del divino, che non pare loro in discussione, come si vede dalle citazioni che fanno, ma di commettere una trasgressione grave come un atto il cui significato oggettivo (perché così percepito, al di là delle loro convinzioni) sarebbe idolatrico. L’episodio è allineato inoltre nel testo talmudico con numerosi altri esempi di oppressione romana del popolo ebraico, come la distruzione di Gerusalemme o la sanguinosissima repressione della rivolta di Bar Kokhba del 135. Sono citati anche esempi di suicidi di massa per opporsi alla volontà degli occupanti romani di avviare gruppi di giovani alla prostituzione. Quel che si vuol sottolineare qui dunque non è il “martirio” dei fratelli ma la crudeltà dell’oppressore romano che fa stragi e cerca di corrompere sul piano morale le sue vittime.

Nel documento Lexia 31-32 (pagine 35-43)