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Rifiuto religioso del “martirio” e scelta religiosa del “martirio”

Nel documento Lexia 31-32 (pagine 43-49)

Martirio e Keddushat Hashem

4. Rifiuto religioso del “martirio” e scelta religiosa del “martirio”

Con questa citazione siamo arrivati a una terza fase della formazione della nozione ebraica di martirio o piuttosto di Keddushat Hashem. La

prima fase, quella della narrazione della Torah e degli scritti storici fino alla distruzione del Primo Tempio, ignora sostanzialmente il proble- ma, come abbiamo visto. La seconda fase si apre con l’esilio babilonese (in particolare il libro di Daniele), prosegue con la diaspora persiana (il libro di Ester)17 e si conclude con il travagliato periodo dei regni

ellenistici (cui si riferiscono i vari libri dei Maccabei). È un periodo in cui è predominante quella condizione politica che costituisce la base materiale su cui si profila la necessità del sacrificio di sé per ragioni re- ligiose, cioè la dipendenza fisica e giuridica da un potere straniero violento e deciso a sradicare l’ebraismo. Senza che si concretizzi interamente la figura semiotica del martirio, per le ragioni che ho detto prima, abbia- mo visto che nei testi dell’epoca e di quella immediatamente succes- siva non mancano gli exempla di resistenza identitaria fino alla morte.

La terza fase è quella del dominio romano in Terra d’Israele e ri- guarda soprattutto l’ultima metà del primo secolo precedente alla nostra epoca e i due primi secoli di questa. Anche qui vi è un potere violento e senza freni, quello romano, progressivamente deciso a distruggere il popolo ebraico, contro cui vi sono rivolte in continua- zione, seguite da repressioni via via sempre più di massa, esecuzio- ni terribili, ancora altre rivolte. Se trascuriamo per un momento il suo enorme senso religioso, anche la selvaggia esecuzione di Gesù di Nazareth rientra in una fitta serie di episodi repressivi analoghi esercitati dagli occupanti romani su chiunque apparisse portatore di una possibile restaurazione dell’identità ebraica, come si ricava dal “titulus Cruci” riportato dai Vangeli (ὁ βασιλεὺς τῶν Ἰουδαίων: Mc. 15:26 e passi paralleli).

Vale la pena di citare una testimonianza fra le molte di questo clima di terrore e di sacrificio di sé, contenuta in un commento rab- binico di epoca talmudica al libro dell’Esodo chiamato Mekhilta of

Rabbi Ishmael18. Il versetto 20:6 (la parte finale del secondo coman-

damento del Decalogo, dove Dio afferma di “usare bontà fino alla millesima generazione per coloro che mi amano e che osservano i miei precetti”) è spiegato così:

“Per coloro che mi amano”: nostro padre Abramo e simili. “E osservano i miei precetti”: i profeti e gli anziani. R. Nathan dice: “per coloro che mi amano e osservano i miei precetti”: gli ebrei che dimorano in Terra d’Isra- ele e danno la vita per i precetti. Per quale motivo sei condotto al patibolo? Perché ho circonciso mio figlio. Per quale motivo sei condotto al rogo? Perché ho letto la Torah. Per quale motivo sei condotto alla crocifissione? Perché ho mangiato il pane azzimo. Per quale motivo sei percosso dal flagello? Perché ho agitato il lulav.19

18. Cfr. https://www.sefaria.org/Mekhilta_d’Rabbi_Yishmael.20.6.1.

19. Tutte pratiche di religiosità ebraica connesse a diverse occasioni. Il rabbi Na- than citato è uno dei principali maestri del periodo della rivolta di Bar Kochbah (135 EV). Il suo discorso (o il discorso che gli è attribuito) va preso dunque come una testimonian- za letterale, non come una iperbole retorica.

Ma oltre a queste denunce generali vi sono gli episodi canonici che riguardano una serie di esecuzioni di grandi rabbini, colpevoli di aver continuato a insegnare la dottrina religiosa ebraica proibita dai romani. Di particolare importanza tradizionale sono quelli citati in un testo chiamato Midrash Eleh Ezkerah, ripreso poi da un poema liturgi- co medievale entrato nella liturgia del Giorno dell’Espiazione, in cui si riprende la storia degli Asarah Harugei Malchut, i “dieci uccisi dal regno”20 ai tempi dell’imperatore Adriano21:

Tra le numerose vittime delle persecuzioni di Adriano, la tradizione no- mina dieci grandi maestri che hanno sofferto il martirio per aver istru- ito i loro allievi nella Legge, disobbedendo a un editto dell’imperatore romano. Sono indicati nella letteratura aggadica22 come ‘Asarah Haruge

Malkut. L’immaginario popolare si impadronì di questo episodio della sto- ria ebraica e lo abbellì con varie leggende che mettevano in relazione le virtù dei martiri e la fortezza mostrata da loro durante la loro esecuzione. Queste leggende divennero nel periodo geonico il soggetto di uno spe- ciale midrash: il Midrash ‘Asarah Haruge Malkut, o Midrash Eleh Ezkerah23 .

Secondo il testo, i primi due giustiziati furono Rabban Shimon ben Gamliel e rabbi Ishmael, che era il Kohen Gadol (Sommo Sacerdote). Vale la pena di concentrarsi su uno di questi casi, per il suo contenuto religioso:

20. L’uso del termine malkhut (“regno”) è interessante perché normalmente nei con- testi religiosi questo termine tratto dalla politica è impiegato per definire il rapporto di Dio col mondo, la sua “regalità”, che il fedele deve riconoscere e testimoniare. Qui invece si torna a un senso politico, parlando dell’impero romano. I due regni sono insomma con- trapposti secondo una mossa retorica che non è rara e si ritrova anche in ambiente cristiano nei Vangeli (“il mio regno non è di questo mondo”), in Agostino di Ippona e altrove.

21. Gli stessi fatti si ritrovano in un testo molto antico, il commento rabbinico al libro delle Lamentazioni, Eichah Rabbah. Un aspetto originale del Midrash Eleh Ezkerah è la ragione che viene proposta per le sofferenze dei rabbini, che secondo questo testo sarebbero stati chiamati da Adriano a espiare la colpa dei fratelli di Giuseppe, quando lo vendettero alla carovana che lo portò in Egitto (Gen. 37).

22. Cioè in senso lato narrativa e omiletica, in contrapposizione ai testi “halakhici”, che hanno contenuto giuridico.

Il quarto martire fu Anania ben Teradion, che venne avvolto in un rotolo della Legge e collocato su una pira di legno verde; per prolungare la sua agonia della lana bagnata è fu posta sul suo petto. “Guai a me”, escla- mò la figlia, “che devo vederti in tali circostanze terribili!” “Dovrei essere davvero disperato”, rispose il martire, “se fossi stato bruciato da solo. Ma dal momento che il rotolo della Torah sta bruciando con me, il Potere che può vendicare l’offesa contro la Legge vendicherà anche me”. I suoi discepoli poi chiesero: “Maestro, che cosa vedi?” Egli rispose: “Vedo la pergamena bruciare; ma le lettere della legge salgono verso l’alto”. I suoi discepoli poi gli consigliarono di aprire la bocca di modo che il fuoco po- tesse entrare e porre fine quanto prima alle sue sofferenze; ma egli rifiutò di farlo, dicendo: “E meglio che Colui che ha mi dato lo spirito provveda a portarlo via: nessuno può accelerare la sua morte”. Allora il carnefice rimosse la lana, e alimentò la fiamma, accelerando così la fine, e si gettò poi lui stesso nel fuoco (Ibidem).

Vediamo qui la dinamica fra rifiuto religioso del suicidio e scelta religiosa del martirio: non bisogna affrettare la propria morte, dice Rav Aanania, ma neanche rifiutarla; il che significa anche accettarne le sofferenze. L’immagine delle lettere che salgono al cielo mentre la pergamena brucia, cioè della persistenza del testo sacro in mez- zo alle persecuzioni, è fra quelle più caratteristiche della letteratura ebraica sul tema.

Ma il “martire” più conosciuto in questo gruppo è Rabbi Akivà, forse il più autorevole e citato fra i maestri del Talmud, che fu tortu- rato a morte strappandogli la pelle con pettini di ferro. Nonostante il dolore lo consumasse, fu ancora in grado di proclamare la santità di- vina recitando lo Shemà. Anche questo gesto ha un valore esempla- re. La narrazione della morte di Rabbi Akivà compare nel Talmud a proposito di una discussione teorica sulla necessità di benedire an- che il male che viene da Dio, che parte dalla prima Mishnà del cap. 9 del trattato Berakhot del Talmud babilonese (foglio 58a).

Ognuno ha il dovere di benedire Dio sul male così come Lo benedice sul bene, come è detto “E amerai il Signore Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutte le tue forze” (Dt. 6: 5). “Con tutto il tuo

cuore”, con entrambi gli istinti, l’istinto del bene e l’istinto del male. “Con tutta la tua anima”, perfino se Egli ti priva della tua anima [della tua vita]. “Con tutte le tue forze”, con tutta la tua ricchezza.

La narrazione del supplizio del maestro e il suo senso teorico me- ritano di essere seguiti nel dettaglio (ivi, 61b).

Rabbi Akivà interpretò le parole “[lo amerai] con tutta la tua anima” nel sen- so di “[lo amerai] perfino se Egli si prende la tua anima”. I nostri maestri hanno insegnato: una volta il regno del male emise un decreto che proibiva agli ebrei di occuparsi di Torah. Pappus ben Yehudah venne e trovò Rab- bi Akivà che raccoglieva folle in pubblico e si occupava di Torah. Gli disse: “Non hai paura del regno?”. [Rispose Rabbi Akivà] “Adesso stiamo qui e stu- diamo Torah. Se avessimo paura ora quando stiamo seduti e ci occupiamo di Torah — della quale è scritto ‘è la tua vita e la lunghezza dei tuoi giorni’ (Deuteronomio 30, 20) — quanto peggio sarebbe se ne tralasciassimo lo stu- dio!”. […] Quando Rabbi Akivà venne portato fuori per l’esecuzione, era l’ora della recita dello Shemà. In tal modo, mentre gli strappavano la carne con pettini di ferro, lui accettava su di sé il giogo del regno dei cieli recitando lo Shemà. I suoi studenti gli dissero: “Oh, nostro maestro, perfino in questo momento?”. Egli disse loro: “In tutta la mia vita mi sono arrovellato attorno a questi versi [e la loro esatta interpretazione], ‘con tutta la tua anima’ cioè perfino se Egli si prende la tua anima. Mi dicevo: quando avrò l’opportunità di compiere ciò? Ora che ho l’opportunità di praticarlo, perché non dovrei farlo?”. [Recitando lo Shemà] egli allungò l’ultima parola “Uno” di “Ascolta Israele, il Signore è nostro Dio, il Signore è Uno”, finché la sua anima non se ne andò mentre diceva “Uno”. Una voce dal cielo arrivò e proclamò: “Che tu sia felice, Rabbi Akivà, poiché la tua anima se n’è andata con la parola ‘Uno’”.

La morte di Rabbi Akivà è quanto di più simile al martirio si trovi nella tradizione ebraica, anche per il suo legame alla dichiarazione di fede dello Shemà. Ad Akivà, come agli altri nove maestri degli ‘Asa-

rah Haruge Malkut, non si chiede una ritrattazione dell’ebraismo, che probabilmente è ancora vista come impossibile e insensata da un im- pero retto secondo la cultura antica della religione civica (siamo nel 135). Quel che subiscono è la durissima punizione per aver violato gli ordini dell’impero, in un certo senso analoga al caso di Daniele

di cinque secoli prima. Però gli altri termini ci sono tutti, compreso l’intervento divino che assicura la sanzione positiva finale dell’Olam

habbà “il mondo che verrà”, che è la denominazione ebraica della salvezza finale. Commenta il moderno biografo di Rabbi Akivà, Ber- ry W. Holtz (2017, p. 172):

In ogni caso il giudizio della voce celestiale non finisce la storia. Akivà è stato di certo benedetto perché ha terminato la sua vita pronunciando l’unicità di Dio, ma gli angeli del cielo che osservano la scena dall’alto protestano costernati con Dio: “Questa è la Torah e questo il suo ricono- scimento!?”. Com’è possibile che il grande e saggio Akivà possa subire una fine così tremenda per mano di quegli uomini malvagi? Dio risponde loro assicurando che Akivà avrà una vita eterna, una replica che dovrebbe soddisfare il malcontento degli angeli. A questo punto si ode un’altra vol- ta una voce celeste che proclama: “Che tu sia felice, Rabbi Akivà, che sei invitato alla vita del mondo che verrà” (b. Berakhot 61b).

La scelta di Rabbi Akivà non è passata peraltro senza discussioni nel mondo ebraico. Vale la pena di citare una riflessione critica di Elie Wiesel, un autore che in genere mostra la più alta reverenza e comprensione per le azioni (o le narrazioni di azioni) dei maestri talmudici.

Sono disorientato dalla passività di Rabbi Akivà durante la sua esecuzio- ne. Sembra aver accolto la sofferenza e la morte. Piuttosto che ribellarsi e trasformare il suo dolore in un’insurrezione esistenziale, la sua punizione in un atto di protesta suprema, decise di sottomettersi e pregare. Piuttosto che formulare la domanda di tutte le domande — quella del ruolo della giustizia divina nell’angoscia umana — formulò solo la sua risposta. E per qualche tempo essa non mi è piaciuta. Per quanto ammirassi e rive- rissi Rabbi Akivà, […] non potei fare a meno di vederlo come un martire che era attratto dal martirio […] Il fatto che innumerevoli generazioni di vittime e martiri abbiano reclamato la loro parentela con Rabbi Akivà ha reso il problema ancora più acuto, più impegnativo. Chissà? Se avesse parlato, se avesse rivelato la sua rabbia, se avesse protestato contro quello che gli stava succedendo, il suo destino — e il nostro — avrebbe potuto seguire un corso diverso… Ricordo le processioni notturne delle famiglie

ebree che camminavano verso la morte — sembrava che anche loro, come Rabbi Akivà, si offrissero all’altare. Sembrava che anche loro avessero ri- nunciato alla vita — molti di loro come aveva fatto lui, con lo Shemà sulle loro labbra. Perché Rabbi Akivà non ha optato per la sfida? Perché non ha proclamato il suo amore per la vita fino al momento in cui essa gli è sta- ta portata via? Perché non piangeva invece di rallegrarsi? Non pensava che morire volentieri per la propria fede avrebbe potuto — eventualmente — essere interpretato come un elemento di debolezza in quella fede? Che tipo di legge è la legge che porta sofferenza e crudeltà su coloro che lo servono con tutte le loro forze e con tutta la loro anima? (Wiesel 1991, pp. 225–226)

Come emerge dal testo, Wiesel, sopravvissuto alla Shoà, si ribella alla passività presunta o reale di quelle vittime del nazismo, soprat- tutto delle comunità ortodosse, che non si ribellarono di fronte al genocidio ma lo subirono come una prova. È un sentimento diffuso in molti ambienti ebraici che ha portato per esempio al rifiuto della terminologia di “olocausto”, dato che questo è il nome di un sacri- ficio offerto alla divinità, sostituito con il termine assai più neutro di Shoà, che significa “disastro”, come pure allo sdegno di molti per la ricostruzione di Hannah Arendt (1963), che addirittura insinuava l’idea di una collaborazione delle vittime coi carnefici. Non è questo il nostro tema, ma va detto che ormai si riconosce largamente che anche la mitezza delle vittime religiose e la loro persistenza nella pratica dell’ebraismo sotto l’attacco dei carnefici nazisti costituì una forma di resistenza morale. Su questo punto è utile la discussione puntuale che Joseph Polak (2013) fa dell’argomentazione emotiva di Wiesel. C’è comunque una ritrosia o un rifiuto del concetto di martirio che è radicato nella tradizione ebraica e che ora dobbiamo brevemente esaminare.

Nel documento Lexia 31-32 (pagine 43-49)