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La testimonianza di Cristo

Nel documento Lexia 31-32 (pagine 90-95)

Martirio e testimonianza L’ambivalenza del concetto cristiano di “martirio”

3. La testimonianza di Cristo

Sebbene sia nel mondo pagano che in quello giudaico del I e II secolo d.C. fosse già presente la concezione di una morte eroica per fedeltà ai principi ‒ ricordiamo la rilevanza culturale e letteraria di figure come Socrate28 e Lucrezia, o il valore che assunse nello stoicismo

la morte per la verità, ma anche la venerazione già diffusa in epoca precristiana della morte dei giusti all’interno del culto giudaico, e il racconto della morte dei Maccabei29 ‒ prima dell’avvento del cristia-

nesimo, il termine greco “μᾰ́ρτῠς” non era mai stato utilizzato per designare qualcuno che muore per una testimonianza. Rimane da capire come mai un termine giuridico, come vedremo tutt’altro che neutro, come quello di “testimone”, abbia subìto una tale torsione semantica caricandosi di significati teologici. Quello che negli Acta

Martyrum è adoperato contestualmente come un semplice termine giuridico è già presente e utilizzato in altro senso30, nel Vangelo di

Giovanni per indicare la figura di Giovanni (Gv 1,7) e negli Atti degli Apostoli per definire la figura di Stefano (At 22,20)31. In tutti e quat-

27. Cfr. Brown (1983).

28. In alcuni degli acta è menzionata la figura di Socrate, come virtuoso exemplum pagano; cfr. Bastiaensen (1987), “Acta Philae”, p. 293: “Filea rispose: “Non sacrifico. Io risparmio la mia anima. Poiché non solo i cristiani risparmiano la loro anima, ma persino i pagani; eccoti l’esempio di Socrate”.

29. Per un approfondito studio sull’influenza del 2 e 4 libro dei Maccabei sulla te- ologia dell’espiazione paolina, rimando alla tesi abbastanza radicale di Williams (2007). Per l’interpretazione del martirio come fenomeno giudeocristiano, appartenente sia alla nascita del cristianesimo, che a quella dell’ebraismo, rimando invece a Boyarin (1999).

30. Per un’analisi accurata della presenza del termine nei testi neotestamentari, ri- mandiamo a Brox (1961).

31. “οὗτος ἦλθεν εἰς μαρτυρίαν, ἵνα μαρτυρήσῃ περὶ τοῦ φωτός, ἵνα πάντες πιστεύσωσιν δι’ αὐτοῦ” (Gv 1:7); “καὶ ὅτε ἐξεχύννετο τὸ αἷμα Στεφάνου τοῦ μάρτυρός

tro i Vangeli appare, inoltre, la parola “testimonianza” nel discorso di Gesù riferito alle persecuzioni che gli apostoli avrebbero subito per testimoniare in suo nome32 e nell’Apocalisse di Giovanni il rife-

rimento alla testimonianza è spesso associato alla conseguenza della messa a morte dei martiri/testimoni di Cristo. Questi dati testuali sono di fondamentale importanza se si vuole ricostruire in senso archeologico la genealogia di questo concetto: gli acta martiriali, ol- tre alle più antiche lettere di Ignazio d’Antiochia, contengono infatti dei motivi teologici, che si possono ritenere già ampiamente diffusi presso le comunità cristiane del I e II sec., i quali giustificano l’inter- pretazione di un rapido passaggio, nell’uso del termine, dall’ambito genericamente giuridico a quello teologico33. Se è difficile, infatti,

stabilire a partire dai testi degli acta quando esattamente avvenne questa torsione semantica, è però facile capire dal contesto che i “testimoni” processati e condannati a morte venissero già da subito

σου, καὶ αὐτὸς ἤμην ἐφεστὼς καὶ συνευδοκῶν καὶ φυλάσσων τὰ ἱμάτια τῶν ἀναιρούντων αὐτόν” (At 22:20). È inoltre presente in Ap 17:6, in riferimento al sangue dei santi e dei testimoni: “καὶ εἶδον τὴν γυναῖκα μεθύουσαν ἐκ τοῦ αἵματος τῶν ἁγίων καὶ ἐκ τοῦ αἵματος τῶν μαρτύρων Ἰησοῦ”.

32. “Guardatevi dagli uomini, perché vi consegneranno ai tribunali e vi flagelle- ranno nelle loro sinagoghe; e sarete condotti davanti a governatori e re per causa mia, per dare testimonianza a loro e ai pagani. (καὶ ἐπὶ ἡγεμόνας δὲ καὶ βασιλεῖς ἀχθήσεσθε ἕνεκεν ἐμοῦ εἰς μαρτύριον αὐτοῖς καὶ τοῖς ἔθνεσιν)” (Mt 10:16–20); “Ma voi badate a voi stessi! Vi consegneranno ai sinedri, sarete percossi nelle sinagoghe e comparirete davanti a governatori e re per causa mia, per dare testimonianza a loro. (βλέπετε δὲ ὑμεῖς ἑαυτούς· παραδώσουσιν ὑμᾶς εἰς συνέδρια καὶ εἰς συναγωγὰς δαρήσεσθε καὶ ἐπὶ ἡγεμόνων καὶ βασιλέων σταθήσεσθε ἕνεκεν ἐμοῦ εἰς μαρτύριον αὐτοῖς)” (Mc 13:9); “Ma prima di tutto questo metteranno le mani su di voi e vi perseguiteranno, consegnandovi alle sinagoghe e alle prigioni, trascinandovi davanti a re e governatori, a causa del mio nome. Avrete allora occasione di dare testimonianza. (ἀποβήσεται ὑμῖν εἰς μαρτύριον)” (Lc 21:12–15); “Quando verrà il Paràclito, che io vi manderò dal Padre, lo Spirito della verità che procede dal Padre, egli darà testimonianza di me; e anche voi date testimonianza, perché siete con me fin dal principio. (Ὅταν ἔλθῃ ὁ παράκλητος ὃν ἐγὼ πέμψω ὑμῖν παρὰ τοῦ πατρός, τὸ πνεῦμα τῆς ἀληθείας ὃ παρὰ τοῦ πατρὸς ἐκπορεύεται, ἐκεῖνος μαρτυρήσει περὶ ἐμοῦ· καὶ ὑμεῖς δὲ μαρτυρεῖτε, ὅτι ἀπ’ ἀρχῆς μετ’ ἐμοῦ ἐστε)” (Gv 15:26–27).

33. Per un’analisi accurata della presenza del termine nei testi neotestamentari ri- mandiamo a Brox (1961).

percepiti come testimoni di Cristo, secondo la definizione paolina di 1Cor 1:634.

Già nelle primissime attestazioni di “μαρτυρία” si tende infatti ad innalzare il testimone, vittima della persecuzione, considerando- la nella sua santità ed elezione, a partire dall’idea che essa avesse un rapporto privilegiato e diretto con la dimensione trascendente del regno celeste35. Nei primissimi acta è dunque probabile che la parola

venisse utilizzata in un senso generico per definire l’atteggiamento di quei cristiani disposti a dar testimonianza di Cristo anche di fron- te alle minacce di tortura e di morte36. La morte veniva considerata

come una conseguenza possibile, ma non necessaria, dell’essere te-

stimoni di Cristo. Secondo la tradizionale tesi dello storico del cristia- nesimo Von Harnack37, le parole di testimonianza per Christum e pro

Christo, venivano considerate da chi assisteva ai processi per rediger- ne gli atti, come parole dello Spirito Santo e la morte dei testimoni,

34. “La testimonianza di Cristo si è stabilita tra voi così saldamente” (1 Cor 1:6). Prova di tale concezione paolina della testimonianza sono le numerose attestazioni del termine negli Acta Martyrum in riferimento alla figura di Cristo e alla gloria di Dio, in Bastiaensen (1987), “Martyrium Polycarpi”, p. 9: “i valorosissimi testimoni di Cristo”; “Martyrium Carpi, Papyli et Agathonicae”, p. 37: “Carpo e Papilo, testimoni di Cristo”; “Acta Iustini”, p. 57: “I santi testimoni rendendo gloria a Dio vennero al luogo solito delle esecuzioni e portarono a compimento la loro testimonianza con la professione di fede nel nostro Salvatore”; “Martyrium Lugdunensium”, p. 75: “quasi fosse Cristo in persona, egli pronunciò la retta testimonianza”.

35. Id., “Martyrium Polycarpi”, p. 9: “E, assorbiti nella grazia di Cristo, essi sprez- zavano i tormenti terreni, acquistandosi, in una sola ora, la vita eterna […] poiché non più uomini erano, ma angeli ormai”; “Martyrium Lugdunensium”, p. 67: “e fu accolto anch’egli nella schiera dei testimoni e fu fregiato dell’epiteto di Paracleto dei cristiani: ancora più di Zaccaria, aveva dentro di sé quel Paracleto, lo Spirito, che manifestò con la pienezza del suo amore, compiacendosi di offrire in difesa dei confratelli la propria stessa vita”.

36. Come dimostra l’esempio del “Martyrium Lugdunensium”, nel quale si dice del cristiano Attalo, che “aveva avuto ineccepibile addestramento nella disciplina cristia- na e fra noialtri era sempre stato testimone di verità”, ivi, p. 81 (corsivi miei).

37. “Ma la Chiesa nell’età precedente a Diocleziano possedeva una prova che sop- piantava tutte le altre: si trattava dei martiri nel loro insieme che la Chiesa vedeva succe- dersi in una catena ininterrotta”. Von Harnack (2007), p. 32; cfr. Ireneo, Adversus Haereses, IV, 33,9: “In ogni luogo e in ogni tempo la Chiesa invia una moltitudine di martiri al Padre”.

come continuazione della rivelazione di Cristo38. Secondo questa

interpretazione, le prime comunità cristiane credevano che Cristo e lo Spirito agissero attraverso i testimoni, stabilendo una perfetta continuità con gli eventi di rivelazione del Nuovo Testamento e in particolare con quelli narrati negli Atti degli Apostoli39. Senza dover

ricorrere ad una giustificazione teologica così forte, farò mia l’ipote- si di Simonetti, secondo il quale le composizioni dei primi acta han- no subito “più o meno consciamente e sempre indipendentemente l’uno dall’altro, l’influsso di situazioni analoghe che sono descritte nella Sacra Scrittura”40. Non possiamo, per motivi di sintesi, soffer-

marci su un’analisi dettagliata dei singoli testi degli Acta Martyrum. Ci basti però sottolineare il fatto che in essi, già da subito, venisse attribuito maggior valore a quei testimoni, i quali si dimostravano disposti ad affrontare la morte per testimoniare la fede41: una fede

che consisteva nella convinzione che la morte li avrebbe resi degni di appartenere al regno di Dio42. La vera testimonianza, resa secon-

do il volere di Dio, consiste infatti, nell’umile sottomissione alla sua

38. “Le storie dei martiri sono l’autentica continuazione delle storie e dei miracoli neotestamentari, dal momento che nel martirio si parla e si tratta di Cristo” Von Harnack (2007), p. 32.

39. Questa tesi serve a Von Harnack per giustificare il fatto che le parole espresse durante gli interrogatori venissero riportate negli acta in maniera attendibile e veritiera da parte dei testimoni oculari: “Chiunque avesse riportato il falso avrebbe attirato su di sé la grave accusa, per non parlare delle confutazioni spesso assai facili da procurarsi, di aver falsificato le parole dello Spirito e di Cristo. Quindi, la cosa più sicura era che, dove possibile, le relazioni dei confessori venissero procurate dagli stessi prigionieri; qualora non fosse stato possibile, si mandava un fratello affidabile a sentire la loro testimonianza; si cercava di essere presenti al processo e di consultare i protocolli che erano accessibili” Von Harnack (2007), p. 34.

40. “In esse comunque dobbiamo scorgere non tanto precisi modelli quanto una generica fonte d’ispirazione” Simonetti (1956), p. 57.

41. I martiri vengono percepiti da subito come figure eccezionali, come dimostra l’esempio di Perpetua, la quale viene posta gerarchicamente al di sopra del catechista Sa- tiro e in contatto diretto con la dimensione divina; cfr. Terranova (2011) e Urciuoli (2012). 42. “Il prefetto fa a Giustino: ‘Se sarai fustigato e decapitato, credi che salirai in cielo?’. Rispose Giustino: ‘Confido di ottenerlo con la mia perseveranza, se non cesso di perseverare’”, Bastiaensen (1987), “Acta Iustini”, p. 57.

volontà e nell’obbedienza fino alla morte43. Chi riusciva a rendere

testimonianza pubblica della propria appartenenza al gruppo cristia- no, senza cedere alla paura delle torture e della morte, ma anche senza inorgoglirsi della propria elezione44, veniva “coronato” con

la passione, privilegio riservato ai pochi. Nei racconti il contenuto

miracoloso è, infatti, sempre associato al momento della morte: Dio interviene affinché i suoi martiri/testimoni non brucino, non soffra- no, non muoiano, se non quando sia giunta l’ora in cui egli decide di accogliere la loro anima. Alcune caratteristiche che riguardano il martire/testimone, quali quelle del volto luminoso, della visione ul- tramondana, della corona, della gioia nella sofferenza, del sorriso o del profumo corporeo, sono inoltre legate in maniera indissociabile alla conseguenza della morte e anticipano, come nel caso di sogni premonitori o visioni, il loro destino. L’insistenza sulla passione sof- ferta dai martiri, esaltata da descrizioni dettagliate dei tentativi di distruzione del corpo e dal ripetuto paragone con il racconto della morte di Cristo45, indica inoltre la centralità che già da subito ven-

ne attribuita al dato fattuale della condanna a morte. Ricondurre la pratica del martirio alla semplice performance civica di una testimo- nianza pubblica, avente come scopo la persuasione nella speranza di un’assoluzione, non spiegherebbe la necessità, da parte di chi as- sisteva e redigeva gli atti, di inserire tali elementi narrativi nel testo, ma soprattutto di riportare e diffondere soltanto quegli episodi in cui i martiri/testimoni vennero effettivamente condannati. Ritengo che la complessità del concetto cristiano di “martirio” e la sua carica eversiva, non possano essere risolte e ricondotte a semplici forme pagane di protagonismo civico e giuridico, così come il termine stes-

43. Si pensi alle ripetute affermazioni: “Ringraziamo Dio”, o “Oggi stesso siamo martiri: grazie a Dio”, negli “Acta Martyrum Scilitanorum”, pronunciate dai martiri in seguito alla sentenza di morte; ivi, p. 103.

44. Non avrebbero senso sennò l’insistenza di Ignazio d’Antiochia nelle sue lettere, sulla propria umiltà e il suo dichiararsi indegno di una tale morte. cfr. Ignazio d’Antiochia e Policarpo di Smirne (2009).

45. Per un’indagine della circolazione del tema dell’imitatio Christi nelle prime fonti martiriali, cfr. Moss (2010).

so non può essere dedotto dal solo contesto processuale nel quale venne inizialmente adoperato. Non vi sono dubbi che con questa attenzione alla morte miracolosa si stesse già preparando quella successiva definizione di “martirio” che troverà, nel culto ufficiale proposto dalla Chiesa d’Occidente, la sua formulazione teologica più rigorosa. Si può, dunque, a buon diritto sostenere che ciò che fa, nelle prime attestazioni del termine greco, del “testimone” un “martire” sia un processo di appropriazione semantica, nel quale la relazione di significazione è determinata da un contenuto teologico già espresso nei primissimi racconti degli Acta Martyrum. Se il con- cetto cristiano di “martirio” conserva fino alla fine del III secolo un carattere ambivalente, per cui esso può significare anche la semplice “testimonianza di Cristo”, non significa però che esso non venisse già usato nel significato più generico di una “disponibilità a morire”. Già prima, dunque, che Tertulliano, considerato uno dei più efficaci fondatori del lessico latino cristiano, arrivasse a tradurre il termine greco, non con il suo equivalente giuridico romano “testis”, ma cre- ando il neologismo latino “martyr” e segnando dunque un nuovo orizzonte concettuale entro cui pensare il ruolo di tali figure emble- matiche.

Nel documento Lexia 31-32 (pagine 90-95)