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Conclusione: Liceità e necessità della Keddushat Hashem

Nel documento Lexia 31-32 (pagine 49-57)

Martirio e Keddushat Hashem

5. Conclusione: Liceità e necessità della Keddushat Hashem

Come abbiamo visto, nel supplizio di Rabbi Akivà e degli altri ma- estri, rispetto al modello narrativo del martirio, manca la dimensio-

ne della scelta immediatamente precedente all’esecuzione: i giochi sono fatti, i condannati non ricevono offerte o tentazioni o minacce per far loro cambiare posizione religiosa; il problema in quel mo- mento non è se morire ma come farlo. Naturalmente però, se si consi- dera il quadro più ampio, la decisione c’è stata, come testimonia an- che nel brano citato la discussione con Pappus ben Yehudah. Akivà ha deciso di violare la legge romana che proibiva l’insegnamento della Torah, sapendo benissimo quel che rischiava.

Ma è lecito rischiare la vita per affermare un principio religioso? Dal punto di vista di una cultura come la nostra influenzata dal cri- stianesimo e dall’esaltazione del martirio questa può sembrare una domanda strana, ma in ambiente ebraico essa è stata presa molto sul serio. La regolamentazione talmudica e la successiva normativa tradizionale include anche questo tema e discute in maniera molto fredda sulla legittimità della scelta di sacrificare la propria vita per- ché si basa su una tradizione religiosa che condanna il suicidio e con- sidera principio religioso fondamentale quello di “scegliere la vita” (Dt. 30:19), tanto da consentire la trasgressione di tutti gli obblighi e le interdizioni religiose (per esempio la proibizione di lavorare e usare macchine di sabato) nel caso in cui sia in gioco la sopravviven- za di una persona (la regola ha un nome: pikuach nefesh, “salvare una vita”).

Di fatto l’etica ebraica limita la Keddushat Hashem solo a condi-

zioni molto precise che vengono definite yehareg ve’al ya’avor (“che si faccia uccidere piuttosto che trasgredire”). Si può — anzi, si deve — sacrificare la propria vita solo per evitare di commettere omicidio, blasfemia e crimini sessuali (essenzialmente lo stupro, perché (Dt. 26: 26) “lo stupratore non è diverso da un uomo che si leva contro il suo vicino e lo uccide”) o di dover compiere pubblicamente atti che indichino l’abbandono della Legge. La formulazione più sintetica è contenuta nel trattato talmudico dedicato all’idolatria (Avodà Zarà 27b). Vale però la pena di prendere in considerazione la discussione più dettagliata sul tema in una pagina del trattato Sanhedrin del Tal- mud Babilonese (74 a–b), in cui si cita esplicitamente una riunione

e una votazione dei maestri della prima generazione della Mishnà (i rabbini più autorevoli dell’intera tradizione) “nella casa di Nitza nella città di Lod”, che probabilmente era la sede della casa di studio di Rabbi Akivà:

Riguardo a quasi tutte le trasgressioni nella Torah, se a una persona vie- ne detto: trasgredisci questo divieto e non sarai ucciso, è autorizzato a trasgredire quel divieto e non essere ucciso, perché la preservazione della propria vita prevale su tutte le proibizioni della Torah. Questa è la legge che riguarda tutti i divieti ad eccezione di quelli del culto degli idoli, delle relazioni sessuali proibite e degli omicidi. Per quanto riguarda questi di- vieti, bisogna farsi ammazzare piuttosto che trasgredirli.

Ci si chiede: Non si dovrebbe trasgredire anche la proibizione dell’adora- zione degli idoli per salvarsi la vita? Infatti vi è una tradizione che insegna [come nel testo del trattato di “Avodà Zara” citato sopra] quanto segue: Rabbi Yishmael ha affermato: Da dove deriva che se a una persona viene det- to: ‘adora un idolo e non sarai ucciso’, questa dovrebbe adorare l’idolo e non essere uccisa? Da un versetto biblico che afferma: “Osserverete i miei statuti e le mie leggi, seguendo i quali l’uomo ottiene la vita” (Lev. 18:5); esso insegna dunque che i precetti sono state dati per dare la vita, non perché si muoia a causa della loro osservanza. L’insegnamento [di Rabbi Yishmael] continua: si potrebbe pensare che sia permesso adorare gli idoli in circostanze di minaccia alla vita anche in pubblico, cioè alla presenza di molte persone. E però un versetto afferma: “Non profanerete il Mio santo nome; ma sarò santificato tra i figli d’Israele: Io sono il Signore che vi santi- fica” (Lev. 22:32). Di conseguenza, non è necessario lasciarsi uccidere per non trasgredire il divieto di culto degli idoli quando si è in privato; ma in pubblico bisogna lasciarsi ammazzare piuttosto che trasgredire.

Dunque vi è un insegnamento tradizionale ancora meno favo- revole al sacrificio di sé, che lo giudica obbligatorio solo nel caso di una richiesta pubblica di idolatria. Si noti che la discussione riguarda l’obbligo della Keddushat Hashem, non solo perché in generale l’ebrai- smo ritiene più meritevoli gli atti buoni compiuti secondo un obbli- go della legge religiosa che quelli liberamente assunti, ma perché esiste una regola generale per cui, come ho detto, fra la morte e la vita bisogna scegliere sempre la vita e solo un altro obbligo può

autorizzare l’abbandono di questa regola e dunque rendere lecito il sacrificio della vita. Come scrive un autore contemporaneo auto- revole, Rabbi Aryeh Kaplan (1992) “se qualcuno rinuncia alla vita quando non è richiesto, in privato e dove non è prevista alcuna per- secuzione, è considerato colpevole per la propria morte”.

L’interpretazione molto permissiva di Rabbi Yishmael viene però respinta nel seguito del testo che stiamo esaminando:

Il Talmud risponde: I rabbini a Nità hanno deciso secondo l’opinione [ne- gativa] di Rabbi Eleazar il quale, secondo una tradizione riportata altrove disse: “Sta scritto: “E amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima [cioè vita] 24 e con tutte le tue forze” (Dt. 6:5)25. Ora, se

si dice “con tutta la tua anima” [ovvero con la tua vita] perché si aggiunge “con tutte le tue forze” [che possono indicare le proprietà]? E se è detto, “con tutte le tue forze” perché aggiungere “con tutta la tua anima”? Piuttosto, questo serve a insegnare che riguardo a una persona cui il corpo appare più prezioso per lui della sua proprietà, per essa è detto: “Con tutta la tua anima [con la vita]”. Quella persona deve essere disposta a sacrificare anche la sua vita per santificare il nome di Dio. E di fronte a una persona per cui la proprietà è più preziosa per lui del suo corpo, per costui è detto: “Con tutta la tua forza [cioè le proprietà]”. Quella persona deve anche esse- re pronta a sacrificare tutte le sue proprietà per l’amore di Dio. Secondo l’opinione del rabbino Eliezer, bisogna dunque lasciarsi uccidere piuttosto che adorare un idolo.

Nel seguito della pagina il Talmud spiega la giustificazione degli altri due comportamenti che si devono rifiutare a costo della vita, l’omicidio e lo stupro. Poi però vengono stabilite delle limitazioni alla possibilità di compiere trasgressioni imposte con la forza invece di rinunciare alla vita per evitarle.

24. Il testo usa la parola nefesh, che indica l’anima in senso analogo all’”anima sensitiva” di Aristotele, cioè l’elemento vitale di ogni essere animato. Il ragionamento successivo si basa su questa equivalenza fra “anima” e “vita”).

25. È un versetto del primo brano dello Shemà, molto significativo in questo contesto per la ragione che abbiamo visto, per esempio nella descrizione dell’esecuzione di Rabbi Akivà.

Rabbi Yoḥanan disse: I Saggi hanno insegnato che è permesso trasgredire le proibizioni religiose se ci si trova in pericolo mortale solo quando non è un tempo di persecuzione religiosa. Ma in un periodo di persecuzioni religiose, quando le autorità gentili stanno cercando di costringere gli ebrei a violare la loro religione, anche se hanno emesso un decreto su un precetto minore, bisogna essere uccisi e non trasgredire. […] E anche quando non è un tempo di persecuzioni religiose, i Saggi hanno detto che è permesso trasgredire un divieto in caso di pericolo mortale solo quando l’imposizione è stata fatta in privato Ma se a qualcuno viene ordinato di commettere una trasgressione in pubblico, anche se lo minacciano di morte se non trasgredisce un pre- cetto minore, deve lasciarsi uccidere piuttosto che trasgredire. Il Talmud chiede: cos’è un precetto minore da questo punto di vista? Rava bar Yitzḥak testimonia che Rav insegna: Anche cambiare la cinghia di un sandalo. Se c’è un’usanza ebraica che stabilisce come indossare i sandali e le autorità gentili decretano che gli ebrei debbano cambiare la loro pratica e indossare i sandali come fanno i gentili, uno sarebbe obbligato a rinunciare alla sua vita piutto- sto che deviare dalla consuetudine accettata.

Quel che emerge qui è il carattere sociale della Keddushat Hashem. Il problema non è nella soggettività del fedele, ma nel suo rapporto con gli altri. Sono proibiti — fino a dover subire la morte per evitar- li — i comportamenti in cui uno si potrebbe salvare a danno d’altri (stupro, omicidio) e quelli in cui si offende la divinità (idolatria). An- che per i crimini sessuali, spiega il Talmud, la proibizione riguarda la parte attiva: subire uno stupro (come secondo questa pagina di Tal- mud capita a Ester costretta a compiacere le voglie del re Assuero) non richiede un rifiuto a costo della vita.

Tutto il resto si può fare, compreso dunque il cibarsi di carni im- pure, di cui si è parlato a proposito di Maccabei e Daniele, ma solo se si tratta di un comportamento privato, imposto da qualcuno per suo interesse o puntiglio. Quando il comportamento è invece pubblico (nel senso di essere testimoniato da almeno altri dieci ebrei, precisa il Talmud) e di conseguenza diventa esempio e comunicazione della trasgressione, esso è proibito, come lo è quando l’imposizione ha lo scopo di spiantare la legge religiosa.

Quando i gentili ordinano la trasgressione di un divieto non per persegui- tare gli ebrei o per far loro abbandonare la loro religione, ma per il loro piacere personale, è diverso. In una situazione del genere non vi è alcun obbligo di sacrificare la propria vita, anche quando il peccato è commesso in pubblico. […] Se un gentile ha detto a un certo ebreo: Taglia l’erba du- rante il sabato e dalla al bestiame [il che è una trasgressione grave, perché di sabato sono proibiti tutti i lavori], e se non lo fai ti ucciderò, costui dovrebbe tagliare l’erba e non essere ucciso. Ma se il gentile gli disse: Taglia l’erba e gettala nel fiume, egli si dovrebbe fare uccidere e non tagliare l’erba. Qual è la ragione di quest’ultima regola? Perché è chiaro che il gentile non sta cercando il suo interesse personale, ma piuttosto vuole costringere l’ebreo a violare la sua religione.

Da queste ultime considerazioni si vede bene la profonda diffe- renza fra Keddushat Hashem e martirio cristiano. Nell’ebraismo, che pure è stato sottoposto a cicli durissimi di persecuzioni in tutta la sua storia, dal tentativo di genocidio raccontato nel libro dell’Esodo all’antisemitismo contemporaneo, la morte connessa all’apparte- nenza religiosa è una realtà triste da evitare nei limiti del possibile, non la ragione di una santificazione personale. Essa dev’essere nei limiti del possibile evitata, rifiutata, denunciata, o subita come un obbligo, che magari permette, come disse Rabbi Akivà, di capire a

fondo il senso della legge. Il soggetto non è il martire che testimonia, ma

l’identità divina che viene testimoniata anche in questo modo, oltre che in molti altri. È una differenza teologica, che ha a che fare con la foca- lizzazione sulla dimensione escatologica, che è molto più forte nel cristianesimo rispetto all’ebraismo; ma anche una differenza comuni-

cativa: il martire agisce in pubblico e la sua pubblicità viene esaltata in vista della diffusione della fede e in sostanza della conversione degli infedeli. Non essendo l’ebraismo una religione di conversione, quel che conta di più e impone lo yehareg ve’al ya’avor è il rischio di disgregazione della comunità di coloro che sono già ebrei attraverso l’accettazione dell’imposizione di atti antireligiosi o antisociali.

Siamo ora in condizione di accennare a uno schema semiotico della Keddushat Hashem. Il soggetto è qualcuno già unito con la for-

ma di vita ebraica, cioè la conosce e la pratica. L’antisoggetto è di nuovo un oppressore che ha potere sul soggetto e cerca di indurlo ad abbandonarla. Vi è il caso della strage pura e semplice, che si è spesso verificata nella storia e non richiede alla vittima alcuna attività ma solo le impone una morte passiva, come spesso è accaduto nella sto- ria, dall’omicidio dei neonati raccontato nell’Esodo fino ai pogrom cristiani e islamici e alla Shoà. Esso è naturalmente valorizzato e compianto come una morte ingiusta, ma non appartiene a questa categoria. Vi sono poi due casi diversi: quello di un tiranno che, con minaccia di morte, voglia far trasgredire l’ebreo per sue ragioni personali (per esempio a scopo di lucro) e lo faccia privatamente. In questo caso la vittima deve piegarsi e salvare la vita, evitando il “martirio”, salvo che l’azione violentemente ordinata sia omicidio, stupro o idolatria. Anche questo caso non è stato infrequente, seb- bene poco narrato. E poi vi è la Keddushat Hashem vera e propria, che si svolge in pubblico o in tempo di persecuzione. Il soggetto rifiuta l’im- posizione, per minore che essa possa apparire, e paga con la vita. La differenza rispetto al martirio cristiano, oltre alla presenza delle eccezioni appena viste, è che non necessariamente è in gioco una dichia-

razione di fede. Sono i precetti, gli atti prescritti o proibiti — sia pur minuti come una interdizione alimentare o fondamentali come l’ob- bligo di insegnare la Torah — a motivare la Keddushat Hashem. Non è in gioco la dimensione cognitiva, non sono possibili riserve mentali; quel che conta è l’esempio.

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