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In America con Herder: il movimento afroamericano e il nazionalismo culturale

Parte 3. Un liberale negli anni della decolonizzazione

3.4 In America con Herder: il movimento afroamericano e il nazionalismo culturale

Così certo si poterono ricavare da tutti i tempi e da tutte le nazioni e per tutti i tempi e tutte le nazioni, tutti i principî generali del giusto e del bello, le massime sulla filantropia e la saggezza, i panorami… per tutti i tempi e tutte le nazioni? Dunque inutili, purtroppo! proprio per quel popolo sul quale un codice dovrebbe conformarsi come un suo abito. […] Un abisso separa dunque ogni generalità, fosse pure la più bella verità, dal minimo tentativo di applicazione.

Johann Gottfried Herder (1774)1

La linea del colore

L’autunno del 1962 sarebbe stato trascorso da Berlin a Harvard, come Ford Visiting Research Professor2, per approfondire lo studio dei pensatori tedeschi contro-illuministi e romantici, in vista delle conferenze che avrebbe tenuto negli Stati Uniti negli anni successivi3. Nel corso di occasioni mondane, conobbe l’allora sindaco di Berlino Ovest, Willy Brandt4 e conversò con il filosofo Herbert Marcuse («un marxista» che apprezzava, ma il giudizio sarebbe mutato negli anni seguenti, perché considerava Carr scarsamente competente in fatto di «idee di qualunque tipo»5), ed ebbe l’occasione di ricongiungersi alle vecchie amicizie di Washington; Alsop, Bohlen, Schlesinger tra queste. Durante un party organizzato da Alsop a metà dell’ottobre 1962, gli fu presentato John Fitzgerald Kennedy, informato quello stesso giorno dei missili sovietici a Cuba, il quale successivamente invitò Berlin – che all’iniziale apprezzamento per il presidente avrebbe fatto seguire crescenti riserve dopo l’attentato

1 J.G. Herder, Ancora una filosofia della storia per l’educazione dell’umanità. Contributo a molti contributi del secolo (1774), Einaudi, Torino 1971, p. 74.

2 Cfr. I. Berlin, Building, cit., p. 108.

3 Sui romantici le Storrs Lectures a Yale del 1962; su Herder alla Johns Hopkins University di Baltimora nel 1964; nuovamente sul romanticismo le A.W. Mellon Lectures in the Fine Arts alla National Gallery of Art di Washington dell’aprile 1965, e su Hamann le Woodbridge Lectures alla Columbia University dell’ottobre 1965.

4 Isaiah Berlin ad Aline Berlin, 2 ottobre 1962, in op. cit., p. 114.

5 Cfr. Isaiah Berlin a Bertell Ollman, 18 dicembre 1962, in op. cit., p. 136. Berlin sarebbe rimasto sconcertato dall’equiparazione marcusiana tra la realtà concentrazionaria e la società liberale e avrebbe biasimato l’influenza del filosofo tedesco sui movimenti di protesta giovanile degli anni Sessanta e Settanta. Cfr. M. Ignatieff, Isaiah Berlin, cit., p. 276. A proposito dell’influenza marcusiana sulle idee dei giovani contestatori, Berlin avrebbe riferito: «Marcuse […] mi confessò di essere stupito dal grado di sostegno che improvvisamente ottenne quando rivolse agli Stati Uniti le stesse accuse che aveva formulato contro la repubblica di Weimar alla fine degli anni Venti e all’inizio degli anni Trenta. Apprezzava di essere seguito dagli studenti, ma pensava che molti di loro non avessero cervello – ma cinicamente non se ne dava pensiero, e adorava la sua fama e influenza». Cfr. Isaiah Berlin a Eric Mack, 3 febbraio 1992, in I. Berlin,

di Dallas6 – a tenere alla Casa Bianca una lezione, che sarebbe stata dedica all’impegno artistico degli intellettuali russi nell’Ottocento7.

La trasferta americana permise anche a Berlin di confrontarsi da vicino con quello che all’epoca era chiamato il Negro problem e con il movimento afroamericano per i diritti civili sorto a metà degli anni Cinquanta. Nel novembre del 1962, infatti, il «New Yorker» pubblicò il saggio dello scrittore e attivista James Baldwin, Letter from a Region in My Mind, in cui l’autore descriveva la propria esperienza di nero cresciuto nel degrado di Harlem e l’influenza che vi avevano avuto la religione musulmana e la Nazione dell’Islam, che con il suo leader nazionale, Elijah Muhammad, era riuscita a conferire ai neri «un orgoglio e una serenità sospesa su di essi come una luce infallibile». Baldwin, che pure biasimava la propaganda separatista dei Black Muslim, lamentava l’incomprensione dei liberali bianchi per le ragioni del movimento: essi continuavano ad «avere a che fare con il negro come simbolo o come una vittima, ma non [avevano] percezione di lui come uomo». Riprendendo la convinzione del teorico statunitense del panafricanismo W.E.B. Du Bois che la «linea del colore» sarebbe stata la questione del ventesimo secolo, Baldwin sosteneva che il «colore» incarnava una «realtà politica» che i bianchi avrebbero dovuto comprendere, invece di imporre ai neri di condividere «il fato di una nazione che non li ha mai accettati, nella quale furono portati in catene». Altrimenti non ci sarebbe stata «altra scelta se non fare tutto il possibile per cambiare quel destino, e non importa a quale rischio – espulsione, reclusione, tortura, morte»8. Samuel Behrman, ebreo americano di origine lituana, inviò il saggio di Baldwin a Berlin, che definì la lettura «assolutamente terrificante». Pur domandosi allarmato cosa sarebbe avvenuto quando «la maggioranza della popolazione di New York [fosse stata] nera», il filosofo percepiva con inquietudine l’affinità tra la descrizione della ghettizzazione, matrice delle tensioni, e della condizione di un bambino nero allevato nella convinzione di non avere «i diritti ordinari di un cittadino ordinario» con la condizione in cui vivevano gli ebrei «nelle province occidentali dell’impero russo»9.

6 Berlin scriveva di aver provato tanto desiderio di essere al servizio di Kennedy quanto lo aveva avuto per Roosevelt, nonostante l’approccio al governo del primo avesse un certo carattere «bonapartista». Cfr. Isaiah Berlin a Jacqueline Kennedy, 10 novembre 1962, cit., p. 132, e I. Berlin, A.M. Schlesinger, Jr., Isaiah Berlin Oral History Interview, cit., pp. 17-18 e 20. Se inizialmente aveva definito Kennedy «molto gentile» anche se «troppo politico e brutale» per i suoi gusti, dopo la morte del presidente rivide le proprie opinioni, giudicando dapprima che vi fosse in lui «qualcosa degli arditi – la mentalità italiana prefascista che d’Annunzio rappresentava in una forma pervertita» – e poi «alcune qualità piuttosto spaventose» e quasi fasciste. Si vedano rispettivamente le lettere di Berlin a Maurice Bowra, 27 ottobre 1962, a Rowland Burdon-Muller, 7 settembre 1964, e a David Astor, 28 settembre 1965, in op. cit., pp. 129, 205 e 235.

7 Cfr. M. Ignatieff, Isaiah Berlin, cit., pp. 262-264.

8 Cfr. J. Baldwin, Letter from a Region in My Mind, «The New Yorker», 17 novembre 1962, <http://www.newyorker.com/magazine/1962/11/17/letter-from-a-region-in-my-mind>.

Negli anni immediatamente seguenti, il movimento non-violento per i diritti civili, di cui facevano parte organizzazioni quali lo Student Non-Violent Coordinating Committee (SNCC) e il Congress of Racial Equality (CORE), era riuscito a ottenere notevoli conquiste sia sul piano politico sia sul piano simbolico, come dimostravano la marcia di Washington (28 agosto 1963), guidata dal pastore battista Martin Luther King, e le tre marce di Selma (marzo 1965) – la prima delle quali funestata dalle cariche contro i manifestanti da parte della polizia dell’Alabama, dove già negli anni precedenti le forze dell’ordine e il Ku Klux Klan avevano usato la violenza contro gli antisegregazionisti. E l’amministrazione di Lyndon B. Johnson, in ciò in linea con la tendenza della Corte Suprema, si era mostrata attenta alle richieste di inclusione, emanando il Civil Rights Act e il Voting Rights Act, ponendo formalmente fine alla segregazione razziale nei luoghi di lavoro, di istruzione e di ritrovo, e sancendo la piena parità nel di diritto al voto. Non all’integrazione, che lasciava inalterate le disparità economiche e che era giudicata fittizia in una società strutturata sui valori dei bianchi, ma alla rivendicazione della diversità identitaria e alla difesa delle origini culturali nel passato africano miravano, però, i sostenitori del separatismo di Elijah Muhammad e di Malcolm X, incoraggiati dai processi di decolonizzazione riletti alla luce delle teorie esposte, in particolare in I dannati della terra (1961), dall’intellettuale martinicano Frantz Fanon. Nelle estati del 1964 e del 1965, negli slums delle metropoli si erano verificate rivolte contro la polizia e assalti ai negozi dei bianchi; lo stesso reverendo King, giunto a Los Angeles per placare gli animi, era stato duramente contestato dai manifestanti. Era un sintomo del progressivo sfaldamento del movimento per i diritti civili, di cui alcune componenti, come lo SNCC e il Core, anche sull’onda dell’opposizione alla guerra in Vietnam, si radicalizzavano, abbracciando le istanze del “Black Power”. Il frutto più noto di questa dinamica sarebbe stato la fondazione, all’inizio del 1966, del Black Panther Party, ispirato alle posizioni tenute negli ultimi anni di vita da Malcolm X, fuoriuscito dalla Nazione dell’Islam nel 1964 e assassinato nel febbraio dell’anno dopo10.

Ancora negli Stati Uniti tra il settembre 1965 e il gennaio 1966, Berlin avrebbe registrato la nuova attitudine degli attivisti neri, attingendo ancora dalla propria esperienza e proiettando nuovamente su quello scenario la luce dell’impostazione sionista, nello stesso frangente in cui, sia per l’interpretazione in chiave anticolonialista del conflitto tra palestinesi e israeliani sia per la contrarietà di parte della comunità ebraica ai provvedimenti di affirmative action, terminavano gli «“anni d’oro”

10 Si vedano M.A. Jones, Storia degli Stati Uniti d’America, cit., pp. 499-505, E. Foner, Storia della libertà americana (1998), Donzelli, Roma 2009, pp. 370-373, P. Bertella Farnetti, Pantere Nere. Storia e mito del Black Panther Party, ShaKe, Milano 1995, pp. 11-22, B. Muse, The Negro Revolution. From Nonviolence to Black Power. 1963-1967, Indiana University Press, Bloomington-London 1967, D.E. Robinson, Black Nationalism in American Politics and Thought, Cambridge University Press, Cambridge 2001, in particolare pp. 63 ss. e 88 ss.

dell’alleanza neri/ebrei»11 (1954-1964), che avevano visto i due gruppi uniti nelle rivendicazioni degli afroamericani. Il filosofo scriveva a Bowra di essersi reso «impopolare» per aver sostenuto, applicando inevitabilmente «criteri sionisti», che la garanzia della stessa «uguaglianza sociale» non avrebbe risolto i problemi degli afroamericani, «fin quando essi [avessero] continua[to] ad apparire neri e ad avere i capelli crespi». Un chimico capace di inventare una sostanza sbiancante sarebbe stato molto più utile di «un sacco di bravi e decenti liberali»12. In una lettera particolarmente aspra del 1969 a Bernard Williams, Berlin avrebbe anzi asserito che la principale ragione delle tensioni tra neri ed ebrei – più delle accuse dei primi ai secondi di discriminazione nell’affitto delle abitazioni (vietata dal Fair Housing Act federale del 1968) o della condivisione da parte dei primi dei «pregiudizi della classe dominante» – erano i «libreschi liberali ebraici», per la loro tendenza «a giudicare le persone in termini di potere intellettuale» e quindi, magari involontariamente, a «guardare dall’alto in basso» gli afroamericani «come a delle teste vuote» da aiutare «nel modo più zelante e paternalistico, come fa la “New York Review of Books”», dopo aver «soffocato il proprio disprezzo» e a causa dell’«insoddisfazione verso il proprio stato nevrotico e asservito»13.

Populismo, espressivismo e pluralismo in Herder

La riflessione sull’appartenenza trovava uno sbocco proprio nella lecture tenuta negli Stati Uniti nel 1964: «Mi fu chiesto di dare una conferenza alla Johns Hopkins University di Baltimora. Volevano qualcosa sulla filosofia della storia. Stavo leggendo Herder, perché all’epoca ero interessato alle origini del nazionalismo europeo. Fu così che iniziò tutto»14. In realtà, l’intervento, del quale sarà esaminata la versione in due parti pubblicata l’anno dopo su «Encounter», è lo snodo principale, più ancora che Due concetti di libertà, lo snodo principale del percorso berliniano, rappresentando

11 S. Forman, Blacks in the Jewish Mind: A Crisis of Liberalism, New York University Press, New York - London 1998, p. 31. Si veda anche C.L. Greenberg, Troubling the Waters. Black-Jewish Relations in the American Century, Princeton University Press, Princeton-Oxford 2006, capitolo 6.

12 Cfr. Isaiah Berlin a Maurice Bowra, 18 novembre 1965, in I. Berlin, Building, cit., p. 253. Probabilmente Berlin non era a conoscenza della dolorosa e screditata pratica, diffusa precedentemente tra i neri che volevano assomigliare ai bianchi, della stiratura dei capelli con la lisciva. Ne trattano alcune pagine di Malcolm X, Autobiografia (1964), Rizzoli, Milano 2000, pp. 68-71.

13 Cfr. Isaiah Berlin a Bernard Williams, 7 marzo 1969, in I. Berlin, Building, cit., p. 376. La critica berliniana ai liberali ebrei ha dei punti di contatto con quella di James Baldwin ai liberali bianchi.

14 R. Jahanbegloo, Conversations with Isaiah Berlin, cit., p. 96. La scelta del tema, in realtà, era tutt’altro che casuale. Già nel marzo del 1960, infatti, alla poetessa Elizabeth Jennings, Berlin aveva annunciato di stare lavorando a un libro, il cui titolo auspicava sarebbe stato Three Critics of the Enlightenment, che avrebbe contenuto saggi su tre pionieri della rivolta romantica – Vico, de Maistre, e Herder, definito «il fondatore del moderno nazionalismo (questo non era ancora ancora iniziato!)» –, che avevano innescato una dialettica ancora «cruciale» con i princìpi dell’illuminismo. Cfr. Isaiah Berlin a Elizabeth Jennings, 8 marzo 1960, in I. Berlin, Enlightening, cit., pp. 727-728. Il libro, in realtà, vide la luce solo nel 2000, senza il saggio su de Maistre, sostituito da quello su Hamann. Cfr. H. Hardy, Editor’s Preface, in I. Berlin,

chiaramente la saldatura tra i filoni di ricerca inerenti l’ambito storico-intellettuale, quello politico- filosofico e antropologico, e la filosofia del linguaggio.

I tre aspetti attorno ai quali ruotava l’analisi erano quelli dell’appartenenza (definita da Berlin populismo, in omaggio all’utilizzo herderiano del termine Volk e alle assonanze con le convinzioni dei narodniki russi), dell’espressionismo (che, per evitare confusioni, Charles Taylor avrebbe chiamato espressivismo) e del pluralismo. Il primo principio da Herder era tradotto nella convinzione che «essere membro di un gruppo è pensare e agire in un certo modo, alla luce di particolari fini, valori, immagini del mondo». Il modo in cui gli appartenenti a una stessa cultura «parlano o si muovono, mangiano o bevono, la loro grafia, le loro leggi, la loro musica, la loro visione sociale, le loro figure di danza, la loro ideologia, hanno schemi e qualità in comune che non condividono, o condividono in un grado notevolmente minore, con le attività similari di qualche altro gruppo». Le attività in una nazione, infatti, costituiscono «un grappolo che deve essere compreso come un tutto: esse si illuminano a vicenda»15. Le nazioni sono unificate «da tradizioni comuni e comuni memorie, tra le quali il principale nesso e veicolo – anzi, più di un veicolo: la vera incarnazione – è la lingua», che contribuisce alla costituzione dell’«intero reticolo di credenza e comportamento che lega l’un l’altro gli uomini», il sistema simbolico «pubblico» nel quale risiedono «il cuore e l’anima» di una nazione16. Quindi, riconoscere la realtà dell’appartenenza significa assumere che gli esseri umani sono formati nella loro identità dalla cultura e dalla tradizione della loro nazione, che essi stessi contribuiscono a influenzare. Ma la relazione tra individuo e comunità, chiariva l’oxoniense, per Herder era «organica» solo in termini «totalmente metaforici»: «Non c’è evidenza che egli immaginasse i gruppi come entità o valori metafisici “sovraindividuali”», a cui gli individui andassero sacrificati, tantomeno si sosteneva la burkeana «mistica della superiore saggezza della razza o della nazione oppure dell’umanità nel suo complesso»17. Berlin dunque, oltre a rimarcare l’assenza di connotazioni biologistiche, rimuoveva ogni traccia di ciò che considerava essenzialismo o monismo all’organicismo herderiano, avvicinandolo a quello che egli stesso aveva in più occasioni difeso.

15 Cfr. I. Berlin, J. G. Herder (II), cit., p. 42. Si veda anche l’analisi di F.M. Barnard, Culture and Political Development:

Herder’s Suggestive Insights, «The American Political Science Review», 2 (1969), pp. 385-388. Questo convincimento,

che trovava un riscontro preciso in un passo delle Ideen herderiane (J.G. Herder, Idee per la filosofia della storia

dell’umanità (1784-1791), a cura di V. Verra, Laterza, Roma-Bari 1992, p. 139), sarebbe stato ricondotto all’influenza

hamanniana nella versione del 1976 (I. Berlin, Herder e l’Illuminismo, cit., p. 257) e, successivamente, attribuito a Vico (I. Berlin, Il mio itinerario intellettuale, cit., pp. 32-33). Ma conta notare che era stato manifestato anche da Eliot in

Appunti per una definizione della cultura (cit., p. 34).

16 Cfr. I. Berlin, J. G. Herder, cit., p. 37. 17 Cfr. I. Berlin, J. G. Herder (II), cit., p. 43.

Di qui scaturiva l’espressivismo: «tutto ciò che un uomo fa, dice e crea deve trasmettere, che lo voglia o no, la sua intera personalità; e dal momento che un uomo è inconcepibile al di fuori del gruppo al quale, se è ragionevolmente fortunato, continua ad appartenere […] trasmette anche l’“individualità collettiva” – una cultura intesa come un costante flusso di pensiero, sentimento, azione ed espressione»18. Per questo gli esseri umani possono «vivere vite piene»19 solo all’interno della propria comunità

Il principio del pluralismo (da Berlin talvolta ancora definito «relativismo») implicava che ogni cultura è «unica» e incommensurabile rispetto alle altre: esse hanno «differenti sviluppi, perseguono differenti fini, incarnano differenti modi di vivere, sono dominate da differenti attitudini alla vita, perciò per comprenderle si deve attuare un atto immaginario di “empatia” nella loro essenza, comprenderle “da dentro” per quanto possibile, e vedere il mondo attraverso i loro occhi», attraverso la loro «costellazione di valori», poiché non è possibile esprimere su di esse un giudizio in base a un «criterio universale di valore». Dall’«incompatibilità di ideali parimenti validi» discendeva una confutazione radicale del concetto stesso di modo di vita o di uomo ideali: «valori e fini della vita vivono e muoiono con gli insiemi sociali dei quali formano un parte intrinseca», e non si può sperare di far «rivivere e unire» in un’unica civiltà i frutti migliori o i valori più apprezzabili di civiltà differenti20. Ciò escludeva l’imposizione dell’«ideale» di una cultura su un’altra, sia l’astratto tentativo razionalistico di determinare le caratteristiche universali dell’uomo ricercando il «minimo comun denominatore» nella pluralità delle manifestazioni umane al fine di applicare una «paralizzante uniformità»21.

18 Cfr. op. cit., p. 44.

19 Cfr. op. cit., p. 43.

20 Cfr. op. cit., pp. 48-50. I. Berlin, J. G. Herder, «Encounter», 1 (luglio 1965), p. 32. Si ricorderà che questa idea era stata attribuita a Vico, ma non si può fare a meno di segnalare che anch’essa si ritrova in Appunti per una definizione

della cultura: «Dobbiamo ammettere, confrontando una civiltà con un’altra, che nessuna società, e nessuna età di essa,

realizza tutti i valori della civiltà. Non tutti questi valori sono reciprocamente compatibili: quel che almeno è certo è che realizzandone alcuni, perdiamo il senso di altri»; e ancora: «non è pensabile che si ritrovino tutti insieme i diversi stadi di sviluppo [di una civiltà]; […] una civiltà non può produrre a un livello grande poesia popolare, e ad un altro il Paradiso

Perduto». Cfr. T.S. Eliot, Appunti per una definizione della cultura, cit., p. 25.

21 Cfr. I. Berlin, J. G. Herder, cit., pp. 40-41. Per Berlin, Herder si era posto in contrasto con i «tre grandi miti del diciottesimo secolo»: quello del Favoritvolk, la «boria patriottica» che proclamava la superiorità di una cultura sulle altre, quello del «modello dominante», che pretendeva di assumere quale canone assoluto da imitare la cultura di una determinata fase storica, e quello del «progresso costante», giacché l’«avanzamento» (Fortgang) che Herder riconosceva nella storia, per Berlin, andava concepito come «l’interno sviluppo di una cultura nel proprio habitat, verso i propri fini». Se nelle Mary Flexner Lectures la nozione herderiana di Humanität faceva includere Herder tra gli assertori del determinismo storico (interpretazione mantenuta, anche in Due concetti di libertà), ora essa diveniva «termine notoriamente vago» che testimoniava solo il permanere di uno sparuto retaggio illuministico. Se poi nelle conferenze del 1952 a Herder era attribuito “un forte elemento aprioristico” assente in Burke, nel 1965 i ruoli erano invertiti, e il prussiano era totalmente scagionato dal perfezionismo addossato questa volta all’irlandese. Sicuramente il nuovo giudizio stava

Strettamente connessi, i tre assunti si traducevano innanzitutto nella convinzione herderiana che le nazioni dovessero preservare la propria cultura e i suoi mezzi espressivi22, «sottolineare quello che è nostro, non loro»; benché la difesa della tradizione non comportasse il tradizionalismo, ma (come per Tagore) il riconoscimento del cambiamento nel perimetro di essa23 Lo sradicamento, invece, avrebbe condotto all’appassimento delle loro qualità24, come dimostrava anche la compassione espressa da Herder per la condizione dei neri condotti come schiavi in America – e forse qui si rifletteva l’attualità del movimento afroamericano –, «fondata sull’osservazione che separare gli uomini dal “centro vitale” – dall’intreccio a cui naturalmente appartengono – o forzarli a sedere al bordo dei fiumi di qualche remota Babilonia, e prostituirne le facoltà creative per il bene degli stranieri, significa degradarli, disumanizzarli, distruggerli»25. E introdurre «valori stranieri in una Nation (come i missionari stanno facendo, per esempio, in India)» si dimostrava «sia inefficace che dannoso»26. Dunque, Herder si era opposto al cosmopolitismo di matrice illuministica, incapace di soddisfare il bisogno umano di appartenenza – «il cuore saturo dell’ozioso cosmopolita», annotava Berlin, «non è una casa per nessuno»27 – e all’«imperialismo: la distruzione di una comunità da parte di un’altra,