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Nazionalismo e globalizzazione

La vittoria israeliana nella guerra dei Sei Giorni del 1967 innescò la colonizzazione dei territori occupati, aggravando il problema dei profughi palestinesi e incrinando le relazioni internazionali dello Stato ebraico. Due questioni che avrebbero attirato l’attenzione di Berlin. Non disgiunta dall’impegno filoisraeliano fu la preoccupazione con cui accolse la diffusione delle proteste giovanili e lo sviluppo della New Left. Se provò imbastire un dialogo sulle prospettive mediorientali con uno degli esponenti della nuova sinistra americana, Noam Chomsky, dovette anche rispondere all’accuse dei leader della sinistra radicale inglese di essere tra gli intellettuali immigrati che avevano rafforzato il tradizionale conservatorismo britannico. A seguito di tali contrasti, Berlin tornò a indagare il rapporto tra il marxismo e il sentimento nazionale e ad approfondire i tratti comuni alle rivolte dei giovani in Occidente e alle rivendicazioni dei movimenti nazionali. Scampato il pericolo di una sconfitta israeliana nella guerra dello Yom Kippur (1973), Berlin iniziò a intervenire più frequentemente a difesa delle ragioni sioniste e e del rinsaldamento dei legami tra diaspora e Stato ebraico. L’avvento al potere del Likud (1977), però, lo spinse a criticare palesemente le politiche governative. Connesso alla riflessione sull’appartenenza culturale, nel discorso berliniano si delineava la definizione del carattere oggettivo del pluralismo ricalcando l’impianto filosofico del secondo Wittgenstein; un tratto che testimonia la necessità di una rilettura dei nessi tra il pluralismo stesso e il liberalismo. Nel capitolo finale ci si concentrerà sulle impressioni che Berlin manifestò nell’ultimo quindicennio della propria esistenza a proposito delle tre nazioni a cui sentiva legata la propria anima. Si prenderanno, perciò, in considerazione le opinioni di Berlin sull’Inghilterra negli anni della crisi economica e, poi, dei governi conservatori di Margaret Thatcher, sull’Urss della perestrojka e sulla Russia post-sovietica, e sul processo di pace tra gli israeliani e palestinesi avviatosi a Oslo e arenatosi dopo l’uccisione di Rabin.

4.1 La guerra dei Sei giorni e le sue conseguenze

Che gli ebrei non possano e non debbano governare gli arabi mi sembra assolutamente evidente. Non credo in una pacifica simbiosi nemmeno sotto l’amministrazione più liberale e idealistica. Isaiah Berlin (1970)1

Timore ed euforia

Nel 1965, a ridosso dell’ultimo trentennio di vita, a Berlin fu proposto di assumere la presidenza dell'Iffley College, da poco creato, destinato ad accogliere accademici che si occupavano di discipline sociali e, soprattutto, scientifiche che raccoglievano scarso numero di studenti. Inizialmente incerto sull’opportunità di abbandonare l’incarico ad All Souls, Berlin finalmente accettò la proposta, con l’intento di dare vita a un’istituzione che perfezionasse in special modo la formazione dei laureati. Per portare a termine il progetto si assicurò il finanziamento della Ford Foundation e della Wolfson Foundation. L’istitutore di quest’ultima, Isaac Wolfson, presidente della United Synagogue e a capo del consiglio di amministrazione della Great Universal Stores, in cambio ottenne che al college fosse

dato il proprio nome2. Nella scelta di Berlin pesava anche l’insoddisfazione per un ruolo, quello di professore di teoria politica, che non era mai corrisposto ai suoi interessi principali, che non contemplavano «la teoria sociale e politica come dovrebbe essere concepita – dire alle persone cosa è la giustizia, cosa è il diritto a bruciare le cartoline di precetto negli Stati Uniti, in quali circostanze si debba morire, e in quali circostanze si debba uccidere, ecc. – ma la storia delle idee, sulla quale ho scritto e mi propongo di continuare a scrivere»3.

Scrivendo delle cartoline di precetto bruciate, Berlin faceva riferimento a uno dei gesti di protesta messi in atto dai pacifisti statunitensi contro l’impegno militare in Vietnam. Poche settimane prima, a proposito del conflitto, Berlin aveva comunicato a Bowra che, non appena fossero giunte a «un onorevole stallo», le due parti avrebbero fatto meglio a trovare un accordo che provocasse il minor numero di perdite umane4. Successivamente, in piena escalation bellica, dichiarò che, se gli era risultato semplice schierarsi per la Repubblica spagnola negli anni Trenta e per la spedizione dell’Onu in Corea, non coltivava altrettante certezze sul Vietnam. L’intervento americano era stato «probabilmente un tremendo errore», ma il ritiro immediato dei contingenti avrebbe provocato il «massacro di coloro che sono o devono essere ritenuti (giustamente o erroneamente) [loro] alleati» e – in base alla teoria del domino – la nascita di altri regimi comunisti nel Sud-est asiatico. Dunque avrebbe sostenuto la via del «ritiro graduale»5 mediante una «soluzione negoziata» che evitasse «crudeltà e sofferenze ancora maggiori di quelle alle quali vorrebbe porre fine»: egli, spiegava, non era per «una posizione [fiat iustitia,] ruat caelum basata su qualche principio assoluto: tantomeno per una crociata ideologica, o un’arrogante o semplicistica insistenza a importare i nostri metodi e le nostre istituzioni in paesi che hanno le loro, forse alquanto differenti, tradizioni e aspirazioni»6.

2 Si vedano M. Ignatieff, Isaiah Berlin, cit., pp. 283-293, e I. Berlin, Building, cit., pp. 243-248. 3 Cfr. Isaiah Berlin a Maurice Bowra, 3 dicembre 1965, cit., pp. 258-259.

4 Cfr. Isaiah Berlin a Maurice Bowra, 18 novembre 1965, cit., p. 251.

5 Questa era anche il suggerimento di Schlesinger, crtitico verso l’interpretazione della politica di contenimento da parte di Johnson. Cfr. M. Del Pero, Libertà e impero, cit., p. 352.

6 Cfr. I. Berlin, contributo a Authors take Sides on Vietnam, eds. C. Woolf and J. Bagguley, Simon and Schuster, New York 1967, pp. 20-21. Si vedano anche Isaiah Berlin a Brian Urquhart, 7 settembre 1966, e Isaiah Berlin a Rowland Burdon-Muller, 17 gennaio 1968, in I. Berlin, Building, cit., pp. 311-312 e 344. Cristopher Hitchens e Caute hanno comunque rilevato una contraddizione tra la critica pubblica di Berlin alll’impegno militare in Vietnam e la profonda stima che, nel 1966, aveva manifestato per McGeorge Bundy, assistente speciale alla sicurezza nazionale delle amministrazioni Kennedy e Johnson e tra i principali promotori dell’escalation. «Vedo», aveva scritto ad Alsop, «una linea rossa, formata da te e Mac [Bundy] e me, e Chip [Bohlen] – quattro vecchi palloni gonfiati, gli ulitimi difensori di una posizione asciutta, sgradevolmente pessimista e dura e disperatamente fuorimoda». Si vedano C. Hitchens,

Moderation or Death, «London Review of Books», 23 (1998), <http://www.lrb.co.uk/v20/n23/christopher-

Nella primavera del 1967, assieme agli impegni per la realizzazione del Wolfson College, ad attirare l’attenzione di Berlin sarebbe stata la nuova guerra – breve quanto cruciale per le sorti del conflitto arabo-israeliano – che stava per scatenarsi in Medio Oriente e sulla quale avrebbe tenuto una posizione ben più chiara. Nel maggio di quell’anno, in parte per l’errata notizia da Mosca dello stanziamento di truppe israeliane lungo il confine siriano, dopo aver inviato unità armate nella penisola del Sinai e aver persuaso le Nazioni Unite a rimuovere il contingente Unef che lì stazionava sin dalla fine della crisi di Suez, Nasser pose il blocco navale alle imbarcazioni israeliane presso lo stretto di Tiran e il 30 maggio ottenne dalla Giordania di re Hussein il comando della Legione araba7. Quello stesso giorno Berlin scriveva a Spender di essere «completamente occupato dai pensieri sul Medio Oriente». Ad amareggiarlo, più della stessa evenienza di un conflitto, erano i commenti avanzati da chi, come il rappresentante del Regno Unito all’Onu, si diceva sollevato per i toni talvolta meno bellicosi del presidente egiziano. «Questo è esattamente quello che si era soliti dire di Hitler nel 1935-’36-’37», affermava, proiettando nuovamente sugli eventi contemporanei le esperienze degli anni Trenta: anche la convinzione espressa dalla stampa britannica, secondo la quale per tranquillizzare gli arabi si sarebbero dovuti rivedere gli accordi fissati dopo la crisi di Suez, trovava un parallelo nell’attribuzione al trattato di Versailles delle responsabilità per l’occupazione tedesca della Renania. «Agli israeliani è detto di stare calmi, essere misurati, non muoversi, non precipitare il mondo in una guerra a causa di qualche torto». «Praticamente tutti», credeva, dato il prevedibile disinteresse di Usa, Gran Bretagna e Onu, davano l’idea di credere che il mondo sarebbe stato più pacifico senza l’esistenza d’Israele: «un trovatello che le nazioni non hanno avuto abbastanza cuore di strangolare quando nacque, anche se gli arabi tentarono; e che cresce a vantaggio di nessuno, i cui interessi coincidono con quelli di nessuno, la cui scomparsa provocherebbe un grande sospiro di sollievo, misto a una certa dose [di senso] di colpa che gradualmente svanirebbe». Svaniva così la certezza, coltivata sin dal 1948, che la sola nascita d’Israele, qualunque cosa fosse poi accaduta, avesse definitivamente assicurato la sopravvivenza del popolo ebraico: «Se davvero c’è una fiammata e gli ebrei sono sconfitti o sterminati lì, sarà la fine della loro intera storia; rimarranno come una malinconica piccola setta – la maggioranza si fonderà con l’ambiente circostante, con più o meno successo, e un piccolo nucleo orgoglioso rimarrà come i protestanti ungheresi, memento mori». Di fronte a questa angosciosa prospettiva gli sembrava che Israele non avesse «riparato le questioni, ma solo istituzionalizzate»8. «Come molti altri uomini e donne onesti, e in particolare, chiaramente, come

7 Cfr. C. Vercelli, Israele, cit., p. 239, e C. Vercelli, Storia del conflitto iraelo-palestinese, cit., pp. 131-132.

8 Cfr. Isaiah Berlin a Stephen Spender, 30 maggio 1967, in I. Berlin, Building, cit., pp. 326-327. Il giorno dell’attacco aereo israeliano Berlin rimarcava: «Le notizie dal Medio Oriente sono tali da oscurare tutto. Siamo nuovamente nel 1940». Egli lodava peraltro il discorso tenuto alla Camera dei Lord da Eden, che aveva affermato: «Sarò franco; non mi sento come dieci anni fa, ma piuttosto come negli anni Trenta […] e se provassimo a fare ciò che facemmo negli anni Trenta

i miei connazionali ebrei», avrebbe ricordato Berlin, «mi sentivo disperatamente ansioso per la sopravvivenza dello Stato d’Israele. Non avevo dubbi che Nasser non avrebbe proclamato una guerra santa, e i suoi uomini non avrebbero parlato di gettare gli ebrei in mare o di radere al suolo i loro paesi e villaggi, se non si fossero procurati un sostegno militare sufficiente per distruggere gli israeliani. Qualunque cosa avesse infatti innescato la conflagrazione, al britannico uomo comune della strada sembrava che sarebbe stata una guerra di sterminio, un secondo Olocausto. Il fatto che nessun altro paese, né le Nazioni Unite, alzassero un dito per aiutare gli israeliani accerchiati appariva vergognoso»9.

A Gerusalemme, intanto, si era formato un esecutivo di unità nazionale, e Begin, il leader dell’Irgun ora a capo di Herut, principale partito della destra, entrava nel governo presieduto dal laburista Levi Eshkol sin dal 1963, quando Ben-Gurion era stato costretto alle dimissioni per via dello “scandalo Lavon”10. Moshe Dayan – in forza al Rafi, piccola formazione politica fondata da Ben-Gurion – assumeva, invece, l’incarico di ministro della difesa. Il 5 giugno Israele lanciava un attacco aereo, annientando buona parte dell’aviazione egiziana. Le truppe di terra, agli ordini del Capo di stato maggiore Yitzhak Rabin, invece, avanzavano nella striscia di Gaza, nel Sinai e in Cisgiordania (la West Bank). Vincendo facilmente il confronto con l’esercito giordano, gli israeliani il 7 giugno entravano anche nella parte orientale di Gerusalemme e, sbaragliando nei giorni successivi le resistenze siriane, terminavano la conquista delle alture del Golan. Al cessate il fuoco definitivo del 10 giugno, Israele, avendo avviato le azioni militari a scopo preventivo, si ritrovava a essere una potenza occupante che controllava una nuova area (Gerusalemme Est, Cisgiordania, Sinai e Golan) vasta tre volte tanto quella dello Stato stesso e abitata da un milione di arabi. L’Onu stimò che durante il conflitto fossero fuggiti dalla Cisgiordania tra i 350.000 e i 400.000 arabi (14.000 dei quali tornarono entro la fine del 1967), aggravando ulteriormente il problema dei profughi. L’intenzione di Eshkol di restituire parte delle terre occupate in cambio della pace era destinato al fallimento per via del rifiuto degli arabi – ufficializzato con la conferenza di Khartoum del settembre del 1967 – di riconoscere lo Stato d’Israele e di trattare con esso. Nelle fila israeliane, comunque, sia tra alcuni ministri sia, soprattutto, tra gli esponenti del Partito Nazionale Religioso e di Herut, votata alla

riguardo alla Cecoslovacchia, a spese di Israele, ci meriteremmo tutto quel che abbiamo avuto». Cfr. Isaiah Berlin a Leonard Wolfson, 5 giugno 1967, in op. cit., p. 328 e n. L’immagine di un possibile nuovo Olocausto, nel caso di una sconfitta militare, era, peraltro, ben presente anche in Israele e tra gli stessi soldati israeliani. Cfr. G. Bensoussan, Israele,

un nome eterno, cit., pp. 145-146.

9 Cfr. I. Berlin, contributo a Where Were You?, cit., p. 227.

10 Sullo “scandalo Lavon” si veda Z. Shalom, Ben-Gurion’s Political Struggles, 1963–1967. A lion in winter, Routledge, London - New York 2006, pp. 23-35. Al termine della guerra, Berlin avrebbe definito «un incubo» l’ingresso di Begin al governo. Cfr. Isaiah Berlin a Meyer Schapiro, 20 luglio 1967, cit., p. 337