Parte 2. La ‘scoperta’ del nazionalismo
2.2 Realismo e pluralismo
La capacità di giudizio, l’abilità, il senso del tempo, la comprensione immediata del rapporto tra mezzo e risultati dipendono da fattori empirici come l’esperienza, l’osservazione, e soprattutto quel «senso della realtà» che consiste in buona parte di un’integrazione semiconsapevole di un gran numero di elemente apparentemente irrilevanti o impercettibili presenti nella situazione: elementi che presi insieme formano un qualche tipo di disegno che di per sé «suggerisce» («sollecita») l’azione appropriata.
Isaiah Berlin (1954)1
Il realismo liberale
Tra le prime e più chiare esposizioni del pluralismo dei valori e dei suoi corollari si sarebbe avuta con la trattazione del pensiero di Niccolò Machiavelli avviata nel 1953. Per Berlin, il fiorentino non aveva inteso, come spesso si era sostenuto, distinguere tra la morale e la politica, ma tra due morali egualmente legittime – quella pagana e quella cristiana –, in rapporto di incommensurabilità (giacché non sarebbe possibile dimostrare che una sia migliore dell’altra) e di incompatibilità logica sul piano valoriale2. Alla morale pagana pertenevano princìpi finalizzati alla saldezza dello Stato, a quella cristiana quelli che avrebbero condotto alla salvezza dell’anima: bisognava necessariamente scegliere una delle due morali, rinunciando ai valori e ai fini dell’altra3. Per cui l’ideale di una società perfetta, in cui tutti i veri valori, inevitabilmente compatibili tra loro, si sarebbero realizzati, da Machiavelli era inconsapevolmente confutata «in linea di principio» e non solo per motivi pratici (il peccato originale, l’ignoranza, i vizi nella natura umana o la mancanza di mezzi materiali4), che in effetti non contraddicevano la possibilità concettuale di scoprire la soluzione sul modo in cui si dovesse vivere5. Per Berlin ne conseguiva che al fanatismo e alle persecuzioni, fortificate dalla fede perfezionistica in
1 Cfr. I. Berlin, Il realismo in politica (1954), in Id., Il potere delle idee, cit., p. 216.
2 Cfr. I. Berlin, Machiavelli, <http://berlin.wolf.ox.ac.uk/lists/nachlass/machiavelli.pdf>, pp. 28 e 23. Le citazioni sono tratte dal testo della seconda delle tre Storrs Lectures tenute da Berlin a Yale, nel 1962, su Three Turning-Points in
Political Thought (le altre due erano incentrate sulla filosofia ellenistica e sul romanticismo). Il lavoro su Machiavelli,
che si basava sul contributo presentato a un incontro della sezione britannica della Political Studies Association nel 1953, sarebbe stato pienamente approfondito un quindicennio dopo. Berlin avrebbe dichiarato che Machiavelli aveva contribuito a renderlo pienamente cosciente della realtà del pluralismo dei valori. Cfr. I. Berlin, La ricerca dell’ideale, cit., pp. 27- 28. Una testimonianza della precedente adesione a princìpi monistici potrebbe essere il saggio Can the divergence of
ethical judgements be reconciled with the existence of an absolute standard of morality?, scritto probabilmente quando
era ancora undergraduate student. Cfr. <http://berlin.wolf.ox.ac.uk/lists/nachlass/diverge.pdf>.
3 Cfr. I. Berlin, Machiavelli, cit., p. 23. Machiavelli mostrava che gli «ideali possono non essere compatibili l’un l’altro: che valori egualmente fondamentali, ugualmente sacri, possono contraddirsi a vicenda. Egli aveva delineato soltanto quei due sistemi, ma in principio non c’è ragione per cui non dovrebbero essercene di più, se è così». Op. cit., p. 27.
4 Cfr. op. cit., pp. 2, 3 e 23. 5 Cfr. op. cit., pp. 2 e 23.
una soluzione finale ai quesiti umani, si sostituivano l’«empirismo», la «tolleranza» e il «compromesso». Machiavelli poteva, così, essere assunto quale involontario precursore del liberalismo6.
L’approccio raccomandato da Berlin nell’attività politica si legava, dunque, all’adesione a una visione realista e possibilista argomentata su un piano storico-filosofico ma derivante anche dell’esperienza maturata negli anni della guerra7. Egli partiva nuovamente dalla critica alle convinzioni razionalistiche e scientistiche e all’idea che la storia fosse mossa esclusivamente da quelle che, citando T.S. Eliot, diceva «immense forze impersonali»8: l’ottimismo meccanicistico e organicistico erano stati smentiti dagli esiti indesiderati, nonostante i metodi d’indagine più affinati e i sistemi dottrinari più precisi, delle rivoluzioni del 1789, del 1848 e del 1917; e l’avvento di Stalin e Hitler avrebbe dovuto minare definitivamente la fede in «una scienza attendibile dei rapporti tra gli uomini» e nelle «leggi inesorabili della storia»9. Per Berlin, in effetti, era la stessa «applicazione alle società umane di teorie dello sviluppo storico a essere di per sé condannata al fallimento». L’accezione peggiorativa che, nei riguardi della politica, si soleva attribuire ad aggettivi quali «dottrinario» e «teorico», dunque, era ben motivata e non andava considerata «mero oscurantismo». Gli «statisti» e i «riformatori di maggior successo» non si erano affidati a teorie politiche10, necessariamente fondate
6 Cfr. op. cit., p. 27. Il pluralismo che Berlin desumeva dal pensiero di Machiavelli potrebbe essere definito
interindividuale e intraculturale, perché sussiste tra individui della stessa epoca e cultura, e intraindividuale, perché è
situato anche all’interno di ciascun individuo. Per una più ampia trattazione dell’analisi berliniana di Machiavelli si rimanda ad A. Della Casa, L’equilibrio liberale, cit., paragrafo 2.2.
7 Nota Giuseppe Galasso che la lettura di Machiavelli dimostra il passaggio di Berlin dal «realismo logico» al «realismo pragmatico». Cfr. G. Galasso, Dalla filosofia alla storia delle idee, in Isaiah Berlin filosofo delle libertà, a cura di Paolo Corsi, Rizzoli, Milano 1995, p. 35. Berlin avrebbe negato che del pensiero machiavelliano lo avesse colpito il realismo politico. Cfr. I. Berlin, La ricerca dell’ideale, cit., p. 27. Ma l’approccio all’arte del governo raccomandato da Berlin richiama le teorie machiavelliane sul riscontro e sull’osservazione della realtà effettuale. Su quest’ultimo punto si veda I. Berlin, Machiavelli, cit., p. 10. Inoltre la concezione realista, e in certo modo “statista”, che Berlin avrebbe dimostrato in materia di relazioni internazionali (cfr. infra, § 2.4) suggerisce un’ulteriore coincidenza con la visione machiavelliana. È interessante notare che in entrambi la teorizzazione dell’approccio realista alla politica si fondasse, oltre che sullo studio di autori precedenti e della storia, sulla diretta esperienza dell’attività diplomatica.
8 L’espressione è tratta da T.S. Eliot, Appunti per una definizione della cultura (1948), Bompiani, Milano 1952, p. 96. Scriveva Eliot, nella traduzione di Giorgio Manganelli, che le «enormi forze impersonali» costituivano una «convenzione del pensiero» della teoria politica di quegli anni, che «inculca la fede in un futuro inflessibilmente determinato». Op. cit., pp. 96-97. Berlin cita la formula già in esergo, e poi la riprende in altri passaggi, del suo L’inevitabilità storica (1953), in Id., Libertà, cit., pp. 97, 130, 162. Il testo, letto presso la LSE nel maggio del 1953 con il titolo History as an Alibi quale prima Auguste Comte Annual Conference, è la più nota critica berliniana al determinismo storico e, non diversamente da quella di Moore nei Principia Ethica, era volta particolarmente a dimostrare le conseguenze che si sarebbero prodotte sulla morale, sui giudizi di valore e sul linguaggio, se le teorie deterministiche fossero state esatte.
9 Cfr. I. Berlin, Il realismo in politica, cit., pp. 210-212, e I. Berlin, Il giudizio politico (1957), in Id., Studi sulle idee e la
loro storia, a cura di H. Hardy, Adelphi, Milano 1998 cit., p. 90.
10 Cfr. I. Berlin, Il realismo in politica, cit., pp. 212-213. Si veda inoltre I. Berlin, Il senso della realtà (1953), Id., Il senso
sugli elementi del «livello superiore» di una società, la cui applicazione «scombussola[va]» anche l’opaco e «complicato reticolo di rapporti» sotteso, provocando «tremori formidabili» e imprevedibili «all’intero sistema»: «Quanto più astratta è la formula, quanto meno adatta al tortuoso, aggrovigliato intreccio di rapporti concreti umani, tanto maggiore sarà lo scarto tra l’effetto complessivo e le schematiche e aride convinzioni dei tecnici»11; l’illusione di comprimere la vita umana negli schemi scientifici di leggi generali era responsabile di «rivoluzioni, guerre e campagne ideologiche condotte sulla base di dogmatica certezza quanto al loro esito – colossali fraintendimenti che sono costati la vita, la libertà e la felicità di una moltitudine di esseri umani»12.
Berlin distingueva, dunque, tra statisti utopici, dottrinari e teoretici, e statisti pratici. Mentre i primi, come, Robespierre, Giuseppe II d’Austria e Lenin non erano riusciti a tradurre le proprie idee in pratica, miglior esito avevano avuto i secondi, tra i quali Bismarck, Lincoln e Cavour13. Anche F.D. Roosevelt era annoverato nella seconda schiera di uomini politici, giacché era riuscito a «fare la differenza, e si trattava di differenze di immensa portata, che influenzarono in maniera drastica le fortune dell’umanità»14. In un saggio incentrato sul presidente democratico – «l’unica luce che fosse rimasta nelle tenebre» totalitarie degli anni Trenta – il New Deal rooseveltiano sarebbe stato apprezzato proprio per aver accresciuto la giustizia sociale «senza forzare [gli Stati Uniti] in una qualche dottrinaria camicia di forza»15: aveva fronteggiato la Depressione «tentando di prevenire la rivoluzione e costruire un regime che potesse procurare maggiore eguaglianza economica e giustizia sociale – idee che erano la parte migliore della tradizione della vita americana – senza alterare le basi della libertà e della democrazia nel suo paese»16. In un articolo pubblicato nel settembre del 1949 – che gli valse le critiche dei suoi «amici socialisti»17, essendo uscito pochi mesi prima delle elezioni
11 Cfr. op. cit., pp. 72-73.
12 Cfr. op. cit., 84.
13 Si vedano I. Berlin, Il realismo in politica, cit., p. 214, I. Berlin, Il giudizio politico, cit., pp. 74, 89 e 95, e I. Berlin, La
leadership di Chaim Weizmann, cit., pp. 282 e 284. Tra i geni pratici Berlin includeva Augusto, Enrico IV, Richelieu,
George Washington, Abraham Lincoln e Thomas Masaryk, mentre puramente teoretici erano anche Giovanni di Leida, Thomas Herzl, Russell, Freud, Albert Einstein, Trockij, Charles de Gaulle e Tito.
14 Cfr. I. Berlin, Il realismo in politica, cit., p. 214.
15 Cfr. I. Berlin, President Franklin Delano Roosevelt (1955), in Id., Personal Impressions, a cura di H. Hardy, Princeton University Press, Princeton 2001, pp. 25-26.
16 Op. cit., p. 26.
17 Isaiah Berlin a Myron Gilmore, 26 dicembre 1949, in I. Berlin, Enlightening, cit., p. 148. Esemplare è il caso di Solomon Rachmilevich – ebreo righese di tendenze socialdemocratiche emigrato in Israele, conosciuto da Berlin a Londra anni prima –, per il quale non era «affare di un membro del Partito Laburista scrivere un resoconto “obiettivo” sul ruolo di Churchill; […] un’eroizzazione dell’ancora vivente e operante Churchill, che appare 2 mesi prima delle elezioni». Cfr. Solomon Rachmilevich a Isaiah Berlin, 30 marzo 1950, in Letters from Solomon Rachmilevich to Isaiah Berlin, <http://berlin.wolf.ox.ac.uk/texts/letters/rachmilevich.pdf>, p. 14. Si veda anche M. Ignatieff, Isaiah Berlin, cit., p. 216. Berlin avrebbe poi asserito: «non sarò mai membro di alcun partito benché debba pagare il dovuto per evitare un atteggiamento moraleggiante di neutralità». Isaiah Berlin a Hamilton Fish Armstrong, 27 maggio 1950, cit., p. 180. Berlin
generali del 1950 –, Berlin lodava Churchill come «il più imponente essere umano del nostro tempo»18; ma riportava che, non essendo dotato delle innumerevoli antenne sensibili» che comunicavano a Roosevelt «le minime oscillazioni del mondo esterno in tutta la sua instabile varietà», l’ex primo ministro «modifica[va] il mondo esterno sovrapponendosi e imponendosi ad esso con forza irresistibile»19. Anche i dirigenti sionisti erano riportati alla dicotomia. Il genio politico di Weizmann, che derivava da un «sobrio realismo»20, prossimo a quello di Cavour, al quale somigliava anche quale fondatore di una nazione21. Differentemente da Ben-Gurion (che per l’attivismo e l’ostinazione ideologica sarebbe stato accostato a Mazzini)22 e da Jabotinsky e dai combattenti come Sadeh (assimilabili a Garibaldi)23, Weizmann era infatti «immune da quella vena di razionalismo fanatico che alimenta la fede in soluzioni finali»24: non era armato «di una dottrina, o di un’“ideologia”», ma si «affidava piuttosto al suo senso della correlazione dei fattori storici reali (le forze e le debolezze, gli scopi e i caratteri degli esseri umani e delle istituzioni con cui aveva a che fare); e questi fattori erano a un tempo troppo concreti, troppo complessi e troppo mal definiti perché fosse possibile integrarli in “leggi” o formule storiche, o in panacee ideologiche»25. La fonte delle convinzioni di
aveva sostenuto Attlee nel 1945, ma non era membro del Labour, e va forse accolto con qualche riserva ciò che avrebbe riferito Bryan Magee: «Per quello che so [Berlin] può aver votato una volta, anche due, per un liberale», probabilmente nel 1950, «o un liberaldemocratico. So da lui che votò conservatore in una occasione. Ma so anche da lui, e verso la fine della sua vita, che aveva ‘sempre’ votato laburista». Cfr. B. Magee, Isaiah As I Knew Him, cit., p. 47. Si veda M. Ignatieff,
Isaiah Berlin, cit., p. 151
18 I. Berlin, Winston Churchill nel 1940, in Id., Impressioni personali, cit., p. 47.
19 Cfr. op. cit., p. 32. Si veda anche R.P. Hanley, Political Science and Political Understanding: Isaiah Berlin on the
Nature of Political Inquiry, «The American Political Science Review», 2 (2004), pp. 327-339. Prima di inviare ad
«Atlantic Monthly» il pezzo – una recensione al secondo volume delle memorie di guerra churchilliane, alla revisione del primo volume delle quali aveva collaborato – il filosofo aveva mandato in visione l’articolo allo stesso Churchill, che lo aveva particolarmente apprezzato. A dicembre, su invito del tory Oliver Lyttelton, Berlin aveva partecipato a «una specie di riunione del gabinetto fantasma conservatore», durante la quale Churchill aveva affermato la necessità di «maggiore molteplicità di scelte», avanzando una critica ai laburisti che Berlin aveva condiviso. Cfr. Isaiah Berlin a Bill Deakin, 30 maggio 1949, in I. Berlin, Enlightening, cit., p. 92, e Isaiah Berlin a Rowland Burdon-Muller, 29 dicembre 1949, cit., p. 157-158.
20 Cfr. I. Berlin, La leadership di Chaim Weizmann, cit., p. 285. All’epoca Berlin aveva già letto l’autobiografia di Weizmann, nella quale si poneva l’accento sull’esigenza di un approccio realista e gradualista alla politica. Cfr. Isaiah Berlin a Marion Frankfurter, 28 dicembre 1952, in I. Berlin, Enlightening, cit., p. 348.
21 Si vedano Isaiah Berlin a Lady Daphne Straight, 19 luglio 1943, in I. Berlin, Flourishing, cit., p. 437, Isaiah Berlin a Eliahu Elath, 14 novembre 1952, in I. Berlin, Enlightening, cit., p. 329, e I. Berlin, Dr Chaim Weizmann, «The Times», 17 novembre 1952, p. 8.
22 Cfr. I. Berlin, Zionist Politics in Wartime Washington, cit., p. 691. Si veda anche I. Berlin, Portrait of Ben-Gurion, «Jewish Chronicle», 25 dicembre 1964, pp. 7 e 22.
23 Cfr. I. Berlin, La leadership di Chaim Weizmann, cit., pp. 281-282, e I. Berlin, Yitzhak Sadeh, cit., p. 88. «Io ammiro Cavour e l’empirismo; sono tremendamente riluttante a pensare Garibaldi come un tipo di personalità carismatica, Egli fu il precursore dei mostri per cui abbiamo sofferto ai nostri giorni». Isaiah Berlin a Martin Braun, 7 luglio 1959, in I. Berlin, Enlightening, cit., pp. 690-691.
24 I. Berlin, Chaim Weizmann, cit., p. 67.
Weizmann, piuttosto, era «la sua comunità, il comune patrimonio di idee e l’aria stessa che respirava», ed egli «era un autentico rappresentante del suo popolo», con cui era in costante consonanza26. Propria degli statisti pratici era l’abilità di «comprendere» empaticamente – ciò che, con Vico, Berlin avrebbe definito entrare dentro e, con Herder, Einfühlung (cfr. infra, §§ 3.3 e 3.4) –, distinta dalla mera possibilità di conoscere, il carattere di una situazione nella sua unicità27. «La capacità di giudizio, l’abilità, il senso del tempo, la comprensione immediata del rapporto tra mezzi e risultati», chiariva Berlin, «dipendono da fattori empirici come l’esperienza, l’osservazione, e soprattutto quel “senso della realtà” che consiste in buona parte di un’integrazione semiconsapevole di un gran numero di elementi apparentemente irrilevanti o impercettibili presenti nella situazione; elementi che presi insieme formano un qualche tipo di disegno che di per sé “suggerisce” [suggests] (“sollecita” [invites]) l’azione appropriata»28. Una considerazione, questa, che ricorda alquanto la descrizione della politica, data dal filosofo conservatore Michael Oakeshott in Political education (1951), quale «perseguimento delle indicazioni» (pursuit of intimations) di una «tradizione di comportamento»29.
26 Cfr. I. Berlin, Chaim Weizmann, cit., p. 69. Si vedano inoltre Isaiah Berlin ad Alice James, 7 dicembre 1954, in I. Berlin, Enlightening, cit., p. 462, I. Berlin, The Biographical Facts, cit., p. 25, e I. Berlin, Zionist politics in Wartime
Washington, cit., p. 667.
27 Cfr. I. Berlin, Il realismo in politica, cit., p. 214. «Il tentativo di applicare modelli che funzionano in una regione a un’altra regione (che esige un metodo molto diverso) è alla fin fine una forma di irrazionalismo (di quello che qualcuno ha chiamato l’oscurantismo razionalistico)». Op. cit., p. 218. La distinzione tra comprendere dal conoscere corrispondeva a quella tra il Verstehen e il Wissen diltheyani. Il comprendere, in Berlin, implicava la capacità di attingere alla conoscenza del perché, e non solo del cosa e del come definiti da Gilbert Ryle in The Concept of Mind (1949), Routledge, London 2009, pp. 14 ss. Cfr. I. Berlin, Le idee filosofiche di Giambattista Vico, cit., pp. 144-145, e I. Berlin, Herder e
l’illuminismo, cit., p. 212. Si vedano inoltre R. Jahanbegloo, Conversations with Isaiah Berlin, cit., pp. 36-37, I. Berlin, Giambattista Vico e la storia della cultura (1983), in Id., Il legno storto dell’umanità, cit., p. 102, I. Berlin, Il senso della realtà, cit., p. 76n., e I. Berlin, Il divorzio tra le scienze e gli studi umanistici (1974), in Id., Controcorrente, cit., pp. 119-
163. Nella formazione di questi convincimenti influiva la teoria della riproduzione mentale che Collingwood aveva tratto da Vico, pur trasformandola – secondo Berlin – in un «atto mistico». Cfr. Isaiah Berlin a Morton White, 3 giugno 1954 e 4 ottobre 1954, in I. Berlin, Enlightening, cit., pp. 445 e 452-453, R. G. Collingwood, The Idea of History, ed. T. M. Knox, Oxford University Press, Oxford 1946, paragrafo v.4, e I. Berlin, Le idee filosofiche di Giambattista Vico, cit., p. 122. Si veda inoltre F. Inglis, History Man: the life of R. G. Collingwood, Princeton University Press, Princeton 2011, p. 215.
28 Cfr. I. Berlin, Il realismo in politica, cit., p. 216.
29 Cfr. M. Oakeshott, Political education (1951), in Id., Rationalism in politics and other essays, Liberty Fund, Indianapolis, 1991, p. 57. E, in effetti, al di là della reciproca insofferenza personale, per la lettura che davano dell’attività politica, oltre che per l’influenza che su entrambi avevano avuto le teorie di Collingwood, si possono rilevare notevoli affinità con le posizioni espresse, tra la fine degli anni Quaranta e i primi anni Cinquanta, da Oakeshott, impegnato in una critica al razionalismo che risentiva dell’influenza burkeana; dela quale si veda anche Razionalismo in politica (1947), IBL Libri, Torino 2013. A colmare l’apparente vicinanza tra Berlin e il liberalismo realista niebuhriano, da un lato, e tra Berlin e gli assunti oakeshottiani, dall’altro, provvede la riflessione sugli assunti relativi alla natura umana comuni a Oakeshott e Niebuhr. Si vedano E. Naveh, Reinhold Niebuhr and Non-Utopian Liberalism, cit., pp. 133-135 e 164-172, V. Guroian, Law and Historicity: Burke and Niebuhr, «Modern Age», 2 (1981), pp. 162-172, e The Conservatism of
Reinhold Niebuhr: The Burkean Connection, «Modern Age», 3 (1985), pp. 224-232. Almeno fino alla metà degli anni
L’«arte di governo», per Berlin, implicava una «saggezza pratica» che consentisse di intuire «cosa in determinate circostanze è fattibile e cosa non lo è, quali mezzi funzioneranno in quale momento e in quale misura», non riducibile ad alcuna «formula» o «ricetta generale» insegnabile, perché l’azione politica deve badare alla «complessità» della «situazione reale»30.
Ricci e volpi
Tolstoj (1828-1910), de Maistre (1753-1821) ed Edmund Burke (1729-1797) erano tra i principali autori che Berlin arruolava nella critica realista, sebbene – e in quel periodo ciò valeva anche per altri riferimenti intellettuali – mostrasse di condividere dei loro ragionamenti la pars destruens pluralistica e di rifiutarne, invece, la pars construens che, a suo parere, conduceva in ultimo a una visione monistica31. I primi due autori erano trattati nel noto saggio su Il riccio e la volpe – alla cui versione iniziale, del 1951, seguì due anni dopo una ampliata –, nel quale la dicotomia tra pluralisti e monisti era esemplificata nella metafora zoomorfa ricavata da un frammento di Archiloco secondo cui la «volpe sa molte cose, ma il riccio ne sa una grande»32. Lo scrittore russo e il conte savoiardo non risultavano facilmente collocabili in una delle categorie. Guerra e pace testimoniava, per Berlin, l’attacco alla sociologia scientifica33: Tolstoj si era concentrato sulle peculiarità delle singole circostanze, non riconducendo tutte le esperienze ai loro caratteri comuni34 al fine di applicare un’unica teoria o un unico schema «all’immensa varietà dei possibili comportamenti umani, alla vasta molteplicità di minute, indecifrabili cause e conseguenze che compongono quel gioco reciproco tra uomo e natura»35. In ciò la visione tolstojana finiva per assomigliare a quella di de Maistre, dagli
dei progressisti la «tradizione del responsabile conservatorismo britannico», che intimava il «senso di umiltà» e il ricorso al «compromesso», e aveva tentato di aprire un dialogo con alcuni dei conservatori americani, quali Peter Viereck e Russell Kirk. Si vedano di A.M. Schlesinger, Jr.: The Vital Center, cit., p. 174, The New Conservatism: Politics of
Nostalgia, «Reporter» 12 (1955), pp. 9-12, e Burke in America, «Encounter», 4 (1955), pp. 76-79. Cfr. inoltre G.H. Nash, The Conservative Intellectual Movement in America Since 1945, ISI Books, Wilmington 2006, pp. 199 ss., e Cfr. A.
Donno, In nome della libertà. Conservatorismo americano e guerra fredda, Le Lettere, Firenze 2004, pp. 87-88. Per Spartaco Pupo, l’«affinità tra realismo e conservatorismo è testimoniata in primo luogo dagli assunti circa la natura umana di uno degli intellettuali più influenti del realismo politico novecentesco: Hans J. Morgenthau», nelle cui opere non