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Nazionalismo, sionismo e appartenenza in Isaiah Berlin

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Sommario

Abstract………..4

Introduzione………...5

Parte 1. Dal Baltico a Israele 1.1 La formazione di un’identità ebraico-russa: l’infanzia a Riga e Pietrogrado………..12

1.2 L’importanza di chiamarsi Isaiah: l’educazione in Inghilterra………26

1.3 L’arrivo a Oxford e il viaggio in Palestina: gli anni Trenta……….41

1.4 Le guerre di un sionista moderato: il secondo conflitto mondiale e la nascita d’Israele……….60

Parte 2. La ‘scoperta’ del nazionalismo 2.1 Filosofia e politica nei primi anni Cinquanta………..………….78

2.2 Realismo e pluralismo…...……….100

2.3 «Lo strano fatto che lo Stato d’Israele esiste»………118

2.4 La crisi di Suez e il «rabbino comunista»………..133

Parte 3. Un liberale negli anni della decolonizzazione 3.1 La libertà e le lotte per il riconoscimento……….….146

3.2 Uno sguardo a Israele: la Legge del Ritorno e il processo Eichmann………...161

3.3 Il pluralismo napoletano e il nazionalismo indiano………...171

3.4 In America con Herder: il movimento afroamericano e il nazionalismo culturale…………....185

Parte 4. Nazionalismo e globalizzazione 4.1 La guerra dei Sei giorni e le sue conseguenze………....197

4.2 «Un sentiero terribilmente stretto»: un liberale di fronte alla New Left……….213

4.3 «Professor Berlin, cosa avete contro di me?»: la guerra dello Yom Kippur e il Likud al governo………...227

4.4 Pluralismo culturale, appartenenza e oggettività dei valori: Berlin e Wittgenstein……...……240

4.5 La Torre di Babele: la fine della guerra fredda e la speranza della pace in Medio Oriente…...258

Conclusioni……….….288

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Abstract

Il lavoro intende tracciare una biografia intellettuale del filosofo e storico delle idee Isaiah Berlin (1909-1997), mostrando la centralità dei temi del sionismo, del nazionalismo e dell’appartenenza. Grazie alla ricognizione delle carte private e dell’epistolario si è mirato a superare il dualismo tra la vita e le idee del filosofo, indagando le correlazioni tra l’opera berliniana e gli eventi e dibattiti coevi. La prima parte dell’elaborato si incentra sul periodo che va dalla nascita di Berlin in una famiglia ebraica di Riga, nell’impero russo, all’istituzione di Israele, analizzando la formazione del giovane nell’ambito familiare, l’acculturazione anglosassone e l’approdo a Oxford, il coinvolgimento con il movimento sionista, culminato nella collaborazione con Chaim Weizmann durante la seconda guerra mondiale. La seconda parte affronta l’elaborazione dei capisaldi liberali e pluralistici di Berlin nell’ambito della guerra fredda, palesando il peso che vi ebbero le convinzioni sull’attualità del nazionalismo rafforzate dal dispiegarsi del conflitto arabo-israeliano. La terza parte approfondisce l’impatto dei processi di decolonizzazione sulla distinzione tra i due concetti di libertà e sull’evoluzione delle riflessioni sul pluralismo culturale e valoriale. L’ultima parte contempla i contatti tra l’analisi sui nazionalismi e quella sulle radici delle contestazioni giovanili, concentrandosi, poi, sulla conciliazione berliniana tra la difesa del sionismo e il contrasto allo sciovinismo della destra israeliana. Nelle conclusioni l’impianto del discorso politico-filosofico berliniano sarà riletto alla luce degli elementi emersi sui nessi tra i due piani del pluralismo e tra pluralismo e liberalismo.

The purpose of this dissertation is to provide an intellectual biography of the philosopher and historian of ideas Isaiah Berlin (1909-1997), showing the pivotal role played in his thought by the issues of Zionism, Nationalism and belonging. Also thanks to the the analysis of Berlin’s private papers and letters, I aimed to overcome the dualism between the philosopher’s life and ideas investigating the correlations between his work and contemporary events and debates. The first part of the dissertation is focused on the period from the birth of Berlin in a Jewish family of Riga (still within the boundaries of the Russian Empire) to the foundation of Israel, in order to analyse the young Berlin’s formative years in the family environment, the English acculturation and his arrival to Oxford, but also his involvement with the Zionism, culminated in his collaboration with Chaim Weizmann during World War II. The second part deals with the elaboration of the thinker’s liberal and pluralistic beliefs in the context of the Cold War, revealing the influence on them of his convictions about the topicality of nationalist issue strengthened by the Arab-Israeli tensions. The third part explores the impact of decolonisation process on the elaboration of Berlin’s negative/positive liberty distinction and on the evolution of his reflections on cultural and value pluralism. The last section examinates the linkage between the thoughts on nationalism and those on the sources of student protests in the Sixties, then focusing on Berlinian attempt to reconciliate the defense of Zionism with the opposition to right-wing Israeli chauvinism. In the Conclusions I will reread Berlin’s political-philosophical discourse in the light of the new evidence on the nexus between cultural and value pluralism, and between pluralism and liberalism.

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Introduzione

Non penso di essere un’isola sperduta, ma credo che le relazioni in un arcipelago siano più umane e moralmente e politicamente preferibili rispetto alle barriere coralline con piccoli organismi compressi tutti assieme.

Isaiah Berlin (1989)1

A proposito della teoria dei corsi e ricorsi storici, Sir Isaiah Berlin commentava che Giambattista Vico aveva finito per essere ricordato per la meno «originale delle sue concezioni»2. Tale annotazione potrebbe addirsi anche alla fortuna dello stesso Berlin, legata per lungo tempo a Due concetti di libertà, la celebre prolusione per la nomina nel 1958 a Chichele Professor of Social and Political Theory a Oxford sulla distinzione tra libertà negativa e positiva, che si situava consapevolmente nel solco delle definizioni di libertà già note alla tradizione liberale3.

Grazie anche alla pubblicazione in volume, a cura di Henry Hardy, di numerosi scritti recuperati dai periodici o dalle opere collettanee, in cui originariamente erano apparsi, e delle trascrizioni delle conferenze di cui restavano solo registrazioni e dattiloscritti, sin dagli anni Novanta l’attenzione dei critici si è progressivamente focalizzata sulla più originale e complessa articolazione del value pluralism (pluralismo dei valori), sviluppato da Berlin nei saggi di storia delle idee, e sull’effettiva possibilità – negata in particolare da John Gray e sostenuta, viceversa, da George Crowder4 – di conciliarlo con una proposta universalistica del modello liberale. Ciononostante, la conferenza sui Due concetti di libertà, tra l’altro spesso confusa con una difesa esclusiva – e persino monistica – della libertà negativa, è stata mantenuta come metro sulla base del quale valutare l’intero pensiero di Berlin5.

1 Isaiah Berlin a Beata Polanowska-Sygulska, 20 maggio 1989, in I. Berlin, B. Polanowska-Sygulska, Unfinished

Dialogue, Prometheus Books, Amherst - New York 2006, p. 66.

2 I. Berlin, Le idee filosofiche di Giambattista Vico (1976), in Id., Vico ed Herder. Due studi sulla storia delle idee, Armando, Roma 1978, p. 92.

3 Si vedano G. de Ruggiero, Storia del liberalismo europeo (1925), prefazione di E. Garin, Feltrinelli, Milano, 1966, e G. Bedeschi. Storia del pensiero liberale, Laterza, Roma-Bari 2004. Ho approfondito le fonti della distinzione berliniana tra i due concetti di libertà in A. Della Casa, L’equilibrio liberale. Storia, pluralismo e libertà in Isaiah Berlin, Guida, Napoli 2014, pp. 177-193. Si veda inoltre infra, § 3.1.

4 Cfr. J. Gray, Isaiah Berlin (1995), Princeton University Press, Princeton 1996, e G. Crowder, Isaiah Berlin (2004), il Mulino, Bologna 2007.

5 «Non sarebbe troppo dire che Berlin fece piccolissimi progressi filosofici dopo Due concetti». G. Crowder, A Berlinian

Education, in The Book of Isaiah. Personal Impressions of Isaiah Berlin, ed. H. Hardy, The Boydell Press, Woodbridge

2009, p. 221. Si veda, al contrario, M. Kenny, Isaiah Berlin’s Contribution to Modern Political Theory, «Political Studies» 48 (2000), p. 1031.

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Le tre principali questioni, strettamente correlate, tralasciate o affrontate dagli interpreti adottando un metodo che credo errato, restano quelle relative all’appartenenza, al sionismo e al nazionalismo, sebbene Berlin più volte avesse biasimato la diffusa disattenzione verso l’importanza del fenomeno nazionalistico, insitendo sulla neccessità di «comprenderlo e non sottovalutarlo; perché qualunque cosa non sia compresa non può essere controllata: domina gli uomini invece di essere dominata da loro»6.

L’interesse e il sostegno pratico verso il movimento nazionale ebraico e le riflessioni talvolta benevole – e in quanto tali piuttosto eccentriche nel panorama liberale novecentesco, anche tra gli autori a cui Berlin è spesso accostato7 – non soltanto sulla coscienza dell’appartenenza nazionale, ma anche sulle forme non aggressive di nazionalismo, sono stati spesso rimossi, considerati un obiter dictum nell’opera berliniana, rinviabili a un ambito prettamente sentimentale, e quindi espungibili dalla ricostruzione dell’elaborazione del pensiero politico e filosofico dell’autore, o trattabili solo in contributi a sé stanti8, in quanto giudicati difficilmente compatibili con la lettura in chiave liberale classica che si è andata perpetuando9. A questo proposito è esemplare l’affermazione di Avishai

6 I. Berlin, A Note on Nationalism, «Forethought», Eton College, Windsor 1964, pp. 9-14.

7 Cfr. M. Kenny, Isaiah Berlin’s Contribution to Modern Political Theory, cit., pp. 1031-1032, e P. Kelly, Liberalism and

nationalism, in The Cambridge Companion to Liberalism, ed. S. Wall Cambridge University Press, Cambridge 2015, pp.

329-351. Gray ha sottolineato la distanza di Berlin, sotto questo punto di vista, da Friedrich August von Hayek, Karl R. Popper, John Rawls e Ronald Dworkin. Cfr. J. Gray, Isaiah Berlin, cit., p. 100. Si rimanda inoltre a C. Kukathas, Hayek

and liberalism, in The Cambridge Companion to Hayek, ed. E. Feser, Cambridge University Press, Cambridge 2006, pp.

182-207, M.H. Hacohen, Dilemmas of Cosmopolitanism: Karl Popper, Jewish Identity, and “Central European Culture”, «The Journal of Modern History», 1 (1999), pp. 105-149, e A. Naraniecki, Karl Popper on Jewish Nationalism and

Cosmopolitanism, «The European Legac», 5 (2012), pp. 623-637. Non pienamente condivisibile per quanto concerne la

ricostruzione delle concezioni berliniane, è utile a comprendere il rapporto dei cosiddetti cold war liberals ebraici con il nazionalismo e con il sionismo M.H. Hacohen, “The Strange Fact That the State of Israel Existes”: The Cold War

Liberals Betrween Cosmpolitanism and Nationalism, «Jewish Social Studies», 2 (2009), pp. 37-81.

8 Tra i più importanti saggi dedicati all’interpretazione berliniana del nazionalismo e del sionismo si possono menzionare S. Hampshire, Nationalism, in Isaiah Berlin. A Celebration, eds. E. and A. Margalit, The University of Chicago Press, Chicago 1991, pp. 127-134, Y. Tamir, Whose History? What Ideas?, in op. cit., pp. 146-159, A. Margalit, The Moral

Psychology of Nationalism, in The Morality of Nationalism, ed. R. McKin and J. McMahan, Oxford University Press,

Oxford-New York 1997, pp. 74-87, R. Wollheim, Berlin and Zionism, in The Legacy of Isaiah Berlin, eds. M. Lilla, R. Dworkin, R.B. Silvers, The New York Review of Books, New York 2001, pp. 161-168, S. Avineri, A Jew and a

Gentleman, in The One and the Many. Reading Isaiah Berlin, eds. G. Crowder and H. Hardy, Prometheus Books,

Ahmerst-New York 2007, pp. 73-94; D. Miller, Crooked Timber or Bent Twig? Berlin’s Nationalism, in op. cit., pp. 181-206.

9 Rilevava nel 2004 Pierre Birnbaum che «quasi tutti gli specialisti di Berlin ignorano, nei loro scritti, la sua appartenenza ebraica o, al meglio, la riducono a qualche paragrafo, se non a un capitolo che lascia il lettore quasi sorpreso da simile implicazione». La stessa edizione delle raccolte berliniane in Francia, che ha visto pubblicati i saggi dedicati a Israele e al sionismo in volumi a sé stanti, lasciava credere che si volesse «mantenere una rigida separazione tra i due Berlin, quello ufficiale, presentabile, e l’altro, l’ebreo, peggio ancora, il sionista». Cfr. P. Birnbaum, Isaiah Berlin. Le réveil d’un

nationalisme blesseé, in Id., Géographie de l’espoir. L’exil, les Lumières, la désassimilation, Gallimard, Paris 2004, pp.

238-239. Si segnala, una volta per tutte, che le traduzioni in italiano di opere citate in edizione originale non italiana sono di chi scrive, se non differentemente specificato. Avishai Margalit ed Edward Said hanno sollevato dubbi sulla coerenza

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Margalit, secondo cui il liberalismo e il sionismo apparterrebbero a «differenti livelli nell’anima» di Berlin, il cui sionismo corrisponderebbe alle «emozioni che sono alla base della sua versione di nazionalismo. Per Berlin i sostegni emozionali del nazionalismo sono gli elementi più importanti nel nazionalismo», dal momento che il suo interesse sarebbe stato indirizzato verso «le emozioni, i sentimenti, e gli stati d’animo che stimolano i movimenti sociali, anche più che verso le loro idee»; ciò che lo avrebbe sollevato dal fornire una «giustificazione» al sionismo10.

La causa principale di quella che ritengo la mancata presa di coscienza della rilevanza teoretica sul pensiero di Berlin dei tre filoni d’indagine risiede, a mio parere, nella divaricazione tra il piano

di Berlin nel sostenere contemporaneamente sia i princìpi liberali e pluralisti sia quelli sionisti. Per Margalit la critica berliniana ai modelli a priori confligge con la difesa del sionismo, dato che esso è un’ideologia sistematica (blueprint

ideology). Per Margalit la tensione sarebbe in parte superabile considerando non ideologico, ma rinviabile al solo piano

emozionale, il sionismo di Berlin. Cfr. A. Margalit, The Crooked Timber of Nationalism, in The Legacy of Isaiah Berlin, cit., pp. 156 e 150. Si veda anche E.W. Said, Isaiah Berlin: An Afterthought, (1997), in Id., The End of the Peace Process.

Oslo and After, Vintage Books, New York 2001, p. 219. Le critiche avanzate da Margalit sono state poi riprese da J.

Hogg, The Ambiguity of Intellectual Engagement: Towards a Reassessment of Isaiah Berlin's Legacy, Eras 6 (2004), Si veda la replica di A.M. Dubnov, Liberal or Zionist? Ambiguity or Ambivalence? Reply to Jonathan Hogg, «Eras», 7 (2005), <http://www.arts.monash.edu.au/publications/eras/edition-7/dubnovarticle.php>. Rispondendo all’articolo di Hogg, il filosofo canadese Charles Blattberg ha fatto notare che, soprattutto nei lavori più tardi, Berlin sostiene che «il suo pluralismo richiede di riconoscere come valide un’ampia varietà di ideologie politiche, anche se egli stesso aveva preferenza per il liberalismo e il sionismo». Inoltre «la scelta dell’ideologia dipende dall’interpretazione di un dato contesto politico. Per Berlin ciò significava liberalismo in Gran Bretagna e sionismo in Israele». Cfr. C. Blattberg,

Comments on the paper “The Ambiguity of Intellectual Engagement: Towards a Reassessment of Isaiah Berlin’s Legacy” by Jonathan Hogg, <http://artsonline.monash.edu.au/eras/discussion-pieces/>. Si rimanda inoltre a C. Blattberg, Political Philosophies and Political Ideologies, «Public Affairs Quarterly», 3 (2001), pp. 193-217. Nell’ottica berliniana

l’argomento di Blattberg risulta condivisibile per quanto concerne la compatibilità del pluralismo con differenti sensibilità politiche (il ricorso al termine ideologia in questo caso andrebbe adoperato con maggiore prudenza), così come per l’affermazione che differenti contesti esigano differenti orientamenti politici. Contro la lettura di Margalit, si deve rilevare che Berlin non doveva riconoscere incompatibilità tra sionismo e orientamento liberale, poiché non avrebbe interpretato il sionismo come blueprint ideology e avrebbe convenuto probabilmente con Amos Oz che il «sionismo non è un nome, ma un cognome, un nome di famiglia, e questa famiglia è divisa», tranne che sulla necessità del popolo ebraico di vivere in Israele. Cfr. A. Oz, In the Land of Israel (1983), Harcourt, Orlando 1993, p. 128. Come si avrà modo di vedere, lo stesso Berlin dapprima aveva mostrato comprensione per i sionisti revisionisti. In seguito aveva aderito pienamente alle posizioni dei liberali weizmanniani (e ciò confermerebbe ancor più l’assenza di contraddizioni), assistendo da vicino alle loro dispute con gli “attivisti” di destra e di sinistra durante la seconda guerra mondiale. E, dopo la scomparsa del centro sionista, si era avvicinato ai laburisti. Il sionismo, insomma, da Berlin era ritenuto il variegato movimento che, dapprima, aveva consentito la costruzione di un reale contesto politico ebraico e che, successivamente, aveva continuato a difenderne l’esistenza. Lo stesso liberalismo berliniano poggiava sulla convinzione della necessità di un quadro politico nazionale riconosciuto perché potesse esprimersi pienamente la forma di vita di un popolo. Per ovvi motivi Berlin ravvisava la maggiore urgenza di ribadire tali concetti a proposito di Israele, piuttosto che a proposito della Gran Bretagna, ma non fece mancare richiami all’importanza dell’indipendenza politica delle nazioni europee.

10 Cfr. A. Margalit, The Crooked Timber of Nationalism, cit., pp. 157 e 149-150. Altra testimonianza di quello che sarà dimostrato un fraintendimento del pensiero berliniano si trova in Richard Wollheim, che ha affermato: «In generale, le persone si possono dividere tra quelle a cui piacciono le comunità, quelle a cui piacciono le istituzioni, e quelle che considerato entrambe interferenze necessarie, ma comunque interferenze, alla vita personale Berlin, per come la penso io di lui, apprezzava le istituzioni, non le comunità. A tale riguardo, fece davvero quasi un’eccezione a favore del sionismo». Cfr. R. Wollheim, Berlin and Zionism, cit., p. 268.

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intellettuale e quello biografico e nel metodo di analisi concettuale solitamente adottato. L’imprescindibile biografia ufficiale stesa da Michael Ignatieff11 si rifà prevalentemente alle testimonianze orali e ai ricordi dello stesso Berlin, non concentrandosi sull’indispensabile approfondimento filosofico. I recenti lavori di Arie Dubnov e Joshua Cherniss12 hanno superato lodevolmente l’impianto analitico-concettuale dei precedenti studi di Gray e Crowder. Nonostante ciò, Dubnov ritiene ancora che le convinzioni sioniste e liberali di Berlin vadano considerate una questione di cuore, e la ricerca condotta da Cherniss non si sofferma né sul sionismo né sul nazionalismo. Entrambe le trattazioni, inoltre, non affrontano gli anni successivi al 1958, assumendo implicitamente la conferenza sui Due concetti di libertà quale punto d’arrivo della parabola intellettuale del filosofo. Fanno eccezione allo schema alcuni rari interventi che, sebbene talvolta caratterizzati da eccessi polemici che possono aver pregiudicato l’obiettività, hanno correttamente rimarcato la necessità di integrare le suddette tematiche nel profilo di Berlin13.

A risentirne è stata la piena comprensione, che deve essere naturalmente premessa per ogni seria critica, dei nodi ancora controversi del pensiero berliniano: la fonte dei valori e il loro carattere oggettivo, la definizione del pluralismo valoriale e del pluralismo culturale e la correlazione tra di essi, la natura del liberalismo e la possibilità di giustificarlo – ed eventualmente in quale modo – in un mondo solcato da conflitti morali.

L’affermazione berliniana secondo la quale «le idee di ogni filosofo che si occupi delle cose umane poggiano in ultima analisi sulla sua concezione di quello che l’uomo è e può essere»14 fornisce la prima indicazione sulle direttrici da seguire sia per tentare di sciogliere gli interrogativi sia per individuare il nucleo dell’articolazione filosofica di Berlin. Nelle quattro parti di cui si compone il presente lavoro, dunque, si tenterà di superare, in un’ottica essa stessa berliniana15, il dualismo tra la vita dell’uomo e le sue opere, approfondendo la conoscenza della personalità e della produzione di

11 M. Ignatieff, Isaiah Berlin. Ironia e libertà (1998), Carocci, Roma 2003.

12 Si vedano A.M. Dubnov, Isaiah Berlin: the Journey of a Jewish Liberal, Palgrave Macmillan, New York 2012, e J.L. Cherniss, A Mind and Its Time. The Development of Isaiah Berlin’s Political Thought, Oxford University Press, Oxford 2013.

13 Si pensi in particolare a P. Anderson, Il pluralismo di Isaiah Berlin, in Id., Al fuoco dell’impegno, Il Saggiatore, Milano 1995, J. Cocks, Passion and Paradox. Intellectuals Confront the National Question, Princeton University Press, Princeton, 2002, P. Birnbaum, Between Universalism and Multiculturalism: The French Model in Contemporary Political

Theory, in The Politics of Belonging. Nationalism, Liberalism, and Pluralism, ed. A. Dieckhoff, Lexington Books,

Lanham 2004, pp. 177-193, J. Hogg, The Ambiguity of Intellectual Engagement, cit., e Z. Sternhell, Contro l’Illuminismo.

Dal XVIII secolo alla guerra fredda, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2007.

14 I. Berlin, George Sorel (1971), in Id., Controcorrente. Saggi di storia delle idee, Adelphi, Milano 2000, p. 440. 15 Si veda ad esempio I. Berlin, Two Notions of the History of Culture: The German versus the French Tradition, primo dei Gauss Seminars su The Origins of Cultural History, Princeton University, 1973, <http://berlin.wolf.ox.ac.uk/lists/nachlass/origins1.pdf>, p. 24.

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Berlin nella temperie del Novecento, osservato appunto dall’angolo di visuale di uno dei suoi arguti testimoni, attori e commentatori – che lo definì il «secolo peggiore che l’umanità abbia avuto»16 –, il quale, arrivato in Inghilterra come giovanissimo immigrato ebraico-russo, e incrollabilmente geloso del retaggio delle proprie origini nonostante una formazione cosmopolita, seppe conquistarsi un ruolo di rilievo nella società britannica e nel panorama intellettuale europeo e statunitense ed ebbe la possibilità di entrare in relazione, e talvolta di collaborare, con alcuni dei maggiori protagonisti della cultura e della politica.

Pertanto oltre che ai saggi, agli articoli e alle recensioni, la concentrazione sarà rivolta sugli altri interventi pubblici (dibattiti e interviste) di Berlin, poiché, seppure meno noti, meglio ne sanno elucidare, attraverso il confronto con il pensiero altrui e spesso in virtù della libertà dalle formalità del testo scritto, i punti di vista sulla realtà sociale e politica coeva, e sul ricco epistolario17, che presenta spesso le prime tracce di intuizioni rifinite successivamente ed è indispensabile tanto per la ricostruzione della vicenda biografica quanto per una più consapevole lettura del corpus berliniano18. Dall’opera di raffronto tra i due tipi di fonti, oltre a una più precisa periodizzazione dell’itinerario e delle convinzioni del filosofo, è risultata l’evidenza dell’impronta che vi impressero l’esperienza e i trascorsi personali, le certezze trasmessegli nell’ambito familiare, le affiliazioni, le idiosincrasie e le inclinazioni e debolezze del carattere19.

16 Isaiah Berlin ad Arthur Schlesinger, 4 ottobre 1993, in I. Berlin, Affirming, cit., p. 470.

17 Del ricco epistolario berlinano è stata data alle stampe una selezione in quattro volumi per il periodo tra il 1929 e il 1997. Ma buona parte (tra cui quasi tutte le missive ricevute dal filosofo) è ancora inedita ed è conservata presso la Bodleian Library di Oxford. Le lettere inedite saranno qui citate facendo seguire al riferimento della collezione (MS. Berlin) il numero dello scaffale e dei fogli dai quali i passi sono tratti. Ho inoltre utilizzato le carte private della famiglia Berlin – in particolare lo scritto autobiografico del padre di Isaiah (edito), il manoscritto autobiografico e i diari della madre e le lettere degli zii (tutti inediti e conservati presso la Bodleian Library) – che hanno fornito soprattutto testimonianza dell’ambiente culturale in cui Berlin fu allevato. Si precisa una volta per tutte che le citazioni dall’epistolario di Isaiah Berlin e della famiglia Berlin-Samunov e dagli scritti di Marie Berlin sono effettuate con il cortese permesso dell’Isaiah Berlin Literary Trust (© The Isaiah Berlin Literary Trust 2017).

18 Date le ragioni della presente opera, si approfondiranno, nel loro variare, le interpretazioni storiografiche berliniane badando al contesto in cui vennero prodotte, più che alla loro correttezza filologica, per la quale si rimanda alle analisi e ai testi citati in A. Della Casa, L’equilibrio liberale, cit. Proprio per la volontà di privilegiare la dimensione teorica, ci si riferirà a Berlin, definendolo filosofo più che storico delle idee.

19 Risultano, ad esempio, reticenze e incongruenze tra i pronunciamenti privati e quelli pubblici; sebbene, per scoprire i reali umori e le più sincere convinzioni di Berlin, non si debbano inevitabilmente considerare maggiormente affidabili i carteggi, nei quali talvolta – ma con eccezioni notevoli (basti solo pensare alla controversia con Thomas Stearns Eliot nei primi anni Cinquanta) – egli era portato dall’insofferenza per i confronti diretti e dall’ansia di piacere, a cercare una conciliazione con le posizioni dei corrispondenti quando non il loro consenso. Un difetto del carattere, questo, che Berlin ammetteva, attribuendolo al disagio inizialmente patito per le proprie origini nel contesto inglese, e a quale in parte rinviava l’invito al compromesso in campo politico. Si vedano ad esempio I. Berlin, Affirming, cit., p. 187, e Isaiah Berlin a Henry Hardy, 2 aprile 1991, in op. cit., pp. 496-497. Probabilmente anche per questo avrebbe scritto di comprendere «perfettamente cosa intendeva Wystan [Hugh Auden] quando voleva distrutte tutte le sue lettere, e pensava che gli scrittori

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Gli interventi sull’appartenenza, sul nazionalismo e sul sionismo saranno quindi messi in risalto nell’intreccio della riflessione berliniana; e, se questa risulterà ritmata dagli eventi a essa contemporanei20 – basti pensare a quelli relativi al conflitto arabo-israeliano che, nella sua drammaticità, gli imponeva un interesse non marginale e non neutrale a quei temi –, l’indagine ne dischiuderà, assieme ai ripensamenti e alle revisioni, la coerenza interna21 e rivelerà un quadro più fedele a quelle che paiono le reali intenzioni del filosofo, poiché terrà nel dovuto conto i costanti riferimenti di Berlin alla dimensione sociale e culturale dello sviluppo della personalità umana, all’incompatibilità e all’incommensurabilità tra le costellazioni valoriali delle differenti culture, ai nessi insormontabili tra la dimensione culturale e quella politica di ciascuna nazione; e quindi alla ricchezza e alla complessità del confronto e del dialogo interculturali.

Per attingere alla conoscenza antropologica – a ciò che l’uomo è e può essere –, infatti, egli giudicava che si dovesse considerare il rapporto sussistente tra l’individuo concreto e la comunità nella quale questi si sviluppa e dalla cui cultura credeva in parte modellata l’identità, evitando gli eccessi atomistici e organicistici. Ed è entro questa dinamica, che nel Novecento era portata nuovamente alla ribalta e all’attenzione dello stesso Berlin dalle lotte anticoloniali e dalle richieste di riconoscimento e di indipendenza nazionale delle minoranze (tra cui quella ebraica), che si deve situare la riflessione, che tanto ha pesato sui giudizi che lo hanno riguardato, sul liberalismo e sulla libertà individuale. Libertà che in Berlin né viene sussunta, in nome dell’essenzialismo, dalla realizzazione del bene della propria comunità, né è annullata in virtù di un determinismo teleologico che muoverebbe gli appartenenti a una medesima cultura; ma che nemmeno è indicata quale valore a cui assegnare sempre primazia assoluta, possedendo infatti l’ampiezza e il significato che le sono diversamente attribuiti al variare delle epoche e dei contesti e che ne mutano il peso nella scelta tra altri valori.

Come si argomenterà nelle conclusioni, questi postulati influivano grandemente sul carattere e sul fondamento che Berlin conferiva effettivamente al suo liberalismo, sfrondato delle pretese di validità universale e inteso quale orientamento, una «sensibilità» e non un’ideologia22, non soltanto inscritto

hanno il diritto di non dischiudere le loro vite private». Cfr. Isaiah Berlina Nicolas Nabokov, 21 dicembre 1976, in op. cit., p. 40.

20 Kenny, condivisibilmente, evidenziava nel 2000: «C’è una tendenza negli scritti recenti su [Berlin] a scollegare il suo pensiero dagli acuti dilemmi posti dai contesti geopolitici e dalle crisi dei quali ebbe esperienza – talvolta con un attore politico impegnato e di parte». M. Kenny, Isaiah Berlin’s Contribution to Modern Political Theory, cit., p. 1037. 21 In questa ottica mi propongo di andare oltre il riconoscimento di quella che avevo definito la «“coerenza profonda” di un pensatore plurale» in A. Della Casa, L’equilibrio liberale, cit., pp. 5-23.

22 Corrado Ocone include Berlin tra coloro che hanno proposto un «liberalismo storicistico» o un «liberalismo senza teoria» che, crocianamente, pensa la «filosofia dei fatti particolari»: «essendo il liberalismo un metodo e non un sistema, una terapia e non una “teoria”, un’ispirazione e una sensibilità e non una precettistica, esso neanche da questo punto di vista è assimilabile alle altre dottrine o ideologie politiche». Cfr. C. Ocone, Liberalismo senza teoria, Rubbettino, Soveria

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in un orizzonte morale condiviso, da lui identificato con quello europeo (e, per estensione, occidentale)23, che tributasse particolare rilevanza alla tolleranza e alla libertà della scelta, ma pure polimorfico, poiché modulato in conformità alla gerarchia assiologica peculiare di ciascuna comunità nazionale.

Mannelli 2013, pp. 7 e 32. Si veda anche C. Ocone, Il liberalismo nel Novecento. Da Croce a Berlin, Rubbettino, Soveria Mannelli 2016, pp. 121-154. Berlin, tra l’altro, avrebbe esplicitato di non considerarsi «un genere di ideologo, identificato con un movimento», come, correttamente o meno, credeva fossero i filosofi socialisti H.J. Laski, R.H. Tawney e G.D.H. Cole, e il conservatore Michael Oakeshott. Cfr. Isaiah Berlin a Noel Annan, 12 maggio 1979, in I. Berlin, Affirming.

Letters 1975-1997, eds. H. Hardy and M. Pottle, Chatto & Windus, London 2015, p. 105.

23 Per Salvatore Veca, Berlin intendeva testimoniare che «il carattere storico, contingente e situato delle nostre concezioni etiche e politiche non solo non riduce la nostra lealtà ai valori che riteniamo di dover onorare», ma invita a difenderli, essendo consapevoli «delle metamorfosi e dei mutamenti di senso delle nostre principali idee di tipo etico e politico» e delle «possibilità alternative» che sarebbero potute e potrebbero ancora insorgere. Cfr. S. Veca, L’idea di incompletezza.

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Parte 1. Dal Baltico a Israele

Nato nel 1909 da una famiglia ebraica di benestanti commercianti di legname nella città di Riga, allora ancora parte dell’impero russo, Isaiah Berlin ricevette nell’ambito familiare la prima educazione, incentrata sulla cultura ebraica e, come egli sottolineerà, specificamente ebraico-russa, influenzata prevalentemente dalla figura della madre, che aveva trasmesso al figlio i propri convincimenti sul sionismo e sulla connotazione etnoculturale dell’ebraicità. Per sfuggire al regime sovietico, i Berlin nel 1921 lasciarono Pietrogrado, in cui vivevano da qualche anno, per Londra, dove Isaiah avviò un processo di acculturazione, interpretando e facendo propria la nuova cultura attraverso il filtro dell’appartenenza ebraico-russa. Avendo proseguito il percorso di studi a Oxford, fu nominato fellow del college di All Souls negli anni Trenta. Allora visitò la Palestina, biasimando l’amministrazione britannica e, per l’opportunismo e la svalutazione per le rivendicazioni degli arabi, i sionisti laburisti e moderati e accordando, viceversa, la propria preferenza ai revisionisti di Vladimir Ze’ev Jabotinsky. Nel 1937, Berlin supportò per la prima volta la causa sionista, fornendo informazioni e suggerimenti circa la commissione britannica Peel, che avrebbe proposto la divisione della Palestina in due Stati. Durante la seconda guerra mondiale fu impiegato al ministero dell’Informazione e l’ambasciata britannici negli Stati Uniti. Negli anni della radicalizzazione del movimento nazionale ebraico americano e delle rivendicazioni per l’istituzione di uno Stato ebraico, Berlin tentò di contenere il conflitto interiore tra la lealtà al governo di Sua Maestà e le convinzioni sioniste, difendendo le posizioni del filobritannico Chaim Weizmann, di cui era divenuto uno dei più fidati collaboratori. Tale fedeltà a un approccio realista e gradualista, se avrebbe influenzato la sua riflessione politico-filosofica del periodo postbellico, gli avrebbe imposto anche un imbarazzante silenzio sulle informazioni relative allo sterminio degli ebrei europei.

1.1 La formazione di un’identità ebraico-russa: l’infanzia tra Riga e Pietrogrado Anche se mi sono anglicizzato parecchio, sono un ebreo russo.

Isaiah Berlin (1996)1

Un buon lignaggio

«Suppongo di dovere il mio giudeocentrismo […] a lei e al suo mondo e alle radici culturali ebraico-russe». Così, in una lettera a Stuart Hampshire, scriveva Isaiah Berlin a proposito della madre, Mussa Marie Volshonok, scomparsa nel febbraio del 1974. Sottolineando il nesso indissolubile tra la propria identità e il percorso che egli aveva compiuto come filosofo e come storico delle idee, aggiungeva: «Il mio debito nei suoi confronti è gigantesco come sai bene: tutte le mie credenze herderiane sono fondate sulla ricca e solida tradizione in cui sono stato allevato per dieci anni». La perdita lasciava «un senso di desolazione e di amputazione: come se un intero mondo di parole, simboli, allusioni, riferimenti fosse svanito»2; una sensazione di solitudine esistenziale, di «homelessness, lo spezzarsi

1 A. Michnick, I. Berlin, È la gente perbene a erigere le ghigliottine, «Micromega», Almanacco di filosofia ’96, p. 108. 2 Cfr. Isaiah Berlin a Stuart Hampshire, 23 febbraio 1974, in I. Berlin, Building. Letters 1960-1975, eds. H. Hardy and M. Pottle, Chatto & Windus, London 2013, pp. 564 e 563.

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dell’ultima radice che mi connetteva alle mie origini»3. Due mesi dopo, Berlin ribadiva che la madre «era davvero una personalità ebraica completamente formata, ed era un’orgogliosa e degna rappresentante di una tradizione e di una cultura: le mie convinzioni e prospettive, così come sono, derivano direttamente dalla solida e incrollabile educazione ebraica che mi è stata data». Ella «era una forte combattente per tutti i valori ebraici: anima naturaliter sionista», ed egli si considerava sempre più vicino alla fede di lei nell’«emancipazione degli ebrei schiavizzati, colonizzati, metà risentiti metà acquiescenti, metà invidiosi degli stranieri metà vergognosi del desiderio di essere accettati» da loro. Il lascito culturale e morale che sentiva di aver ricevuto da Marie era differente, e più profondamente identitario, di quello che riteneva gli derivasse dal padre, Mendel: «Amavo mio padre, ma nonostante mi sentissi terribilmente triste, la sua morte non spazzò via il mio passato; la morte di mia madre ha rotto un legame vitale»4.

Può essere rinviato a questa percezione, e non soltanto al desiderio che il padre fosse stato «secolare, razionale e progressista»5, l’atteggiamento sprezzante riservato allo scritto autobiografico paterno – steso tra il 1946 e il 1949 «per il bene di [suo] figlio»6 –, che Berlin aveva accettato di leggere solo cinquanta anni dopo, su pressione del proprio biografo Michael Ignatieff, ravvisandovi la volontà di un «ritorno alle radici» e un «sentimentalismo ebraico» artefatti, riemersi soltanto in vecchiaia, dopo una vita da evolué7. Nondimeno le memorie di Mendel e quelle ancora inedite di Marie, confrontate con i ricordi che Isaiah Berlin consegnò a lettere, interviste e dialoghi, forniscono uno strumento indispensabile per ricostruire la storia familiare, l’ambiente righese in cui il futuro storico delle idee nacque nel 1909 e, appunto, quei dieci anni e poco più successivi alla sua nascita, durante i quali con la famiglia si trasferì dapprima ad Andreapol’, poi a Pietrogrado e infine, con un breve intermezzo righese, a Londra.

Quel che Mendel, consapevole della morte per mano nazista della gran parte dei membri della propria famiglia, intendeva trasmettere al figlio – e ciò che per questi avrebbe rappresentato fonte di disagio – era l’orgoglio di appartenere a un buon lignaggio (yikhes), che affondava le radici in una delle maggiori famiglie ebraiche dell’Europa orientale, la quale aveva annoverato una «lunga serie di

3 Isaiah Berlin a Nicolas Nabokov, 19 febbraio 1974, in op. cit., p. 561

4 Cfr. Isaiah Berlin a Walter Eytan, 26 aprile 1974, in op. cit., p. 565. In occasione della morte del padre aveva scritto comunque che «una larga parte di sé, una radice che era lì fin da quando uno ricordi, se ne è andata». Isaiah Berlin a William e Alice James, 23 dicembre 1953, in I. Berlin, Enlightening. Letters 1946-1960, eds. H. Hardy and J. Holmes, Chatto & Windus, London 2009, p. 415.

5 A.M. Dubnov, Isaiah Berlin, cit., p. 28.

6 Mendel Berlin, For the Benefit of My Son (1949), in The Book of Isaiah, cit., p. 265.

7 Cfr. M. Ignatieff, Isaiah Berlin, cit., p. 22, e I. Berlin, Tra la filosofia e la storia delle idee. Intervista autobiografica a

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rabbini e di studiosi»8, tra i quali il rabbino Shneur Zalman di Liadi, vissuto a cavallo tra Settecento e Ottocento e fondatore della corrente Habad (conosciuta anche come setta Lubavitch) del pietistico hassidismo9; antenato comune a Mendel e a sua moglie e cugina di primo grado Marie, la quale poteva anche vantare la discendenza dal rabbino Shneur Zalman Fradkin10.

Nato nel 1883 a Lublino, ma presto trasferitosi a Vitebsk con la famiglia, Mendel era stato rigidamente allevato ai princìpi religiosi in uno heder, in un contesto esclusivamente ebraico, per volontà del padre, Ber, che parlava solamente yiddish. Grazie alla madre, che aveva seguito la tendenza in voga tra i maskilim (i fautori della Haskalah, l’illuminismo ebraico) e si era dedicata alla cultura russa e tedesca, aveva però ricevuto anche un’educazione laica, apprendendo i rudimenti della grammatica ebraica e il russo11. All’età di dodici anni, nel fallimentare tentativo di accedere al Gymnasium, Mendel era stato inviato a Riga, presso Shaya Berlin, il prozio paterno che aveva adottato Ber – di qui la mutazione del cognome dall’originale Zuckerman –, un milionario commerciante di legname appartenente alla Prima Gilda, titolo che garantiva la cittadinanza russa trasmissibile ai propri discendenti e la libertà dalle restrizioni imposte agli ebrei, tra cui quella di risiedere nella Zona di residenza istituita dalla zarina Caterina II nel 179112. Nel momento in cui Mendel si apprestava a diventare il responsabile delle esportazioni dell’impresa13, intervenne la prima rivoluzione russa. Una sorella di Mendel, Evgenia, avendo avuto un ruolo marginale tra i socialisti rivoluzionari nelle agitazioni del 1905 e rischiando l’arresto durante la severa repressione accompagnata da pogrom che interessò anche Riga14, riparò per qualche tempo a Varsavia15. In quel periodo Mendel chiese in sposa Marie che, dopo un iniziale rifiuto, acconsentì al matrimonio16. La Riga dell’epoca, avrebbe ricordato Isaiah, era composta da circa duecentomila abitanti e da una «colonia straniera di ventimila persone». «C’erano circa tremila russi, sessantamila tedeschi,

8 Mendel Berlin, For the Benefit of My Son, cit., p. 265.

9 Si veda in proposito I. Etkes, Rabbi Shneur Zalman of Liady. The Origins of Chabad Hasidism, Brandeis University Press, Lebanon (NH) 2014. Per gli alberi genealogici delle famiglie Berlin, Fradkin e Volshnok si veda I. Berlin,

Flourishing. Letters 1929-1946, ed. H. Hardy, Pimlico, London 2005, pp. l-liii.

10 Cfr. Mendel Berlin, For the Benefit of My Son, cit., p. 270. 11 Cfr. op. cit., pp. 275-281.

12 Cfr. op. cit., pp. 284 e 276. Isaiah Berlin avrebbe detto di Shaya: «Viveva come un mahrajah: portavano due rabbini, un macellaio kosher, buffoni di corte, tre segretarie. Occupavano tre ville ed erano completamente isolati. […] questo era assolutamente medievale». Cfr. I. Berlin, B. Polanowska-Sygulska, Unfinished Dialogue, cit., p. 164.

13 Cfr. M. Ignatieff, Isaiah Berlin, cit., p. 26.

14 Dubnov scrive che Riga fu percorsa da un pogrom di due giorni tra il 22 e il 23 ottobre 1905. Cfr. A.M. Dubnov, Isaiah

Berlin, cit., p. 28.

15 Cfr. Mendel Berlin, For the Benefit of My Son, cit., p. 292. Sugli eventi rivoluzionari a Riga e nelle province baltiche si veda J. Frankel, Prophecy and Politics Socialism, Nationalism, and the Russian Jews, 1862-1917, Cambridge University Press, Cambridge 1984, pp. 145 ss.

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quarantamila ebrei e da cento a centocinquantamila lettoni»: «In cima alla scala sociale stavano i baroni baltici. Erano di origine tedesca ed erano sostenitori fanatici del governo zarista. Avevano delle cariche importanti nel governo russo, ma non erano molto popolari nel paese. A casa tendevano a parlare tedesco. Subito dopo di loro venivano i ricchi mercanti tedeschi e scandinavi: danesi, svedesi, e anche scozzesi e inglesi. […] Poi c’erano gli ebrei. Gli ebrei ricchi parlavano il tedesco. […] Poi venivano gli ebrei russi della classe media, che parlavano il russo, e subito dopo gli ebrei del ghetto»17. I lettoni occupavano la posizione sociale più bassa18. Mentre Mendel si collocava a metà tra gli ebrei germanofoni e quelli russofoni, Marie, nata nel 1880, proveniva da quello che Isaiah, seguendo l’uso materno, chiamava ghetto; in realtà il sobborgo della Dvina Rossa, abitato dagli «ebrei poveri»19 e «parlanti yiddish, i cui figli parlavano russo»20, che lavoravano per altri ebrei21, come nel caso del padre di Marie, anch’egli impiegato presso la ditta di Shaya.

Scritte tra l’8 febbraio 1971 e il 7 gennaio 1972, le memorie di Marie forniscono il quadro di una città nella quale le relazioni intercomunitarie erano spesso conflittuali e rafforzavano l’identità culturale di ciascuno22. A emergere prepotentemente è soprattutto il diffuso e rabbioso antisemitismo, che Marie aveva sofferto tanto da «vegliare la notte e pensare come quell’odio potesse essere curato»23, manifestato in modo particolare dai cristiani righesi di origine tedesca24. Tra loro la sorella di una sua cara amica, figlia anch’ella di un dipendende di Shaya: «era un’antisemita nel senso pieno [del termine]. Credo che fosse qualcosa che nessuno potrebbe rimproverarle. Sentiva soltanto cattivi resoconti sugli ebrei. Inoltre non poteva comprendere che nazion[i] come gli ebrei o gli arabi

17 Cfr. I. Berlin, Tra la filosofia e la storia delle idee, cit., p. 35. Isaiah definiva Riga «una grande città dominata dalla cultura tedesca»: la cui classe media tedesca aveva costituito un «avamposto» in opposizione ai tentativi assimilazionisti dei «grandi feudatari russi». Cfr. I. Berlin, Yitzhak Sadeh (1993), in Id., Personal Impressions, ed. H. Hardy, Princeton University Press, Princeton 2001, p. 79.

18 Cfr. M. Ignatieff, Isaiah Berlin, cit., p. 21. I lettoni dell’epoca erano «una rigida, industriosa, oppressa popolazione di contadini protestanti». Cfr. I. Berlin, Yitzhak Sadeh, cit., p. 79.

19 Isaiah Berlin a Michael Ignatieff, citato in H. Hardy, My Name Is Isaiah Berlin, and I Come from Riga, conferenza al Maza Gilde di Riga, 6 giugno 2011, <http://isaiahberlin.org/isaiah-berlin-and-riga>.

20 I. Berlin, Yitzhak Sadeh, cit., p. 79.

21 Cfr. I. Berlin, Tra la filosofia e la storia delle idee, cit., p. 35.

22 Dubnov correttamente definisce Riga una realtà essenzialmente «baltica», nella quale gli ebrei non erano né raccolti nelle «corporative e semiautonome kehillah» come in Europa orientale, né totalmente integrati – almeno per quanto concerneva la loro classe media – come nelle città dell’Europa occidentale. Ritiene però che la società «multietnica» righese implicasse interazioni che attraversavano trasversalmente le varie etnie, stimolando «pratiche di dissimilazione, generate per controbilanciare la forte spinta verso una maggiore integrazione e assimilazione». Il racconto autobiografico di Marie, in effetti, dimostrerebbe una scarsa propensione delle varie etnie e delle varie classi sociali, soprattutto se in relazione agli ebrei, a trasformare le interazioni quotidiane in reali occasioni di contaminazione e di integrazione culturale. Pertanto difficilmente la Riga dell’epoca potrebbe definirsi una «realtà culturalmente pluralistica». Cfr. A.M. Dubnov,

Isaiah Berlin, cit., pp. 18-20.

23 Cfr. Marie Berlin, Autobiographical Notes, pp. 15 e 47. 24 Cfr. op. cit., pp. 17 e 22-23.

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potessero essere scure e avere capelli neri, potessero avere il loro proprio modo di vivere, la loro propria religione»25.

L’ebraicità quindi da Marie era intesa, già in gioventù, nei termini prevalentemente etnici e culturali – gli ebrei erano, appunto, una nazione, al pari degli arabi o dei tedeschi26 – esposti in maniera più articolata dai membri della coeva corrente etnicista e nazionalista degli ebrei russi. Da questa convinzione discendeva quasi inevitabilmente una conclusione: «A quel tempo, molte decadi fa, divenni una devota sionista. Non ne feci menzione a mio padre o a [mia] madre, o ad alcuno dei miei amici. Ma nel mio cuore ero certa che avrei potuto avere qualche compensazione per le sofferenze dalla mia infanzia»27. L’«innato desiderio» di trasferirsi in Palestina, però, fu accantonato per via delle responsabilità che sentiva nei confronti del fratello e delle sorelle28. Impossibilitata a trasferirsi a Pietroburgo per intraprendere lo studio da cantante lirica, Marie provvide alla propria educazione, imparando e parlando correntemente il russo e il tedesco, e occupando il tempo libero con la letteratura tedesca – Goethe e Heinrich Heine su tutti – e francese29. Rifiutati i numerosi pretendenti che il padre aveva sottoposto al suo giudizio e non potendo presentare ai propri genitori, «hassidim devoti»30, un goy (gentile) quale possibile marito, Marie aveva finito per sposare Mendel nel marzo del 190631. I coniugi Berlin si stabilirono a Moskauer Vorstadt, l’elegante distretto della buona borghesia ebraica», al quarto piano del numero 2a di Albertstraße, un edificio in stile Art Nouveau la cui facciata, riccamente decorata e con due grandi sfingi ai lati del portone d’ingresso, era stata

25 Cfr. op. cit., pp. 15 e 17. Marie ricordava di essere andata a teatro con Johanna Wallenburger e che la ragazza tedesca non aveva apprezzato i tentativi di Marie di sedersi accanto a lei, temendo che qualcuno potesse accorgersi che una gentile come fosse accompagnata da un’ebrea Cfr. op. cit., p. 46.

26 «Mia madre non pensava a se stessa come a una russa o a una lettone, ma come a un membro della nazione ebraica». Intervista a Isaiah Berlin di Jeremy Tarsh and Jonathan Wolfson, On Israel, Zionism and the Jews, «Jewish Chronicle», 18 aprile 1986, p. 31

27 Marie Berlin, Autobiographical Notes, p. 16.

28 Op. cit., pp. 36-37. Della sua famiglia sarebbero scampate all’eccidio nazista degli ebrei righesi del 1941 solo due sorelle: Zelma, che all’epoca viveva già da tempo a Mosca, e Ida, che avrebbe realizzato il desiderio insoddisfatto da Marie («Non so se abbia la più pallida idea di quanto debba a me per il fatto di essere lì» commentava amaramente), essendosi trasferita in Palestina nel 1934, dopo un periodo trascorso a Russia, insieme al marito, Yitzhak Samunov, che a Riga era stato membro dell’associazione Shochare’i Zion (Sostenitori di Sion). Cfr. Marie Berlin, Autobiographical

Notes, p. 36, e A.M. Dubnov, Isaiah Berlin, cit., p. 3. Il 19 novembre 1939 Marie avrebbe annotato sul diario che «per il

vicino o i vicini antisemiti c’è solo un aiuto: aiuto nazionale». Marie Berlin, Diary, volume 1, 19 novembre 1939. 29 Cfr. Marie Berlin, Autobiographical Notes, cit., p. 25.

30 Cfr. I. Berlin, Tra la filosofia e la storia delle idee, cit., p. 33.

31 Marie Berlin, Autobiographical Notes, cit., p. 36. Anche per Marie, comunque, la scelta di un coniuge ebraico sembrava rivestire notevole importanza. Nelle sue memorie, infatti, scriveva: «Quando mi guardo intorno e vedo quante [donne ebree] hanno sposato mariti non ebrei, sono perplessa di come esse abbiano potuto dare la loro vita a un uomo che non ha sentimento o ammirazione né per il Vecchio Testamento né per alcuna cosa che sia accaduta nei duemila anni dopo che venimmo cacciati da Israele. […] Ma chiaramente cessano di preoccuparsi degli ebrei, o dei problemi ebraici; allora non dovrebbero essere sorprese che noi ebrei li vediamo come stranieri» Cfr. op. cit., p. 45. Si veda anche Mendel Berlin,

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disegnata da Mikhail Ejzenštein, padre del regista Sergej32. Isaiah nacque in quelle stanze il 6 giugno 1909, dopo un parto complicato: l’utilizzo del forcipe aveva lacerato alcuni muscoli del braccio sinistro del neonato, causando una permanente disabilità. Il nome del bambino fu scelto in onore di Shaya – e Shaya fu pure il soprannome che Isaiah avrebbe avuto nella cerchia familiare e in quella delle amicizie – che, morto nell’estate del 1908, aveva liberato Mendel dalla lunga «tirannia», lasciandogli ventimila rubli di eredità, che sarebbero stati impiegati nella nuova florida società di esportazione di legname33.

Isaiah, in una lettera del 1964, così avrebbe descritto la propria infanzia: «Fui allevato fino all’età di nove anni nella maniera più convenzionalmente middle-class [e] borghese immaginabile – in una ripugnante casa di pietra nella molto tedesca città di Riga, e poi a Pietrogrado, con una tetra governante e i più severi possibili valori della classe media: e successivamente sono stato trapiantato fisicamente a Londra, NW3»34. Affidato alle cure di una balia tedesca, Isaiah fino all’età di tre anni parlò tedesco35, ma poi perse la dimesticheza con quella lingua36. L’istitutrice scelta per lui dai genitori, difatti, lo trasformò in un russofono. Gli stessi Mendel e Marie in casa parlavano russo, mentre ricorrevano all’yiddish solo nella comunicazione con i genitori37, al punto che Isaiah non seppe mai parlarlo, pur comprendendone alcuni vocaboli38 – e difatti se ne trova l’uso, benché raro, nella corrispondenza –, maturando piuttosto una perdurante insofferenza per la yiddishkeit e per il retaggio che, ai suoi occhi, essa rappresentava nel mondo ebraico.

32 Cfr. A.M. Dubnov, Isaiah Berlin, cit., p. 23.

33 Cfr. Mendel Berlin, For the Benefit of My Son, cit., pp. 295-296.

34 «Non molto simile all’infanzia di B[ernard]B[erenson]», aggiungeva Berlin. Isaiah Berlin a Hamish Hamilton, 14 gennaio 1964, in I. Berlin, Building, cit., p. 178. La descrizione delle proprie origini, in effetti, era motivata dalla contestazione che Isaiah Berlin aveva mosso a un passaggio contenuto nell’introduzione di Iris Origo ai diari dello storico dell’arte Bernard Berenson, pubblicati postumi. Berenson, nato da una famiglia ebraica in Lituania, ma negli Stati Uniti sin dall’età di dieci anni, aveva scritto che lui e Berlin provenivano «dallo stesso tipo di ghetto, passati sotto gli stessi condizionamenti anglosassoni, e siamo stati entrambi lettori, scrittori, pensatori. Eppure…egli è Fellow ad All Souls, e io non sono mai appartenuto a nessun luogo». I. Origo, Introduction, in B. Berenson, Sunset and Twilight: From the Diaries

of 1947-1958, ed. N. Mariano, Brace & World, Harcourt 1963, p. xvi. Berlin era rimasto particolarmente sconcertato

dall’idea che Berenson si era fatto di lui, anche se precisava che la sua protesta verso Nicky Mariano, curatrice del volume, era tesa a ripristinare la verità sulle proprie origini e non derivava dal disprezzo nei confronti del ghetto. Cfr. Isaiah Berlin a Hamish Hamilton, 22 gennaio 1964, in I. Berlin, Building, cit., p. 179. Con «London NW3» Berlin intendeva il quartiere londinese di Hampstead, in cui, al numero 49 di Hollycfroft Avenue, la famiglia si sarebbe trasferita solo nell’ottobre del 1928. In realtà, dopo aver trascorso i primi mesi in Inghilterra nel sobborgo di Surbiton, i Berlin avrebbero vissuto dal 1922 al 1928 a West Kensington, al numero 33 di Upper Addison Gardens (in effetti “London W14”).

35 Cfr. I. Berlin, B. Polanowska-Sygulska, Unfinished Dialogue, cit., p. 164. 36 Cfr. M. Ignatieff, Isaiah Berlin, cit., p. 40.

37 Cfr. op. cit., p. 23, e I. Berlin, Tra la filosofia e la storia delle idee, cit., pp. 35-36.

38 Cfr. I. Berlin, The Early Years, in Then and Now. A Collection of Recollections, ed. F. Silver Jackson, Oxford Jewish Congregation, Oxford 1992, p. 17. Si veda anche A. Michnik, I. Berlin, È la gente perbene a erigere le ghigliottine, cit., p. 111.

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Da Riga a Pietrogrado

Nel 1915, all’avanzata delle truppe tedesche in direzione della Lettonia gli alti comandi dell’esercito russo ordinarono che gli ebrei, sospettati di spionaggio e di sentimenti filotedeschi39, venissero trasferiti immediatamente verso i territori più interni. I trentamila ebrei di Riga riuscirno a scampare all’espulsione, istituendo un comitato apposito e corrompendo il governatore generale della città. Temendo che nel contesto di crescente antisemitismo potesse essere creduta l’accusa di avere dato alla fiamme, al fine di riscuotere il denaro dell’assicurazione, il mulino che aveva affitato come deposito, Mendel indirizzò la moglie e il figlio ad Andreapol’, un piccolo villaggio nella regione di Tver’, che apparteneva alla sua società, mentre egli tentava di far valere a Pietrogrado le richieste di risarcimento40. Nella mente di Isaiah, sebbene avesse allora solo sei anni e pur avendovi trascorso solo nove mesi, rimase scolpita l’immagine di Andreapol’, abitato da «duemila contadini che tagliavano il legname» da far fluttuare fino a Riga, dagli impiegati della ditta, e da pochi ufficiali dell’esercito russo che erano soliti passare le serate leggendo opere letterarie: «Era davvero la vecchia Russia cechoviana»41. Lì ricevette in un heder la «prima istruzione religiosa formale», che coincise anche con la prima esperienza scolastica al di fuori della sfera familiare e dei precettori da essa assunti. Riporta Ignatieff che «da un vecchio rabbino [Berlin] aveva appreso le lettere dell’alfabeto ebraico. Anche il rabbino non fu mai dimenticato. Una volta si era interrotto e aveva detto: “Cari bambini, quando sarete più grandi capirete che in ognuna di queste lettere sono racchiusi il sangue e le lacrime degli ebrei”». Nel raccontare l’episodio Berlin non aveva potuto evitare un momento di commozione, dopo il quale aveva aggiunto: «Questa è la storia degli ebrei»42. Pure in seguito, in lui il sentimento dell’ebraicità – «così profonda, così innata» da rendere ozioso il tentativo di analizzarla43 – era rimasto legato all’«istintivo senso delle proprie radici», della «comune sofferenza»,

39 Chaim Weizmann, favorevole alle potenze dell’Intesa, ricordava che con l’avanzata delle truppe russe si erano verificati pogrom antiebraici e che in Polonia e nelle regioni occidentali della Russia «gli ebrei nei piccoli paesi e villaggi bramavano l’arrivo dei tedeschi come liberatori». Molti dei leaders sionisti polacchi e russi erano d’altra parte convinti della vittoria tedesca, mentre l’Organizzazione Sionista Mondiale aveva optato per una posizione neutrale, spostando il quartier generale del proprio comitato d’azione da Berlino a Copenaghen. Cfr. C. Weizmann, Trial and Error. The

Autobiography, Harper & Brother, New York 1949, pp. 165-166. Si veda inoltre W. Laqueur, A History of Zionism,

Schoken Books, New York 2003, pp. 171-174

40 Si vedano A. Michnik, I. Berlin, È la gente perbene a erigere le ghigliottine, cit., p. 109, I. Berlin, B. Polanowska-Sygulska, Unfinished Dialogue, p. 164, r Mendel Berlin, For the Benefit of My Son, cit., pp. 296-297.

41 Cfr. I. Berlin, B. Polanowska-Sygulska, Unfinished Dialogue, cit., p. 165. 42 Cfr. M. Ignatieff, Isaiah Berlin, cit., p. 30.

43 I. Berlin, The Three Strands in My Life, cit., p. 258. Emblematicamento nella sua brevità è il contributo che Berlin offrì per Why be Jewish?, pubblicato in «The UJS Haggadah», The Union of Jewish Students, London 1996, p. 68: «Sono quasi incapace di scrivere anche un breve passo su cosa significhi per me essere ebraico. Tutto ciò che penso è che sono un ebreo, esattamente nello stesso senso in cui ho due gambe, braccia, occhi, ecc. È solo un attributo che prendo per garantito come appartenente a me, parte dell’essenziale descrizione di me come persona. Non sono né fiero né imbarazzato

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al «senso di fratellanza» dei propri «antenati, i poveri ma istruiti e socialmente coesi ebrei dell’Europa orientale»44. Mentre la dedizione all’ebraismo e ai suoi riti sarebbe stata declinata in un’ottica culturale prossima a quella che, tra il XIX e il XX secolo, era stata di esponenti dell’etnicismo secolare ebraico45 come Ahad Ha’am, l’ideologo del sionismo al quale si sarebbe richiamato più volte. Dichiarandosi «sordo al tono religioso»46, Isaiah avrebbe motivato la propria presenza in sinagoga in occasione delle maggiori festività proprio con la volontà di «identificar[si] con la tradizione dei [suoi] antenati che [gli sarebbe] piac[iuto] vedere continuata»47.

Andreapol’ già da qualche mese era stata abbandonata per Pietrogrado, quando, la mattina del 28 febbraio 1917, egli assistette dal balcone della sua abitazione all’inaspettato spettacolo di un corteo

da ciò. Io semplicemente sono un ebreo, e non mi è mai capitato di poter essere qualcos’altro. La domanda “Perché essere ebraico?” è qualcosa a cui non posso rispondere più che a “Perché essere vivo?” o “Perché avere due gambe?”». Si può notare la somiglianza, probabilmente involontaria, della considerazione di Berlin con quella svolta da Ahad Ha’am (pseudonimo di Ascher Ginzberg): «né [a un figlio d’Israele] è mai venuto in mente di domandarsi: “Perché essere ebreo?”. Questioni di questo tipo, se mai qualcuno avesse già pensato di esprimerle, sarebbero state ritenute non solo disprezzabili, ma anche sciocche. Si ammette, unanimemente e in tutta semplicità, che esitano dei gradi nella scala della creazione: il minerale, il vegetale, l’animale e l’essere umano dotato di parola e, al di sopra di essi, l’ebreo. Quindi, si può domandare all’animale perché vive e a una pianta se le importa di essere un vegetale? Allo stesso modo appare assurdo porre la questione: “Perché un ebreo è…ebreo?”». Cfr. A. Ha’am, Degrés de la conscience nationale (1898), in Sionismes.

Textes fondamentaux, réunis et présentés par D. Charbit, Éditions Albin Michel, Paris 1998, cit., p. 119.

44 I. Berlin, The Three Strands in My Life, cit., p. 259.

45 Shlomo Avineri ha rimarcato le affinità tra Berlin e il movimento dei maskilim dell’Europa orientale, sottolineando che quella era «la finestra sul mondo attraverso la quale Isaiah stava guardando». Cfr. S. Avineri, A. Ryan, Isaiah the Jew, in

The Book of Isaiah, cit., p. 166.

46 Isaia Berlin a Fred Worms, 10 luglio 1991, in I. Berlin, F.S. Worms, From Abraham to Washington. Extracts from an

unpublished correspondence, «The Hewish Quarterly», winter 1998/99, p. 32. Tale posizione era tenuta distinta da quella

agnostica e, soprattutto, da quella atea: «Non ho idea di cosa si intenda con “Dio”. Vorrei averla. Ma credo che gli aridi atei non capiscano per cosa vivano gli uomini: che la comprensione del sentimento religioso sia essenziale per una coscienza umana totalmente sviluppata». Isaiah Berlin a Fred S. Worms, 3 dicembre 1992, in op. cit., p. 33. A Jahanbegloo avrebbe riferito: «Non sono religioso, ma pongo un alto valore all’esperienza religiosa dei credenti. Sono commosso dalle funzioni religiose – quelle della sinagoga, ma anche delle chiese e delle moschee. Penso che coloro che non comprendono cosa sia essere religioso non comprendono per cosa vivono gli esseri umani. Per questo gli aridi atei mi sembrano ciechi e sordi ad alcune forme profonde dell’esperienza umana, forse alla vita interiore: è come essere esteticamente ciechi. […] Ragione ed esperienza non sono abbastanza. Quando sei commosso profondamente da un’opera d’arte, è difficile dire che è un’esperienza empirica. Ogni esperienza è, chiaramente, empirica in un certo senso, ma non è qualcosa che puoi sottoporre alla verifica o all’esperimento». R. Jahanbegloo, Conversations with Isaiah Berlin, Halban, London 2007, p. 110.

47 Isaiah Berlin a Fred S. Worms, 3 dicembre 1992, in I. Berlin, F.S. Worms, From Abraham to Washington. Extracts

from an unpublished correspondence, cit., p. 33. L’approccio di Isaiah sarebbe stato simile a quello del padre: «Andava

in sinagoga, pensava di credere in Dio e sperava in una vita futura. Si considerava un membro della comunità ebraica, come anch’io del resto, tranne per il fatto che non credo in Dio». I. Berlin, Tra la filosofia e l storia delle idee, cit., pp. 34-35. Come ha scritto Ignatieff, la questione del «ritorno all’ebraismo in vecchiaia» non si pose, «perché non lo aveva mai abbandonato». M. Ignatieff, Berlin in Autumn: The Philosopher in Old Age, in The Book of Isaiah, cit., p. 180. Si vedano anche I. Berlin, Tra la filosofia e la storia delle idee, cit., p. 37, B. Magee, Isaiah as I Knew Him, in op. cit., p. 46, e P. Oppenheimer, Run Over by Isaiah, in op. cit., pp. 85-86.

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di persone che, con la solidarietà dei soldati, rivendicavano la terra, la pace e il potere alla Duma48. La rivoluzione di febbraio gli fornì anche la prima occasione per prendere coscienza della violenza che poteva accompagnare la lotta politica: mentre passeggiava per Pietrogrado con la governante, vide un gruppo di rivoluzionari che trascinavano un pallido poliziotto che tentava di divincolarsi verso quella che il bambino immaginò un’orrenda fine49. Le simpatie degli zii – liberali, menscevichi e socialisti rivoluzionari, speranzosi che fossero abolite le discriminazioni che colpivano gli ebrei – andavano interamente alle forze rivoluzionarie e a Kerensky50. La figura della famiglia più esposta politicamente era il marito di Evgenia, Isaac Landoberg (poi noto, con il nome ebraico di Yitzhak Sadeh, quale organizzatore della forza armata ebraica del Palmach), allora iscritto al Partito Socialista Rivoluzionario e membro della milizia del popolo, il cui racconto dei «successi rivoluzionari»51, aveva affascinato Isaiah52. Mendel, invece, era diviso tra il sollievo per «la caduta dell’odiato zarismo e la paura per il futuro». A distanza di trent’anni avrebbe annotato che, se sul trono russo ci fosse stato un uomo più forte, intelligente e informato di Nicola II, la «rivoluzione [di febbraio] non sarebbe mai avvenuta, e quanto sarebbe stata differente la storia del mondo!»53.

Inizialmente la rivoluzione di ottobre fu percepita, nel «mondo borghese» dei Berlin, attraverso gli scioperi dei sindacati dei trasporti e la soppressione dei quotidiani antibolscevichi54, ma Isaiah non mancava di ricordare che i familiari temevano particolarmente la coppia formata da Lenin e Trockij, che «si pronunciava d’un sol fiato, quasi come il nome di un’azienda»: se il primo era ritenuto «un pericoloso fanatico, benché partigiano autentico, onesto e incorruttibile: una specie di pallida imitazione di Robespierre», il secondo era considerato «uno sporco opportunista. Io avevo otto anni e non capivo per quale ragione percepissero una tale differenza tra i due»55. Negli stessi giorni in cui le prime pagine dei quotidiani erano occupate dalla notizia della rivoluzione, il britannico «Jewish Chronicle» pubblicava la lettera indirizzata da Arthur Balfour, segretario agli Esteri britannico, a Lionel de Rothschild, nella quale si affermava il favore del governo di Sua Maestà per l’edificazione in Palestina di un «focolare nazionale» (National Home) per il popolo ebraico e l’impegno inglese

48 I. Berlin, B. Polanowska-Sygulska, Unfinished Dialogue, cit., p. 165. 49 Cfr. M. Ignatieff, Isaiah Berlin, cit., p. 33.

50 Cfr. I. Berlin, Tra la filosofia e la storia delle idee, cit., p. 36, e I. Berlin, B. Polanowska-Sygulska, Unfinished Dialogue, cit., p. 165.

51 Cfr. I. Berlin, Yitzhak Sadeh, cit., p. 81. 52 Cfr. op. cit., pp. 83-84.

53 Mendel Berlin, For the Benefit of My Son, cit., p. 298.

54 Cfr. I. Berlin, B. Polanowska-Sygulska, Unfinished Dialogue, cit., pp. 166-167.

55 R. Jahanbegloo, Conversations with Isaiah Berlin, cit., p. 4. Conversando con Adam Michnik, Isaiah avrebbe ipotizzato che la causa del maggiore biasimo nei confronti del futuro fondatore dell’Armata Rossa si dovesse al fatto che questi fosse «ebreo e da lui potessero aspettarsi le cose peggiori». A. Michnik, I. Berlin, È la gente perbene a erigere le

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«per facilitare il raggiungimento di questo obiettivo», restando inteso che non dovesse essere messo in atto nulla che potesse «pregiudicare i diritti civili e religiosi delle comunità non ebraiche in Palestina, o i diritti e lo status politico goduto dagli ebrei in altri paesi»56. Sebbene passibile di interpretazioni non univoche, la Dichiarazione Balfour – frutto innanzitutto della diplomazia personale e del supporto scientifico allo sforzo bellico britannico fornito durante il primo conflitto mondiale dal futuro primo presidente israeliano, Chaim Weizmann – rappresentava indubbiamente un passo avanti verso la soddisfazione delle aspirazioni dei sionisti. Fu allora che Isaiah ebbe il proprio battesimo sionista: egli «ricordava l’eccitazione della sua famiglia per questo luogo chiamato Palestina e le bandiere blu, bianche e oro che furono date ai bambini perché le sventolassero a una riunione nel seminterrato della sinagoga»57.

Indubbiamente maggiori furono le ripercussioni che ebbe sulla vita dei Berlin la presa del potere da parte dei bolscevichi. Degli ultimi due anni trascorsi in Russia Mendel e Isaiah avrebbero ricordato il «freddo e affamato inverno 1918-1919», l’obbligo di abitare in una sola stanza a causa della scarsità di combustibile, le code per il pane, le confezioni di farina ottenute e furtivamente portate in casa da Mendel, che possedeva la tessera di Stato per i generi alimentari58. Mendel, infatti, era riuscito diventare dipendente statale in qualità di «plenipotenziario per la produzione di materiali lignei»: il suo impiego consisteva nell’organizzare la fornitura del legname dopo l’espropriazione delle foreste59.

Negli anni pietrogradesi l’istruzione di Isaiah era stata affidata ad alcuni rabbini per lo studio della Bibbia e del Talmud e a un precettore e ai fratelli di Mendel per le altre materie60. Seguendo l’esempio materno e date le scarse interazioni con i coetanei, Isaiah sviluppò la sua passione forse più durevole, quella per l’opera e per la musica classica61, e divenne «molto libresco»62: a dieci anni aveva letto le

56 R. Medoff, C.I. Waxman, The A to Z of Zionsim, Scarecrow Press, Plymouth 2008, p. 234.

57 M. Ignatieff, Isaiah Berlin, cit., p. 36. In A Nation Among Nations Berlin avrebbe poi rammentato che, quando era «bambino a Pietrogrado durante la prima guerra mondiale, il movimento Ivrit B’Ivrit trasformò quelli che vi entrarono sotto la diretta e indiretta influenza di uomini così dissimili come Ichernikhovsky, Idelson, Bialik, Ahad Ha’am, Buki ben Yogli, Frischmann, Trumpeldor». Cfr. I. Berlin, A Nation Among Nations, «Jewish Chronicle», Colour Magazine, 4 May 1973, pp. 28–34.

58 Cfr. Mendel Berlin, For the Benefit of My Son, cit., p. 302, R. Jahanbegloo, Conversations with Isaiah Berlin, cit., p. 5, I. Berlin, B. Polanowska-Sygulska, Unfinished Dialogue, cit., p. 167, e M. Ignatieff, Isaiah Berlin, cit., p. 37.

59 Cfr. Mendel Berlin, For the Benefit of My Son, cit., p. 301.

60 Si vedano Mendel Berlin, For the Benefit of My Son, cit., p. 297, I. Berlin, B. Polanowska-Sygulska, Unfinished

Dialogue, cit., p. 168, e I. Berlin, Tra la filosofia e la storia delle idee, cit., p. 37.

61 M. Ignatieff, Isaiah Berlin, cit., p. 32. Berlin, a partire dalla metà degli anni Cinquanta fu tra i membri del direttorio della Royal Opera House a Covent Garden. Si vedano i ricordi di Alfred Brendel, Some Musical Encounters, in The Book

of Isaiah, cit., pp. 130-135, e il saggio di Berlin, L’«ingenuità» di Verdi (1966), in Id., Controcorrente, cit., pp. 423-433.

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