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La crisi di Suez e il «rabbino comunista»

Parte 2. La ‘scoperta’ del nazionalismo

2.4 La crisi di Suez e il «rabbino comunista»

C’è un certo punto […] in cui ti è consentito difendere il tuo modo di vita, qualunque siano le possibilità e le conseguenze per chiunque, anche per le altre persone. Se il tuo intero modo di vita è minacciato di sterminio, se tu stesso preferiresti essere morto piuttosto che sopportare un certo tipo di regime, e vivi tra persone con cui credi (nel complesso) di condividere in gran parte – fino a quale misura non può essere precisamente determinato – certi punti di vista, se le tue convinzioni non sono isolate ma sono possedute come parte di una generale attitudine che non è sconosciuta ai tuoi vicini, in virtù della quale si dice che formiate una società, quando si verifica tale situazione, ti è concesso difenderti, coûte que coûte.

Isaiah Berlin (1958)1

La crisi di Suez

Nel marzo del 1954, il colonnello Gamal Abdul Nasser aveva raggiunto la presidenza della repubblica egiziana, sostituendosi a Muhammad Naguib, con cui aveva guidato i Liberi Ufficiali che avevano rovesciato due anni prima il regno di Faruq, monarca accusato di eccessiva compiacenza verso la potenza britannica. Nel 1955 la Gran Bretagna si era legata, tramite il Patto di Baghdad, alla Turchia, al Pakistan, all’Iran dello scià Reza Pahlavi, riportato al potere nel 1953 dopo l’operazione “Ajax” condotta da Londra e Washington per deporre il primo ministro Mohammad Mossadeq che aveva nazionalizzato l’Anglo-Persian Oil Company, e al solo Stato arabo dell’Iraq. Il rifiuto di aderire da parte della Giordania, che aveva successivamente destituito gli ufficiali britannici al comando della Legione araba, era però fonte di preoccupazione per la Gran Bretagna, verso la quale cresceva il risentimento del presidente egiziano, che vedeva nelle mosse inglesi un ostacolo ai piani panarabisti ma si era garantito il ritiro, entro il marzo del 1956, delle 80.000 unità britanniche stanziate presso il Canale di Suez, in concessione a una società anglo-francese fino al 1968. Nasser, che dalla conferenza di Bandung dell’aprile del 1955 si era ritagliato un posto di rilievo tra i paesi non allineati rispetto alle due superpotenze mondiali2, era riuscito a ottenere dai sovietici gli armamenti, negatigli da Washington, necessari a colmare il divario con gli israeliani. Questi, nel febbraio del 1955, in risposta a raid arabi, avevano bombardato il quartier generale egiziano di Gaza, trovando un partner nella Francia, desiderosa di punire Nasser per il sostegno alle rivolte algerine. Il 19 luglio 1956 gli Stati

1 Cfr. Isaiah Berlin a Philip Toynbee, 24 gennaio 1958, in I. Berlin, Enlightning, cit., p. 607.

2 Si vedano in proposito R. McNamara, Britain, Nasser and the balance of power in the Middle East, 1952–1967: from

the Egyptian revolution to the Six-Day War, Frank Cass Publishers, London 2003, p. 42, e, più in generale, V. Prashad, The Darker Nations. A People's History of the Third World, The New Press, New York - London 2007, pp. 50 ss.

Uniti, seguiti dalla Gran Bretagna e dalla Banca Mondiale, comunicarono al Cairo la decisione di ritirare il prestito per la costruzione sul Nilo della diga di Assuan, che avrebbe garantito all’Egitto acqua per l’irrigazione di una vasta area nella valle del fiume ed energia idroelettrica a basso costo. Il 26 luglio, in risposta all’umiliazione subita, Nasser annunciava ad Alessandria la nazionalizzazione del Canale di Suez3.

Berlin, che il 7 febbraio 1956 alla Hampstead Synagogue aveva sposato Aline de Gunzbourg4, con la quale si era recato in viaggio di nozze in Israele5 (dove era venuto a conoscenza dei propositi aggressivi del governo nei riguardi dell’Egitto6), confidava che il continuo sostegno militare occidentale a Israele avrebbe dissuaso Nasser da progetti bellicosi7. Gli eventi, però, erano destinati a una piega ben diversa. Infatti, sebbene tentasse inutilmente di dimostrare che Nasser aveva violato il diritto internazionale, Eden era disposto a utilizzare la forza pur di riaffermare gli interessi britannici sul Canale e mantenere l’accesso ai giacimenti petroliferi, ma era intenzionato a destituire il presidente egiziano anche per motivazioni personali: ai suoi occhi – come a quelli di molti altri della sua generazione, compreso Berlin8 – la situazione ricordava quella precedente all’invasione tedesca dei Sudeti. Nasser sembrava un novello Mussolini o un novello Hitler, e aleggiavano ancora gli spettri di Monaco e dell’appeasement, a cui nel 1938 Eden si era ribellato dimettendosi da segretario di Stato agli Affari Esteri. Inoltre il primo ministro conservatore, a suo tempo niente affatto favorevole alla creazione di uno Stato ebraico, riteneva di essere stato tradito da quei paesi, tra cui l’Egitto, con cui aveva promosso nel 1945 la nascita della Lega Araba. Ancor più palesi erano le bellicose intenzioni del primo ministro francese Guy Mollet. L’amministrazione statunitense, invece, era riluttante a

3 Cfr. T.G. Fraser, Il conflitto arabo-israeliano, cit., pp. 65-75, M. Burleigh, La genesi del mondo contemporaneo, Feltrinelli, Milano 2014, pp. 312-322, e J.P. Jankowski, Nasser's Egypt, Arab Nationalism, and the United Arab Republic, Lynne Rienner Publishers, Boulder 2002, pp. 65 ss.

4 Aline (1915-2014) era figlia del barone francese di origine ebraico-russa Pierre de Gunzbourg. Rimasta vedova di André Strauss, padre del suo primogenito, nel 1941 aveva incontrato Berlin sulla nave che la portava negli Usa dalla Francia occupata dai nazisti. Berlin l’aveva incontrata nuovamente nel 1949, quando era già sposata con il fisico a Oxford, Hans Halban, da cui aveva avuto due figli. Nei primi anni Cinquanta tra Aline e Isaiah si era intessuta una relazione sentimentale della quale Halban era venuto a conoscenza. Il divorzio di Aline aveva consentito, infine, il matrimonio con Isaiah. Cfr. <http://www.telegraph.co.uk/news/obituaries/11056990/Lady-Berlin-obituary.html>, e Isaiah Berlin a Marie Berlin, 30 gennaio 1956, in I. Berlin, Enlightening, cit., p. 521.

5 Berlin riportò a Vera Weizmann di essere rimasto «incredibilmente affascinato, perfino inebriato, dalla nuova società ebraica», ma escluse l’eventualità di trasferirvisi: «Non posso assimilarmi – ho sperato spesso di poterlo fare: sono come un cattolicizzante che in qualche modo non può entrare nella Chiesa, ma vuole difenderla per tutta la vita e anche battezzare in essa i propri figli». Cfr.. Isaiah Berlin a Vera Weizmann, 16 aprile 1956, in op. cit., pp. 524-525.

6 Berlin rivelò a Schlesinger di essere stato avvisato da Moshe Dayan, Capo di stato maggiore israeliano, sull’intenzione di Ben-Gurion di ottenere una «piccola vittoria nel Sinai», senza giungere a deporre Nasser. Berlin aveva all’epoca fatto notare che ciò avrebbe comportato una sconfitta al tavolo della pace, per via dell’inevitabile condanna dell’Onu. Isaiah Berlin ad Arthur Schlesinger, inizio/metà novembre 1956, cit., p. 554.

7 Cfr. Isaiah Berlin a Joseph Alsop, 27 giugno 1956, in op. cit., p. 535. 8 Isaiah Berlin ad Arthur Schlesinger, inizio/metà novembre 1956, cit., p. 555.

un’ipotesi militare, benché Eden fosse persuaso che l’avrebbe ammessa come extrema ratio. In ottobre, falliti i tentativi diplomatici di istituire un’associazione internazionale degli utenti del Canale di Suez – il cui regolare funzionamento smentiva la necessità di un intervento militare, che invece l’opinione pubblica britannica avrebbe in maggioranza approvato l’estate precedente –, Mollet e Ben- Gurion coinvolsero Eden in quella che sarebbe stata conosciuta come la “collusione”. L’operazione Musketeer, mirata essenzialmente a rimuovere Nasser, sarebbe dovuta sembrare volta esclusivamente al ripristino del controllo internazionale del Canale, con le due potenze europee aventi il ruolo di pacieri: il 29 ottobre Israele avrebbe dovuto attaccare le postazioni egiziane nel deserto del Sinai, fornendo a Gran Bretagna e Francia il pretesto per lanciare un ultimatum per il ritiro delle truppe belligeranti a dieci miglia di distanza dalle due sponde del Canale. Giunto il prevedibile rifiuto, il 31 ottobre le due potenze europee avrebbero sferrato l’attacco all’Egitto9.

Dopo l’inizio delle operazioni militari, non avallate dall’Onu, con l’occupazione del Sinai da parte delle Forze di Difesa Israeliane (IDF) guidate da Moshe Dayan e il bombardamento anglo-francese dell’aeroporto del Cairo, Berlin, che qualche settimana prima si era detto contrario a una guerra nonostante i suoi «naturali impulsi anti-egiziani»10, scriveva alla consorte di Eden, Clarissa Churchill, per «offrire al primo ministro tutta la [propria] ammirazione e simpatia», nel momento in cui gran parte della stampa, l’opposizione, guidata dall’«orrendo» Hugh Gaitskell, e gli universitari si scagliavano contro la scelta del governo, che egli reputava, invece, «molto coraggiosa, molto patriottica e […] assolutamente giusta»11. Il giudizio di Isaiah cambiò solo in parte con gli sviluppi della settimana successiva12. Non contando affatto sul consenso elettorale ebraico, l’amministrazione Eisenhower verso Israele era molto meno benevola di quella di Truman, e maggiore era l’interesse a sfruttare il nazionalismo arabo nel quadro della guerra fredda13. L’azione degli anglo-francesi, che il

9 Cfr. R. McNamara, Britain, Nasser and the balance of power in the Middle East, 1952–1967, cit., pp. 27-28, T.G. Fraser,

Il conflitto arabo-israeliano, cit., pp. 76-77, e M. Burleigh, La genesi del mondo contemporaneo, cit., pp. 323-330.

L’accostamento tra Nasser, Hitler e Mussolini si ritrova anche in Mollet, Macmillan e Gaitskell. Cfr. G. Parmentier, The

British Press in the Suez Crisis, «The Historical Journal», 2 (1980), pp. 437-438 e 442-443, J. Pearson, Sir Anthony Eden and the Suez crisis: reluctant gamble, Palgrave Macmillan, London 2003, p. 29, e P. Clarke, Speranza e gloria. L'Inghilterra nel XX secolo, il Mulino, Bologna 2000, p. 331.

10 Cfr. Isaiah Berlin ad Arthur Schlesinger, 5 ottobre 1956, in I. Berlin, Enlightening, cit., p. 545.

11 Cfr. Isaiah Berlin a Clarissa Eden, 1° novembre 1956, in op. cit., p. 547. Sulle reazioni della stampa britannica all’attacco si veda G. Parmentier, The British Press in the Suez Crisis, «The Historical Journal», 2 (1980), cit., pp. 439- 441. Per la trascrizione della discussione parlamentare sul Medio Oriente, con gli interventi di Gaitskell, si veda <http://hansard.millbanksystems.com/commons/1956/oct/31/middle-east-

situation#S5CV0558P0_19561031_HOC_249>.

12 Si veda quanto scritto da Berlin alla vedova di Eden: Isaiah Berlin a Clarissa Avon, 26 settembre 1986, in I. Berlin,

Affirming, cit., p. 296.

13 Sull’attitudine dell’amministrazione Eisenhower verso Israele si vedano A. Ben-Zvi, Decade of transition. Eisenhower,

5 novembre (il giorno precedente alle elezioni presidenziali statunitensi) si apprestavano allo sbarco in Egitto, aveva adirato Washington, rimasta all’oscuro delle intenzioni di Londra e Parigi, e distolto l’attenzione dalla repressione della rivolta ungherese da parte dell’Unione Sovietica. Quest’ultima, peraltro, minacciava a sua volta di intervenire militarmente al fianco di Nasser. Eisenhower ordinò, quindi, sanzioni verso Israele e Gran Bretagna, lanciando un attacco speculativo alla sterlina e osteggiando le richieste di prestito inglesi al Fondo Monetario Internazionale. Per evitare il disastro finanziario, il 6 novembre Eden decise il cessate il fuoco. Il contingente Unef dell’Onu avrebbe preso il posto delle truppe britanniche e francesi lungo il Canale, e l’esercito israeliano avrebbe ritirato i propri uomini dal Sinai. L’operazione, sul piano militare, per Israele fu una vittoria, poiché ne accrebbe la sicurezza, ma secondo alcuni sancì l’ingresso del paese nel novero delle potenze coloniali, acuendo la condizione che Hannah Arendt avrebbe definito di Stato «paria». Per la Gran Bretagna, invece, si rilevò una disfatta diplomatica che certificava il definitivo ridimensionamento della sua rilevanza internazionale e incrinava il rapporto con gli Stati Uniti, ricucito negli anni seguenti dal conservatore Harold Macmillan, successore di Eden. Questi, anche per via della salute malferma, il 20 novembre lasciava sostanzialmente l’incarico, ufficializzando le dimissioni all’inizio dell’anno seguente14.

L’ombrello di Lord Salisbury

Le prime riflessioni di Berlin sul conflitto da poco concluso si ritrovano nelle lettere a Michel Strauss, primogenito di Aline, e a Schlesinger. Da un lato, il filosofo definiva «un abbaglio» l’intervento militare britannico, che aveva reso Nasser «un eroe, una sorta di imperatore d’Abissinia», e ammetteva che quella compiuta da Ben-Gurion, al quale si sentiva politicamente vicino, era stata un’aggressione che avrebbe costretto Israele all’isolamento internazionale. Dall’altro, non si sentiva «moralmente indignato», né intendeva accordare il proprio sostegno ai documenti di protesta che molti colleghi – «tutte le persone socialiste, liberali e idealiste a cui puoi pensare, tutti i nostri amici»

Donno, Una relazione speciale, cit., capitolo iii. Per Berlin, l’atteggiamento statunitense verso Israele ricordava quello dei britannici con gli ebrei all’epoca del mandato. Cfr. Isaiah Berlin a Teddy Kollek, ricevuta il 5 marzo 1957, cit., p. 571 14 Cfr. J. Pearson, Sir Anthony Eden and the Suez crisis: reluctant gamble, cit., pp. 158-165, T.G. Fraser, Il conflitto

arabo-israeliano, cit., pp. 67-68 e 78-81, C. Vercelli, Israele, cit., p. 238, C. Vercelli, Storia del conflitto israelo- palestinese, Laterza, Roma-Bari 2010, pp. 120-121, M. Burleigh, La genesi del mondo contemporaneo, cit., pp. 331-333,

N. Aridan, Britain, Israel and Anglo-Jewry. 1949-1957, Routledge, London - New York 2003, pp. 173-175, M.A. Jones,

Storia degli Stati Uniti d’America. Dalle prime colonie inglesi ai giorni nostri (1995), Bompiani, Milano 2007, pp. 492-

493, e O. Almog, Britain, Israel and the United States, 1955–1958. Beyond Suez, Frank Cass Publishers, London 2013, pp. 128 ss. Hannah Arendt avrebbe descritto Israele come uno Stato «paria» trattando del processo ad Adolf Eichmann, ma secondo Vittorio Dan Segre l’isolamento internazionale israeliano datava a prima della crisi di Suez. Cfr. V.D. Segre,

– e studenti firmavano a Oxford contro Eden (né, peraltro, avrebbe sostenuto quelli in favore)15. Su un versante, infatti, le criticità della scelta di Eden andavano bilanciate con le conseguenze che Berlin riteneva positive (aver frustrato i piani di Nasser e aver cercato di difendere gli interessi economici e strategici britannici in Medio Oriente)16; sull’altro versante, quella israeliana era stata solo formalmente un’aggressione: «se il paese X continua a dire di essere in guerra con il paese Y ed è risoluto nello sterminarlo completamente, il paese X [sc. Y] non sta rompendo la pace se lo attacca»17. Si confermava, dunque, una concezione della morale che rifiutava il formalismo e il legalismo a vantaggio della piena adesione ai precetti del realismo. Tanto che la «violazione della solidarietà internazionale», determinata dall’aver agito contro il parere dell’Onu, era detta un «fattore enorme, ma comunque solo un frattore tra tanti»: «La questione morale (per me) è il generale bilanciamento della felicità sulla miseria, o della sicurezza contro il pericolo nella vita di nazioni o popoli in generale, e non il vivere in accordo con le regole o la sacralità di trattati e impegni», scriveva a Schlesinger. «Il freddo calcolo, la politica di potenza, l’equilibrio di potere» erano «preferibil[i] all’applicazione meccanica di princìpi, per quanto giusti». Più che all’idealista Woodrow Wilson, Berlin guardava a Lord Robert Cecil Salisbury, il vecchio primo ministro conservatore, che «quando gli fu chiesto quando si è giustificati ad andare in guerra disse che è come chiedersi se si debba portare un ombrello: non si può dire come sarà il tempo, ma bisogna decidersi e scegliere, e portarlo o no»18. Questa prospettiva corrispondeva a quella adottata nel più ampio ambito delle relazioni internazionali negli anni della «nuclearizzazione»19 della guerra fredda. Lo conferma una lettera al figlio dello storico Arnold J. Toynbee, Philip, che, sul finire del 1957, invitava settantacinque intellettuali inglesi, tra cui Berlin, a esprimersi sulle proposte contenute in Thoughts on Nuclear Warfare and a Policy to

15 Cfr. Isaiah Berlin a Michel Strauss, 8 novembre 1956, in I. Berlin, Enlightening, cit., pp. 549 e 551. Sulla vicinanza di Berlin a Ben Gurion, cfr. Dan Segre ad Alessandro Della Casa, 8 dicembre 2013. A Berlin lo «shock morale» dei colleghi sembrava conforme all’atteggiamento tipicamente britannico: «odiano non comportarsi onestamente e bene, odiano violare sfacciatamente la legge, odiano dividersi dai rispettabili uomini di Stato dell’impero (sebbene io pensi che non si preoccupino molto dei sudditi di colore di Sua Maestà)». Isaiah Berlin ad Arthur Schlesinger, inizio/metà novembre 1956, cit., p. 556.

16 Cfr. Op. cit., pp. 554 e 556.

17 Isaiah Berlin a Michel Strauss, 8 novembre 1956, in I. Berlin, Enlightening, cit., p. 549.

18 Cfr. Isaiah Berlin ad Arthur Schlesinger, inizio/metà novembre 1956, cit., pp. 558, 556 e 557. Un anno dopo, l’aneddoto su Lord Salisbury tornava nell’ultimo saggio berliniano sul realismo politico. Cfr. I. Berlin, Il giudizio politico, cit., pp. 103-104. Qualche decennio dopo Berlin avrebbe scritto a Schlesinger di ritenere incompatibili nella pratica politica l’assoluto rispetto delle regole e la difesa, «in una situazione critica», delle istituzioni. «Chiudere un occhio» sull’aggiramento delle regole, in quel caso, gli sarebbe parso «giusto». Berlin portava come esempi storici la fornitura di armamenti da parte di Roosevelt alla Gran Bretagna nel 1940, che violava il pronunciamento congressuale sulla neutralità, il processo di Norimberga – «non giustificato da alcuna regola legale» –, e l’affondamento deciso nel 1948 da Ben-Gurion della nave Altalena, che trasportava militanti dell’Irgun e armi. Cfr. Isaiah Berlin ad Arthur Schlesinger, 28 febbraio 1989, in I. Berlin, Affirming, cit., pp. 361-362.

Avoid it: la contestazione alla strategia della deterrenza e la perorazione del disarmo nucleare occidentale, o almeno britannico, anche se ciò avesse favorito l’espansione del dominio sovietico20. Berlin, la cui risposta non fu tra le ventidue pubblicate nel libro, si disse in completo disaccordo, basandosi sulla convinzione che le scelte non andassero prese in astratto, ma dovessero poggiare sulla concezione della moralità già esposta nella lettera a Schlesinger: «C’è un certo punto […] in cui ti è consentito difendere il tuo modo di vita, qualunque siano le possibilità e le conseguenze per chiunque, anche per le altre persone. Se il tuo intero modo di vita è minacciato di sterminio, se tu stesso preferiresti essere morto piuttosto che sopportare un certo tipo di regime, e vivi tra persone con cui credi (nel complesso) di condividere in gran parte – fino a quale misura non può essere precisamente determinato – certi punti di vista, se le tue convinzioni non sono isolate ma sono possedute come parte di una generale attitudine che non è sconosciuta ai tuoi vicini, in virtù della quale si dice che formiate una società, quando si verifica tale situazione, ti è concesso difenderti, coûte que coûte». «La forza di opinioni, lealtà, devozioni, convinzioni, princìpi etici,» aggiungeva, «è misurata in ultimo su quanto si è disposti a pagare per essi»21. Nello specifico, «i rischi di uno stermino universale implicato nell’acquisto e nel possesso di bombe» sembravano a Berlin «sufficientemente meno grandi della possibilità che i sovietici conquistino il mondo, e dell’inflizione di spaventose umiliazioni e atti crudeli a causa di questo, se non è opposta resistenza, tali da rendere il possesso [delle bombe H] il male minore: il male che si sceglie quando si sceglie tra mali»22.

Il realismo che informava la prospettiva di Berlin non era – e si dovrebbe forse dire che nessuna prospettiva, a suo parere, sarebbe potuta esserlo – privo di agganci etici. Dopo quello relativo alla compatibilità delle scelte con il contesto valoriale, il modo di vita e la situazione particolare in cui si interveniva (cfr. supra, § 2.2), era esibito un ulteriore parametro che sarebbe restato alla base del liberalismo pluralista: poiché tra i valori e gli interessi, difatti, permane sempre un qualche grado di incompatibilità, di incomponibilità e di conflittualità, e tra le opzioni a disposizione difficilmente ve ne è una definitivamente risolutoria e che non comporti rinunce, Berlin, alla luce dell’insegnamento

20 Cfr. The Fearful Choice: A Debate on Nuclear Policy conducted by Philip Toynbee, Victor Gollancz Ltd., London 1958.

21 Cfr. op. cit., p. 608. Nel dialogo in tarda età con Jahanbegloo, Berlin così avrebbe argomentato il favore a interventi militari, anche formalmente preventivi: «Se devi difendere te stesso, se il tuo paese rischia di perdere il suo futuro – la sua libertà – devi difenderti: allora la violenza è giustificata». R. Jahanbegloo, Conversations with Isaiah Berlin, cit., p. 203.

weizmanniano sulla linea della minore ingiustizia, avrebbe suggerito di prediligere la via che contribuisse a ridurre il male23.

Sentimento nazionale e pluralismo in Moses Hess

Il segno della crisi di Suez nel percorso intellettuale berliniano, però, si sostanziava anche nell’urgenza di un più ampio ragionamento sul nazionalismo nelle sue relazioni con il pluralismo. La «solida lettura politica» che il filosofo comunicava di avere ricavato riguardava l’erroneità della convinzione, che pensava diffusa soprattutto tra gli americani, che i popoli delle ex colonie fossero «per natura migliori, più virtuosi, più nobili», «incapaci di produrre oppressori fascisti» e che la loro causa fosse sempre giusta, e la necessità di trovare un equilibrio tra «le rivendicazioni di diritti