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Il pluralismo napoletano e il nazionalismo indiano

Parte 3. Un liberale negli anni della decolonizzazione

3.3 Il pluralismo napoletano e il nazionalismo indiano

Vico percepì una verità rivoluzionaria quando affermò, prima di Herder o di Hegel o di Marx, che a ogni tappa del cambiamento sociale corrispondono i propri tipi di legge, governo, religione, arte, linguaggio, maniere, organizzazione politica e civile, e così via; che essi formano un singolo schema del quale ogni elemento condiziona e riflette gli altri; e che questo schema è la vita di una società.

Isaiah Berlin (1960)1

Né la scolorita vaghezza del cosmopolitismo, né la feroce auto-idolatria del culto della nazione, sono il fine della storia umana.

Rabindranath Tagore (1917)2

Comprendere l’altro

L’anno della cattura di Eichmann, per Berlin, fu anche quello in cui vide la luce la prima versione del più importante saggio da lui dedicato al pensiero di Vico, nata dalla prolusione che nel 1958 aveva chiuso il ciclo di conferenze sul tema Personalities and Ideas of the Italian Eighteenth Century presso l’Istituto di cultura italiana di Londra, all’epoca presieduto da Umberto Morra di Lavriano. Avendo «riscritto e ampliato il testo della sua lecture originale in uno studio critico globale sul più grande pensatore italiano del diciottesimo secolo»3, Berlin metteva in luce, in The Philosophical Ideas of Giambattista Vico, che Vico aveva «virtualmente inventato una categoria interamente nuova di scienze sociali, che abbracciano l’antropologia sociale, gli studi comparativi e storici di filologia, etnologia, giurisprudenza, letteratura e mitologia, la storia della civiltà e studi affini», preludendo alla distinzione tra Naturwissenschaft e Geisteswissenschaft4. Le basi per lo studio di queste branche erano state poste dal rifiuto di assimilare «tutta la conoscenza ai modelli matematici e fisici» e dalla convinzione che si dovesse riconoscere, in opposizione a quanto affermato da Cartesio, la centralità della storia come disciplina interessata a indagare il significato reale dell’essere umani. Per il napoletano, infatti, la stessa «validità di tutta la vera conoscenza, anche quella della matematica e della logica, poggia sul suo carattere genetico o storico»5, mentre il «principale criterio di verità di

1 I. Berlin, The Philosophical Ideas of Giambattista Vico, in Art and Ideas in Eighteenth-Century Italy, Istituto di cultura italiana di Londra, London 1960, pp. 206-207.

2 R. Tagore, Nationalism in the West (1917), in Id., Nationalism, Macmillan, London 1918, p. 5.

3 Preface, in op. cit., p. 5. Berlin avrebbe spiegato di aver scelto di trattare Vico solo perché era uno dei pochi «pensatori di prima classe» italiani. Cfr. R. Jahanbegloo, Conversations with Isaiah Berlin, cit., p. 95. In realtà, come si è avuto modo di vedere, Vico era già stato uno degli autori berliniani e si prestava a fare da ‘intermediario’ per convinzioni che lo stesso Berlin intendeva difendere.

4 Cfr. I. Berlin, The Philosophical Ideas of Giambattista Vico, cit., pp. 157 e 172. 5 Cfr. op. cit., pp. 161-162.

Cartesio è che i giudizi che la reclamano devono consistere di idee chiare e distinte, costituenti ultimi che sono “semplici”, cioè non ulteriormente analizzabili», scriveva Berlin, che certamente pensava anche al novecentesco atomismo logico di Moore, Russell e del primo Wittgenstein. Nel sistema cartesiano le «entità atomiche», essendo correlate tra loro da «legami logici ‘necessari’» – e non recidibili, pena l’«autocontraddizione» –, avrebbero costituito sistemi distinti e «matematicamente» descrivibili6; Vico, invece, aveva contestato che la realtà e la verità – ad esempio, di un’esperienza come il «soffrire» – dipendessero dalla loro divisibilità in atomi distinti e analizzabili7. E all’esaltazione della verità nelle scienze matematiche e fisiche aveva contrapposto la teoria della conoscenza per causas: «possiamo dire di conoscere una cosa se, e solo se, sappiamo perché è come è, o come fu fatta» e non solo «le caratteristiche che ha»8.

Questo metodo, differentemente dagli altri (metafisico, deduttivo e percettivo, o induttivo) avrebbe consentito di pervenire empiricamente alla conoscenza, non solo del cosa e del come, ma anche del perché, cioè di comprendere, giungendo all’«autoconoscenza: conoscenza di situazioni in cui noi stessi, il soggetto conoscente, siamo attori, dotati di motivi, fini e una vita ininterrotta, che noi comprendiamo, per così dire, dall’interno»9. Con ciò si affermava la convertibilità di verum e factum, cioè la possibilità di conoscere il vero solo di ciò che si fa. Se la chiarezza a cui si perviene nella matematica si spiega con il suo essere, al pari di un «gioco», una creazione umana, gli elementi indagati dalle scienze naturali possono essere conosciuti perfettamente solo da Dio, che ne è il creatore. Dunque, mentre dobbiamo limitarci a descrivere un oggetto inanimato o un animale in base ai dati sensoriali, per Vico possiamo comprendere le motivazioni che guidano il comportamento di un nostro simile, giacché «non siamo solo corpi nello spazio», ma possediamo una «vita interiore» che diamo assodato sia posseduta anche dagli altri e «senza la quale la nozione di comunicazione, o di società umana, differente da un aggregato di corpi umani, diventa insensata»10.

L’«entrare dentro» la mente altrui implica allora la piena conoscenza dell’«essere uomo – non meramente un individuo solitario, ma un uomo in società, in relazioni reciproche, coscientemente in cooperazione con altri uomini simili»11 –; una possibilità che si ricollega alla centralità della storia. Dato che questa è fatta dagli uomini, attraverso un «incredibile sforzo» e una «facoltà immaginativa» si può «concepire quello che persone diverse da me sentono, vogliono e pensano – esseri umani

6 Cfr. op. cit., pp. 162-163.

7 Cfr. op. cit., pp. 166-167. 8 Cfr. op. cit., p. 164.

9 Op. cit., p. 169. Si veda anche op. cit., p. 172. 10 Cfr. op. cit., pp. 165 e 170-171.

distanti da me nello spazio, o con differenti abitudini o linguaggio o mentalità», sia appartenenti a «culture remote» che a epoche precedenti. Perché l’atto di comprensione possa avere luogo, però, si dovrebbe ricostruire l’«evoluzione dei vari concetti e categorie nei vari tempi»; per cui la «prospettiva storica» che ne deriva (non diversamente da quanto Berlin aveva detto dell’approccio realista all’attività politica) si sostanzia nell’abilità di percepire quali azioni, idee o opere artistiche siano state possibili in un frangente storico e culturale e non in un altro12. La filosofia di Vico, in cui si ritrova «l’intera dottrina dello storicismo in embrione»13, contestava infatti le dottrine che postulavano sia l’esistenza di una «natura umana fissa e inalterabile», di una «legge naturale» sia l’origine contrattualistica della società, opponendo all’attribuzione, fondata su una concezione atomistica e astorica, di caratteristiche morali innate nell’uomo e all’individuazione di scopi e diritti validi sempre e ovunque, l’appartenenza alla «loro specifica fase nella storia umana» di «istituzioni» e «valori». Le teorie del contratto sociale, allora, non dovevano essere prese per vere, perché le nozioni stesse di società e di contratto avrebbero dovuto necessariamente seguire l’esperienza stessa della vita in società14.

Somiglianze di famiglia

I tre canali di indagine che per Vico avrebbero condotto alla «vera conoscenza dell’uomo» da Berlin erano individuati nella mitologia, nello studio delle antichità e nel linguaggio. Trattando quest’ultimo campo, soprattutto, Berlin chiariva implicitamente i termini nei quali intendeva il concetto di appartenenza e la natura dei valori. Approfondendo tramite il pensiero vichiano la speculazione dal lui stesso avviata nei saggi dei primi anni Cinquanta, Berlin specificava che il «linguaggio non è una deliberata invenzione da parte di uomini che elaborano pensieri e poi cercano mezzi per articolarli. Le idee e i simboli in cui sono espresse non sono, nemmeno nel pensiero, separabili. Pensiamo e possiamo pensare solo in simboli», soprattutto in parole. «Dalle parole, e dal modo in cui sono usate, possiamo inferire il processo mentale, le attitudini e il punto di vista di coloro che le usano, perché “le menti sono formate dal carattere della lingua, non la lingua dalle menti di coloro che la parlano”»15. Per Vico, «le parole, come le idee, sono determinate direttamente» dalle «concrete circostanze in cui gli uomini vivono», e le trasformazioni linguistiche sono lo specchio dei mutamenti società; di qui l’importanza dello studio delle etimologie e della filologia16. Pertanto, le «forme linguistiche sono una delle chiavi per le menti di coloro che usano le parole, e anzi dell’intera vita

12 Cfr. op. cit., pp. 174 e 176. Si veda anche op. cit., p. 228. 13 Op. cit., p. 179.

14 Cfr. op. cit., pp. 177 e 181-182. 15 Cfr. op. cit., pp. 182-183. 16 Cfr. op. cit., pp. 185-186.

mentale, sociale e culturale delle società», poiché le strutture della lingua hanno «una necessaria connessione “organica” con gli specifici tipi di struttura politica e sociale, di religione, di legge, di vita economica»17. L’uomo, allora, può pervenire alla comprensione di sé attraverso lo studio del linguaggio, e degli altri elementi (miti, costumi, letteratura, sistemi di legge, religione) che «insieme costituiscono una cultura o un modo di vita»18. La genesi della concezione della cultura come intreccio delle differenti attività di un gruppo umano poteva essere attribuita proprio a Vico, che era soprattutto interessato alla pluralità che si dischiudeva, secondo il piano provvidenziale, attraverso la successione storica delle civiltà, nessuna delle quali superiore a un’altra; convinzione, quest’ultima, che secondo Berlin faceva del napoletano – pure un «fedele cattolico» – un «relativista»19.

Perciò era sul mutamento diacronico nel significato delle parole (e quindi dei concetti da esse espressi) che aveva posto attenzione Vico, il quale aveva messo in guardia dall’utilizzo della moralità moderna come metro di giudizio per le epoche passate e dal rischio che, lasciandosi trarre in inganno dalle omonimie, si cadesse in un errore proiettivo, attribuendo i valori dell’epoca propria su quelle precedenti: Berlin tornava, quindi, sul significato della parola libertà, facendo presenti le notevoli variazioni che aveva subito nel corso dei secoli20. La correlazione era, appunto, conseguenza dei rapporti organici che, per Vico, costituiscono la società: «a ogni tappa del cambiamento sociale corrisponde il proprio tipo di legge, governo, religione, arte, linguaggio, maniere, organizzazione politica e civile, e così via; […] essi costituiscono un singolo modello di cui ogni elemento condiziona e si riflette sugli altri; e […] questo modello è la vita di una società»21. Ciò aveva agganci anche con il modo in cui Vico aveva affrontato il tema della nazione – il vichiano senso comune di una nazione poteva infatti essere inteso come «carattere nazionale»22 –, influenzando poi Vincenzo Cuoco, che lo aveva considerato la «fonte originale di un nazionalismo anti-giacobino, gradualista e moderato» e lo

17 Cfr. op. cit., p. 190. «Che a ogni tipo di società appartenga la propria struttura di miti (o lingua, o creazione artistica, o consuetudine economica) espressiva della sua visione unica è un’idea di grande suggestività», scriveva Berlin (op. cit., p. 206), il quale aggiungeva che per Vico «ogni società ha la propria “legge civile” appropriata al proprio stadio culturale»: «L’evoluzione della legge (e l’intera storia del progressi dell’umanità) può essere tracciata nella maniera migliore “filologicamente”, guardando alle trasformazioni della lingua in cui i codici legali successivi sono espressi». Op. cit., p. 219.

18 Op. cit., p. 216.

19 Cfr. op. cit., pp. 210 e 214. La paternità vichiana del «concetto moderno di cultura» è approfondita in I. Berlin,

Giambattista Vico e la storia della cultura (1983), cit., pp. 83-108. Come si è detto, il principio vichiano della ricorsività

dei cicli storici da Berlin sarebbe stato sempre ritenuto tanto noto quanto non plausibile e, soprattutto, non originale. Si veda, ad esempio, I. Berlin, Le idee filosofiche di Giambattista Vico, cit., p. 80-81.

20 Cfr. I. Berlin, The Philosophical Ideas of Giambattista Vico, cit., pp. 211 e 119-200. Sul projection error si veda J.W. Cook, Morality and Cultural Differences, Oxford University Press, New York 1999, p. 89.

21 Cfr. I. Berlin, The Philosophical Ideas of Giambattista Vico, cit., pp. 206-207.

22 Cfr. op. cit., p. 218. Berlin, anche a questo proposito, accostava Vico a Herder, e segnalava le affinità tra il napoletano e Hamann. Cfr. op. cit., p. 223.

aveva utilizzato per spiegare il fallimento della rivoluzione napoletana del 1799 con la difficoltà – tema che si è visto caro a Berlin – «di trasporre le istituzioni da una società a un’altra, dato che ciascuna obbedisce alle proprie specifiche leggi “organiche”»23.

La correlazione posta da Vico tra gli elementi di una cultura, per Berlin, forniva al pluralismo nuovi argomenti nella critica al perfezionismo. Ogni prodotto culturale è il frutto della forma di vita sociale in cui è nato e della quale rispecchia i valori e la visione del mondo; pertanto non è riproducibile al di fuori di essa: i moderni, possono vivere in una società raffinata, ma devono rinunciare a produrre capolavori letterari pari a quelli che potevano essere generati solo nella violenta età antica24. «Senza dubbio», scriveva Berlin, «ogni società è governata da un certo insieme di regole, sulle quali tutti i suoi membri, o almeno la maggioranza, devono essere ampiamente d’accordo; ma esse non sono verità oggettive in attesa di essere scoperte da un legislatore geniale, e poi “accettate” e imitate da uomini inferiori, o da intere nazioni, sotto la sua influenza; esse sono prodotte dal fatto che in una data serie di circostanze gli esseri umani sono soggetti a credere, esprimersi, vivere, pensare e agire in modi comuni». Vico afferma chiaramente che diversi popoli condividono sia «idee» («o parole»), che compongono il «linguaggio mentale comune a tutte le nazioni»25 e consentono la comprensione interculturale, sia istituzioni – forme di religione, matrimonio, sepolture –, ma «non crede che siano una base sufficiente per una statica legge universale, dato che variano ampiamente da popolo a popolo, da epoca a epoca. È impossibile astrarre ciò che è comune a tutte le forme o a tutti i colori o a tutte le facce umane, e definirlo la forma basilare, il colore basilare, la faccia umana basilare. È questo il motivo per cui è inutile tentare di astrarre convinzioni comuni e chiamarle legge naturale»26. Berlin riprendeva, allora, la terminologia del tardo Wittgenstein, scrivendo che per Vico «giusto e sbagliato, proprietà e giustizia, eguaglianza e libertà, le relazioni di padrone e servo, autorità e punizione […] sono categorie in evoluzione tra le cui fasi successive di ognuna ci sarà un tipo di somiglianza di famiglia, come in una fila di ritratti degli antenati di una moderna società, da cui è insensato tentare, sottraendo tutte le differenze, di scoprire un nucleo centrale – la famiglia originale –, e dichiarare che questa entità senza sembianze sia il volto eterno dell’umanità». Mentre i teorici della legge naturale «distinguevano la moralità dalla politica, [Vico] guardava a queste come a un processo evolutivo organico, connesso con ogni altra autoespressione degli esseri umani in società»; dove essi «erano individualisti, egli coglieva la natura sociale dell’uomo – nel senso che credeva che

23 Cfr. op. cit., p. 224.

24 Questo discorso sarebbe stato ulteriormente approfondito in I. Berlin, Giambattista Vico e la storia della cultura, cit., p. 103, e I. Berlin, Vico e l’ideale dell’illuminismo (1976), in Id., Controcorrente, cit., pp. 185-193. Si rimanda inoltre a J. Mali, Berlin, Vico, and the Principles of Humanity, in Isaiah Berlin’s Counter-Enlightenment, cit., p. 63.

25 Cfr. I. Berlin, The Philosophical Ideas of Giambattista Vico, cit., p. 187. 26 Op. cit., p. 218.

la maggioranza delle attività umane non sarebbe intelligibile se si tentasse di descriverle come atti di solitari Robinson Crusoe»: il modo in cui gli uomini agiscono, infatti, è causato dal ruolo fondamentale del «loro senso di essere membri di un gruppo sociale»27. Ed è da notare dunque che, dopo averne accennato nella prolusione sui Due concetti di libertà28, Berlin si riferisse al naufrago di Daniel Defoe (ma, differentemente da questo, mai entrato in contatto con alcuna comunità umana) allo scopo – ora più palese – di contestare la possibilità di comprendere le ragioni del comportamento di un agente sempre vissuto in solitudine e di produrre un linguaggio privato, teorizzata da Ayer in opposizione al Wittgenstein delle Ricerche filosofiche29. In seguito (infra, § 4.4) questa vicinanza alle tesi tardo-wittgensteiniane sarà decisiva per spiegare la distinzione berliniana tra pluralismo e relativismo.

A questo proposito, è degna di considerazione l’analisi del concetto vichiano di certum nell’appendice di The Philosophical Ideas of Giambattista Vico. Certum era detto il sapere alla «luce del quale viviamo le nostre vite»: non «la conoscenza induttiva, ma piuttosto i dati di base da cui l’induzione inizia e su cui giace». Al “certo” poteva essere ricondotta, ad esempio, la convinzione – indimostrabile, ma della quale sarebbe «assurdo» dubitare – che la terra su cui poggiamo i piedi non collasserà improvvisamente. Riguardo alla sfera «relazioni sociali», che giudicava fosse al centro dell’interesse vichiano, il discorso sul certum portava Berlin a scrivere che «se ponessimo in dubbio costantemente, e ancor più se rifiutassimo, i costumi – i modi di vita, i mores, l’intera rete interconnessa di relazioni in cui le nostre vite sono poste – periremmo sicuramente»: essi potrebbero essere soltanto trasformati, ma non espunti completamente. Dunque, sarebbe impossibile «pensare in un nuovo modello di linguaggio costituito di elementi e di nuove regole che tu stesso hai inventato, nessuno dei quali esprimibile in alcun linguaggio esistente». Mancherebbero perfino gli strumenti per creare tale nuovo linguaggio, dato che essi sono contenuti nelle «categorie morali o intellettuali (o linguistiche)» già note, che rendono «umano» l’individuo e la cui perdita condurrebbe alla «follia».

27 Op. cit., p. 220. Corsivo mio.

28 La stesura del testo di Due concetti di libertà era contemporanea a quella della conferenza su Vico. In una lettera del settembre 1958, Berlin annunciava infatti la realizzazione di un «enorme saggio su Vico», aggiungendo di stare «lottando penosamente con il materiale per una conferenza inaugurale sulla Libertà – come se il tema non fosse stato trattato a sufficienza negli ultimi trecento anni». Cfr. Isaiah Berlin a Richard Pipes, 20 settembre 1958, in I. Berlin, Enlightening, cit., p. 645.

29 Si veda A.J. Ayer, Can there be a private language?, «Proceedings of the Aristotelian Society», 28 (1954), pp. 63-94. La contestazione della tesi di Ayer si ritrova anche nel libro del wittgensteiniano di tendenza comunitarista Peter Winch,

The Idea of a Social Science and its Relation to Philosophy (1958), Routledge, London 2003, p. 35, che Berlin avrebbe

citato nella versione definitiva del saggio su Vico D’altra parte, che nel 1960 Berlin vedesse in Vico il misconosciuto precursore della filosofia del linguaggio novecentesca – oltre che alle moderne teorie della «logica» – è dimostrato anche all’allusione al napoletano come a colui che, prima di Austin, aveva intuito «la funzione ‘performativa’ delle parole». Cfr. I. Berlin, The Philosophical Ideas of Giambattista Vico, cit., pp. 233 e 189

Con altre parole, Berlin riproponeva quindi l’argomento degli “idioti morali”: «Un matto saprebbe forse dimostrare passaggi logici tanto esatti quanto quelli del migliore matematico vivente; ma a ogni modo potrebbe essere matto, e la sua follia consiste nel rifiutare ciò senza il quale un uomo sano non potrebbe vivere, quello che certifica il senso comune». Le nozioni di cui quest’ultimo è composto potrebbero essere «false» o «obsolete», ma sarebbero, in un dato periodo, il «nucleo di verità sul mondo accettate» – e condivise, «se dobbiamo comunicare» – «richiesto dalla natura umana in quanto tale»30.

Scoprendo Tagore

La riflessione berliniana su quelle tematiche trasse nuova linfa, allorché il filosofo ebbe occasione di interessarsi alla situazione dell’India, confrontandosi con il pensiero di Tagore, in vista di una conferenza a Delhi per il centenario della nascita del poeta scomparso nel 1941. A dominare la scena della democrazia indiana era, sin dall’epoca della dominazione britannica, il centrista Partito del Congresso, principale artefice, sotto la guida carismatica del Mahatma Gandhi, del movimento per l’indipendenza conquistata nel 1947, che aveva segnato il primo capitolo della lunga stagione delle decolonizzazioni e aveva avviato il tramonto della potenza imperiale britannica31. Da allora, e invero già con il governo provvisorio del 1946 condiviso con la Lega musulmana di Muhammed Ali Jinnah, a capo dell’esecutivo era Jawaharlal Nehru, popolare leader della corrente sinistra del Congresso all’epoca della lotta indipendentista e da almeno un decennio «vero e proprio monarca senza corona»32, dopo aver sconfitto il rappresentante della fazione conservatrice, comunque predominante nel partito33. L’India dell’«età nehruviana»34 si era indirizzata a una modernizzazione che aveva investito tanto la sfera economica quanto quella culturale e sociale. Alla tentata, ma non pienamente riuscita, ristrutturazione del mondo rurale, che avrebbe dovuto colpire la classe dei latifondisti e introdurre elementi di socializzazione, si erano affiancati il potenziamento del settore industriale attraverso un’opera di pianificazione e l’impegno avanguardistico nella produzione di energia atomica per usi pacifici. Simili programmi di sviluppo avevano, quindi, implicato l’assegnazione di

30 Cfr. op. cit., pp. 230-231.

31 Sul movimento per l’indipendenza indiano, si veda M. Torri, Storia dell’India (2000), Laterza, Roma-Bari 2015, pp.