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Uno sguardo a Israele: la Legge del Ritorno e il processo Eichmann

Parte 3. Un liberale negli anni della decolonizzazione

3.2 Uno sguardo a Israele: la Legge del Ritorno e il processo Eichmann

Il posto in cui criticare la politica dello Stato d’Israele, almeno per gli ebrei, è a Gerusalemme piuttosto che a Londra e a New York.

Isaiah Berlin (1973)1

Chi è un ebreo?

Tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta, l’attenzione di Berlin si spostava nuovamente sulle vicende israeliane. Nel dicembre del 1958, infatti, Ben-Gurion, intenzionato in quella fase a connotare in maniera maggiormente laica la società israeliana e ad assegnare centralità al ruolo dello Stato nel proprio messianismo politico2, inviava a una cinquantina di personalità ebraiche influenti una lunga lettera, a seguito dell’istituzione di una commissione israeliana, composta dai ministri della giustizia e dell’interno e dal primo ministro stesso, deputata a ridiscutere alcuni parametri della Legge del ritorno, emanata otto anni prima, che sanciva il diritto degli ebrei della diaspora a ottenere la cittadinanza israeliana al momento dell’immigrazione nel paese. In assenza di specificazioni riguardo alla definizione di ebreo, fino ad allora si era adottata generalmente l’interpretazione della legge religiosa (Halakha), secondo la quale era considerato ebreo chi fosse di discendenza matrilineare ebraica o si fosse convertito all’ebraismo. Il premier chiariva che per ragioni di sicurezza, data la difficoltà a «mantenere costante ed effettiva la protezione di tutti i confini del paese da coloro che si infiltrano dalle ostili nazioni vicine», era esclusa l’ipotesi che venissero soppressi i riferimenti alla «religione» e alla «nazionalità» contenuti nel registro della popolazione, ma il governo aveva determinato che «la religione o la nazionalità degli adulti [fosse] segnata come “ebraica” se essi [avessero dichiarato] in buona fede di essere ebrei e non membri di altra religione». Il tema sul quale commissione doveva decidere concerneva, quindi, la possibilità di registrare come «cittadini ebrei» i bambini il cui «padre è ebraico e la madre è non ebraica e non si è convertita, ma entrambi concordano di avere il figlio registrato come ebreo»3. Sarebbe stata sufficiente la dichiarazione dei genitori o si sarebbe dovuta richiedere anche una cerimonia di conversione? Quattro erano i punti fermi che Ben- Gurion segnalava ai destinatari della lettera. Innanzitutto, Israele riconosceva nella propria dichiarazione d’indipendenza «il principio della libertà di coscienza e di religione». In secondo luogo, l’immigrazione di ebrei imponeva di «accrescere le caratteristiche condivise e unificanti e di eliminare per quanto possibile quelle che separa[va]no e divid[evan]o». In ultimo, «la nazione

1 I. Berlin, A Nation among Nations, cit., pp. 28-34.

2 Cfr. S. Aronson, David Ben-Gurion and the Jewish Renaissance, Cambridge University Press, Cambridge 2011, pp. 263-264.

israeliana non si vede[va] separata dalla comunità ebraica della diaspora: al contrario, nessuna comunità ebraica nel mondo mostra un sentimento profondo di unità e identità con gli ebrei del resto del mondo pari a quello della comunità ebraica in Israele». Tra le linee guida dell’amministrazione israeliana, piuttosto, vi era il proposito di trasmettere alla gioventù del paese maggiore coscienza del proprio passato e del «comune destino» che li legava agli altri ebrei del pianeta4. Come è evidente il quesito posto da Ben-Gurion, in apparenza concernente solamente una questione amministrativa, implicava nei fatti una riflessione complessiva sull’identità ebraica5.

Tra i saggi interpellati vi era lo stesso Berlin, che alla risposta accludeva una missiva privata per il primo ministro israeliano. Nella lettera si dichiarava «grandemente onorato» per essere stato consultato su un tema tanto importante, ma ammetteva di sentirsi in una posizione «imbarazzante». In ossequio alle considerazioni già espresse, giudicava che lo «Stato sovrano, fondato per dare piena espressione politica e sociale alla nazione ebraica», avrebbe dovuto affrontare autonomamente le questioni che lo riguardavano senza «essere obbligato a chiedere consigli» agli ebrei all’estero e senza farsi guidare dalla loro «opinione direttamente». Le decisioni circa gli ebrei, sosteneva poi, si sarebbero dovute prendere sulla base dei precetti religiosi soltanto se gli ebrei fossero stati da considerare quale entità primariamente «religiosa». Ma l’ebraicità, ribadiva Berlin ritenendo di incontrare l’assenso di Ben-Gurion, era composta da un intreccio inestricabile di «fili nazionali, culturali e religiosi». Perciò la decisione della commissione avrebbe prodotto un «Kulturkampf» tanto dannoso quanto superfluo, tra ebrei religiosi di varie correnti ed ebrei laici, dentro e fuori Israele. Pur vedendo di buon occhio che si decidesse di affermare «il principio che un moderno Stato liberale è, e deve essere, di carattere laico» e indifferente verso la professione professata dai propri cittadini, Berlin avrebbe infatti preferito evitare di «mettere benzina su quello che non [era] ancora un grande incendio». Nonostante ciò, aveva deciso di comunicare il proprio punto di vista, che reputava di poco conto, auspicando che le risposte non diventassero di pubblico dominio, come invece accadde6.

4 Cfr. op. cit., pp. 146-147.

5 Cfr. E. Ben-Rafael, Preface, in op. cit., p. xix. Si veda inoltre A.L. Feldestein, Ben-Gurion, Zionism and American

Jewry. 1948–1963, Routledge, London - New York 2006, pp. 112-120.

6 Cfr. Isaiah Berlin a David Ben-Gurion, 23 gennaio 1959, cit., pp. 671-673. Berlin avrebbe più volte manifestato la propria opposizione alla pubblicazione delle risposte, come testimoniano le lettere inedite inviate nel 1962 a Baruch Litvin (che avrebbe poi avrebbe curato, con Sidney B. Hoenig, Jewish Identity. Modern Response and Opinions on the

Registration of Children of Mixed Marriages. David Ben Gurion's Query to Leaders of World Jewry. A Documentary Compilation, Feldheim, New York 1965) e a Sir Leon Simon, altra personalità interpellata dal primo ministro israeliano.

La corrispondenza tra Berlin e Litvin è conservata presso la Bodleian Library e così inventariata MS. Berlin 167, fols. 93-95, 149, 177 e 235, e MS. Berlin 169, fols. 273, 281-282 e 325. Per lo scambio epistolare tra Berlin e Simon si vedano MS. Berlin 168, fols. 118, 126, 129, 147, 186, 192, 195, 203 e 212, e MS. Berlin 169, fols. 272. Berlin si era rivolto anche alla madre per conoscere le sue opinioni riguardo al quesito. Ella gli aveva risposto di non credere ipotizzabile, né giusto da pretendere, che una «cristiana praticante» allevasse «buoni nazionalisti ebraici». Il figlio di una cristiana credente

La risposta di Berlin partiva dall’indagine sul significato del termine ebreo, condotta – vale notarlo – lungo le linee già difese in La traduzione logica. Difatti scriveva che per «parole di uso comune» avessero almeno due definizioni: «a) una definizione precisa e chiara, ma piuttosto artificiale, resa necessaria da requisiti legali, teologici o scientifici; e b) la vaga definizione implicata dall’uso delle parole nel linguaggio quotidiano». Pertanto vi è il significato definito dall’Halakha; ma un ebreo, nel secondo «più vago senso[,] è ciascuno che una persona normale, abituata all’uso consuetudinario del termine, definirebbe, senza molta riflessione, come un ebreo (proprio come un tavolo è ciò che la maggior parte delle persone concorda sia un tavolo […])»: quindi è ebreo chi è riconosciuto appartenente alla comunità ebraica, pur se la propria madre non è ebrea o se non è tale per il rabbino sotto l’aspetto religioso7. Dal momento che la commissione chiedeva una definizione precisa in vista di una riforma legislativa, Berlin ribadiva che uno Stato non teocratico, quale Israele proclamava di essere e come la lettera di Ben-Gurion specificava, non dovesse determinare «lo status dei suoi cittadini o anche dei suoi residenti in termini puramente religiosi». La contrarietà della popolazione ebraica a provvedimenti che accrescessero l’impostazione liberale di Israele, commentava Berlin, procurava un certo grado di «discriminazione religiosa» che, se non imponeva una soluzione urgente – essendo ristretto il numero di persone che ne erano colpite –, restava comunque una grave «macchia». Nondimeno, si dovevano tenere in conto sia il ruolo eccezionale della religione nella «nazionalità» ebraica – che, per Berlin, sarebbe scemato con la progressiva normalizzazione innescata dalla nascita d’Israele – sia le «ragioni di sicurezza», che consigliavano di mantenere, «almeno per qualche tempo», una registrazione distinta tra cittadini ebrei e non ebrei8. Quindi, pur raccomandando l’istituzione di un organo che vagliasse di volta in volta i casi specifici, il filosofo proponeva di concedere la «nazionalità ebraica» agli immigrati che avessero «vissuto una vita da ebreo fuori da Israele» e si identificassero «con la comunità ebraica in qualche modo evidente», pur senza essere figli di madre ebrea o avendo rifiutato il «rito di conversione formale». La nazionalità si sarebbe dovuta concedere anche ai figli di matrimoni misti ai quali i padri ebrei intendessero dare un’educazione ebraica, nell’auspicio che la vita in Israele provvedesse all’«adeguata assimilazione».

avrebbe, quindi, sviluppato un interiore conflitto di fedeltà: «egli crescerà odiando o sua madre o Israele». Parzialmente diverso sarebbe stato il caso di una madre cristiana non praticante. Se ella avesse tenuto meno alla religione cristiana che a Israele e al bene del proprio figlio, avrebbe fatto meglio a convertirsi all’ebraismo; benché Marie supponesse che per comprensibili ragioni questa pretesa potesse essere respinta. «Sarei una persona davvero delusa se Israele fosse governato dal Partito Religioso», proseguiva Marie, «perché, forse meglio di quelli della tua generazione, so quanto inflessibilmente intransigenti e anche crudeli possono essere quando perseguono i loro fini. Ma registrare il matrimonio tra un ebreo e una non ebrea è qualcosa che potrebbe danneggiare lo Stato. [La] piccola Israele è ancora troppo malferma per vivere su teorie universalmente accettate. Deve ancora pensare a questioni pratiche». Cfr. Marie Berlin a Isaiah Berlin, 25 gennaio 1959, MS. Berlin 299, fols. 127-129.

7 Cfr. I. Berlin, Who is a Jew? (1959), in Id., Enlightening, cit., pp. 763-764. 8 Cfr. op. cit., pp. 764 e 767.

Si sarebbe, in sostanza, determinata una scissione tra appartenenza politica e appartenenza religiosa. Se i tempi non fossero stati sufficientemente maturi per adottare simile soluzione, Berlin suggeriva la creazione di uno «status temporaneo […] per i casi problematici», in attesa di una piena assimilazione nella comunità o dell’abbandono di essa o, preferibilmente, di una legislazione più liberale. «Niente sarebbe più ingiusto o disastroso», egli scriveva, «che permettere l’emergere di una categoria permanente di cittadini di status inferiore – metà-ebrei, con diritti civili e politici incompleti; un’abominevole caricatura rovesciata delle persecuzioni antisemite di altri paesi». Piuttosto che giungere a questo, continuava, sarebbe stato perfino meglio se a coloro che avrebbero rischiato di subire tale trattamento fosse preclusa l’immigrazione9.

«Il prigioniero nella scatola di plastica»

Negli anni seguenti, fu un altro e più eclatante evento nella storia israeliana quello al quale Berlin si interessò, riuscendo a non far trapelare pubblicamente le proprie opinioni. Nel maggio del 1960, infatti, Ben-Gurion comunicò al parlamento la detenzione in Israele di uno dei principali responsabili della “soluzione finale” durante la seconda guerra mondiale, l’ex ufficiale del servizio di sicurezza delle SS Adolf Eichmann, catturato dal Mossad, il servizio segreto dello Stato ebraico, in Argentina10. Walter Eytan, all’epoca ambasciatore israeliano a Parigi, scrisse entusiasticamente a Berlin che quella dell’arresto di Eichmann era una «storia fantastica; gli siamo stati dietro sin dalla guerra, e sulle sue tracce sin dal 1953, ma così vagamente che solo ora è stato possibile afferrarlo. […] Un politico francese mi ha detto la notte scorsa: “La justice immanente”. Sento che è, in senso storico, la cosa più importante che sia accaduta al popolo ebraico dal 14 maggio 1948. Non credi? Io sono abbastanza sopraffatto, anche dopo 18 ore dall’aver sentito per la prima volta la notizia. Posso immaginare cosa possa significare questo per tua madre!»11.

Contro la richiesta, avanzata ad esempio da Goldmann, capo del Congresso Mondiale Ebraico, di affidare a un tribunale internazionale il compito di processare il prigioniero, il Ben-Gurion aveva affermato che questo fosse «dovere dello Stato d’Israele, la sola autorità sovrana nella comunità ebraica». Obiettivo principale non sarebbe stata la punizione del singolo colpevole – «nessuna pena può raggiungere la magnitudine dell’offesa» – ma, per soddisfare la «giustizia storica» e riscattare

9 Cfr. op. cit., pp. 765-767. Sulla proposta di Berlin si veda E. Ben-Rafael, Jewish Identities, cit., pp. 35-36 e 41-42. La Legge del ritorno avrebbe ampliato la platea degli aventi diritto solo nel 1970, durante il premierato di Golda Meir 10 Si veda a tal proposito Z. Aharoni, W. Dietl, Operation Eichmann. Pursuit and Capture, Cassell, London 1996. 11 Cfr. Walter Eytan a Isaiah Berlin, 24 maggio 1960, MS. Berlin 160, fol. 61. Per Chaim Yahil, ministro degli Esteri israeliano, il processo a Eichmann andava posto «sullo stesso piano dell’atto di liberazione, dell’immigrazione e dell’integrazione di molti membri del nostro popolo nel nostro paese». Citato in G. Bensoussan, Israele, un nome eterno, cit., p. 126.

«l’onore del popolo ebraico», la completa esposizione degli «infami crimini del regime nazista» contro gli ebrei, ciò che non era potuto avvenire a Norimberga, e il disvelamento «in tutto il suo orrore» dell’Olocausto, «quale solo crimine senza precedenti o paralleli negli annali dell’umanità»12. A ulteriore conferma dei propositi pedagogici, egli avrebbe aggiunto che l’evento avrebbe istruito «i giovani israeliani» sull’immane perdita di intelligenze ebraiche causata dallo sterminio, avrebbe messo a nudo le responsabilità dei paesi europei che non avevano aiutato gli ebrei e avrebbe ricordato all’«umanità a che cosa può portare la pazzia antisemita»13. A Kollek, direttore generale dell’ufficio di Ben-Gurion, Berlin aveva già obiettato che se lo scopo del processo fosse stato di «ricordare al mondo il massacro», esso sarebbe stato vanificato dal diffuso rifiuto di richiamare «i fantasmi di un pur recente passato»; né si sarebbero messi in guardia gli ebrei dai rischi che correvano nella diaspora o, in sé, si sarebbe servita la causa della giustizia. A preoccupare Berlin era soprattutto la prevedibile sentenza di morte, prevista per i crimini di guerra sotto il regime nazista e per i crimini contro il popolo ebraico, che la «rovente opinione pubblica» pretendeva per spirito di «vendetta». Eppure, egli auspicava che Ben-Gurion, nelle cui «onnipotenti mani» riteneva risiedesse l’esito del processo, compisse un gesto di clemenza, risparmiando la vita al prigioniero ed espellendolo dal paese14. Nel dicembre del 1961, a otto mesi dall’inizio del processo, il Tribunale distrettuale di Gerusalemme riconobbe Eichmann colpevole dei crimini che contemplavano la pena di morte.

Avendo avere assistito a una seduta dell’appello presso la Corte Suprema israeliana, il 28 maggio 1962, il giorno prima del verdetto che avrebbe accolto in pieno le tesi dell’accusa e tre giorni prima che Eichmann, «il prigioniero nella scatola di plastica»15, fosse impiccato16, Berlin confermò al drammaturgo Samuel Behrman l’idea che il processo avesse avuto un fine «politico o educativo o storico, ma non meccanicamente giudiziario» (giacché, notava, difficilmente Israele avrebbe

12 Cfr. D. Ben-Gurion, The Capture of Adolf Eichmann, 24 maggio e 8 agosto 1960, in Israel in the Middle East, cit., p. 168.

13 Citato in S. Minerbi, La belva in gabbia: Eichmann, Longanesi, Milano 1962, p. 12.

14 Cfr. Isaiah Berlin a Teddy Kollek, 27 luglio 1960, in I. Berlin, Building, cit., pp. 3-4. Soltanto «il tono e il carattere dei […] più chiassosi oppositori» alla condanna a morte dell’imputato, aggiungeva, gli avrebbero fatto apparire sotto una luce favorevole la condanna a morte di Eichmann. Ibidem. Si può notare che Berlin non si dichiarasse avverso per principio alla pena capitale. Nel 1990 affermerà di credere che le pene dovessero avere fine redistributivo e di deterrenza, e non riabilitativo. Comunque, temendo che avrebbe alimentato l’antisemitismo, si sarebbe detto contrario alla proposta di legge, presentata allora, per consentire ai tribunali del Regno Unito azioni penali contro i sospettati di crimini di guerra nella Germania nazista, o nei territori da essa occupati, che avevano poi acquistato la cittadinanza britannica. Cfr. Isaiah Berlin a Jack Donaldson, 10 maggio 1990, in I. Berlin, Affirming, cit., pp. 384-386 e 384n.

15 Così Berlin descriveva Eichmann, aggiungendo: «guardava costantemente in basso e scriveva più o meno incessantemente, leccandosi le labbra di tanto in tanto; sembrava un piccolo ratto leggermente canceroso, non molto nordico ma nemmeno propriamente ebraico», come si era invece affermato in un editoriale del «New York Times». Cfr. Isaiah Berlin a Sam Behrman, 28 maggio 1962, in I. Berlin, Building, cit., p. 94.

organizzato la cattura e il processo per i criminali nazisti ancora latitanti): «far comprendere al mondo e agli ebrei quello che è accaduto, l’intera terribile, incancellabile storia»17. Ma, similmente a Gershom Scholem18 e a Martin Buber19, temeva che con l’atto simbolico dell’esecuzione si sarebbe ritenuto chiuso il discorso sull’Olocausto: «Gli ebrei hanno la loro vittima. Sangue per sangue, sei milioni per uno, ora l’atto è compiuto ed è tempo che essi smettano di annoiare il mondo con l’infinito ricordo degli orrori che hanno subìto». Però gli israeliani, egli ammetteva, avevano un interesse troppo scarso per «il mondo esterno» per poter riconsiderare la questione20.

Eppure, come si è detto, Berlin aveva ritenuto una conseguenza positiva del successo sionista che gli ebrei non dovessero più curarsi incessantemente dell’opinione altrui e, coerente con la scelta del 1958 di rifiutare l’offerta fattagli dall’«Observer» di scrivere articoli su Israele, con il rischio di dover «metter[n]e alla berlina in pubblico le colpe e i crimini»21, non si espose pubblicamente. Anni dopo, nel lamentare il paternalismo che, a suo dire, impregnava i giudizi esterni su Israele, avrebbe riferito a Philip Toynbee di un dialogo avuto a Gerusalemme, probabilmente con un diplomatico israeliano, all’epoca del processo Eichmann. «A proposito di tutte le lettere di arcivescovi, dalle quali erano inondati, che invocavano gli ebrei di ricordare il loro grande passato spirituale e il meraviglioso contributo dato alla comprensione religiosa e di elevarsi al di sopra dei pensieri di mera vendetta e fare qualcosa di nobile e generoso», il diplomatico gli aveva detto: «‘Noi non vogliamo essere peggiori delle altre persone, ma perché ci si aspetta sempre che ci comportiamo meglio di ogni altro?’». «È indubbiamente questo che li irrita e che rende automaticamente repellenti tutti i consigli esterni», commentava Berlin, che conveniva sul fatto che gli israeliani fossero sempre ritenuti «in prova» e attesi al varco da chi era pronto a rimarcarne le colpe22. Manifestazione, questa, di una variante dell’effetto ostrica: in campo internazionale le azioni degli ebrei – e poi di Israele – erano valutate, talvolta dagli ebrei stessi, in rapporto a standard di moralità assai più elevati di quelli applicati agli alti popoli.

Nel 1973, tornando apertamente sulla conversazione avuta durante il processo Eichmann, Berlin ammoniva: «Il posto in cui criticare la politica dello Stato d’Israele, almeno per gli ebrei, è a

17 Cfr. Isaiah Berlin a Sam Behrman, 28 maggio 1962, cit., p. 94. 18 Cfr. G. Benoussan, Israele, un nome eterno, cit., pp. 137-138.

19 Buber, con altri docenti dell’Università Ebraica di Gerusalemme inviò una richiesta di grazia al presidente israeliano Itzhak Ben-Zvi, l’esecuzione di Eichmann avrebbe liberato i giovani tedeschi dal senso di colpa per l’Olocausto. Si vedano D. Avnon, Martin Buber. The Hidden Dialogue, Rowman & Littlefield Publishers, Boston 1998, pp. 31-32, e H. Arendt,

La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme (1964), Feltrinelli, Milano 2003, pp. 256 e 258.

20 Cfr. Isaiah Berlin a Sam Behrman, 28 maggio 1962, cit., p. 94.

21 Cfr. Isaiah Berlin a David Astor, 18 aprile 1958, in I. Berlin, Enlightening, cit., p. 621. 22 Cfr. Isaiah Berlin a Philip Toynbee, 17 luglio 1967, in I. Berlin, Building, cit., p. 335.

Gerusalemme piuttosto che a Londra e a New York»23. A intervenire pubblicamente, invece, era stata Hannah Arendt, che Berlin ricordava di aver conosciuto negli Stati Uniti tra il 1941 e il 1942 – quando «il suo fanatico nazionalismo ebraico – che ora si è trasformato nel suo opposto –» ricordava, era, perfino «eccessivo»24 – tramite Kurt Blumenfeld, leader sionista tedesco che aveva conquistato alla causa l’allieva di Heidegger già prima che ella, con l’avvento di Hitler, lasciasse la Germania per la Francia. Trasferitasi in America nel 1941, la Arendt si era schierata per l’istituzione di una forza armata ebraica che combattesse al fianco degli Alleati e, all’epoca in cui Berlin l’aveva conosciuta, collaborava con un’organizzazione che cercava di trasferire in Palestina i bambini ebrei tedeschi25. La formula che ella auspicava per risolvere la questione ebraica – e che smentisce l’accusa di “eccessivo” nazionalismo – era quella di uno Stato binazionale arabo-ebraico in Palestina. Pertanto, contraria alla Dichiarazione Biltmore, era giunta su posizioni «post-sioniste» e considerava non esaurite in Israele le mentalità del ghetto e della galut26. Probabilmente anche per questo, Berlin non