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Analisi delle interviste tramite un approccio narrativo

Nel documento Psicoeducazione nel disturbo bipolare (pagine 78-83)

RISULTATI E DISCUSSION

6. Presentazione dei dati e dei risultat

7.1 Analisi delle interviste tramite un approccio narrativo

Ogni paziente intervistato si è presentato con la propria storia contenente numerosi elementi ed utilizzata per raccontare chi è come persona e malato e quindi per descrivere la sua attuale identità e il suo eventuale cambiamento determinato dalla psicoeducazione e dalla malattia.

Le storie sono in parte strutturate perchè guidate dalla due domande dell'intervista (n' 1:”cosa rappresenta per lei il disturbo bipolare?”; n' 2:”come è cambiata la sua vita dopo aver partecipato al gruppo di psicoeducazione?”) ma soprattutto perchè, almeno all'inizio, ogni paziente ha raccontato la sua storia in maniera quasi distaccata, come se fosse ormai un'abitudine farlo e come se il periodo a cui si riferisse, ricordato tramite la prima domanda, fosse qualcosa di diverso rispetto all'attualità contrapponendo infatti sempre il prima e il dopo (pz 3:”al momento sono meno agitato rispetto a

prima”). La malattia psichica infatti è una condizione di rottura con l'esperienza vissuta in precedenza

(Maes et al., 1996): quando la persona perde la propria “salute mentale” non riesce a ricordare come fosse prima di ciò e la vita si spezza in due improvvisamente. Notiamo un cambiamento nella narrazione dopo la seconda domanda: quasi tutti i soggetti infatti, raccontando le conseguenze della psicoeducazione (per lo più tutte positive) esprimono gioia e felicità per quello che sono riusciti a fare e per quello che la stabilità raggiunta ha permesso loro di ottenere o riottenere (pz 3:”cerco di tirare

fuori il meglio dalle cose che faccio...sono già due anni che convivo per conto mio”;pz 7:”mi ha fatto conoscere situazioni che non sapevo...ce la sto mettendo tutta!”;pz 9:”mi daranno un

appartamento:qualche progresso c'è stato!”). Questo mostra l'avvenuta “normalizzazione” che in

questo caso non implica l'agire come se la malattia non avesse effetti e quindi il metterla tra parentesi, ma integrarla nella propria vita ricostruendo e riparando le rotture che ha determinato (Bury, 1982). Le narrazioni sono soprattutto monologiche infatti risuona solo la voce del narratore (il paziente), ecco che gli eventi sono descritti in modo causale (pz 9:”siccome sentivo le voci allora ho dovuto

sottopormi a elettroshock”;pz 5:”siccome potrei trasmettere la malattia ai miei figli allora ho rinunciato ad averne). La conseguenza di ciò è il fatto che l'individuo spesso e volentieri collega gli

eventi per dare alla malattia un solo significato preciso (pz 1-5:”è colpa della genetica perchè in

famiglia c'era già un malato di mente;pz 6:”la crisi è stata scatenata dal corso;pz 7:”quando ho scoperto del disturbo tutto quello che avevo fatto e che non mi spiegavo ha avuto un senso”).

Il modo in cui i pazienti si rappresentano la malattia non è positivo e molti di loro la descrivono come un peso o un fardello perenne a cui devono adattarsi (pz 1:”rappresenta un cambiamento di vita e di

scelte da fare”;pz 2:”è un bel fardello perchè la tua vita cambia;pz 5:”è un peso perchè mi fa sentire diversa dagli altri”;pz 8:”sicuramente mi ha rovinato la vita questa malattia”) che li ha obbligati ad

enormi cambiamenti lavorativi (pz 1:”non mi ha più permesso di lavorare perchè sotto stress io vado

su quindi mi licenziai”) ma soprattutto sociali: i soggetti infatti hanno dovuto rendersi conto che

ancora oggi i disturbi mentali non sono pienamente compresi e sono spesso malvisti per cui preferiscono isolarsi o mentire sulla propria condizione per prevenire lo stigma sociale (pz 5:”ci

considerano matti, pericolosi, ecco che sono molto riservata sull'argomento...se devo chiedere un permesso non dico che mi serve per lo psichiatra ma per altre cose). Tutto ciò lo ritroviamo anche

nella letteratura, la quale indica come possibile ipotesi dell'episodio depressivo la paura di essere rifiutato e la percezione di una sconfitta esistenziale (Cassano, 2009); inoltre, a differenza delle

malattie fisiche, quelle mentali sono ancora viste come innaturali e come motivo di scandalo, non tanto per il comportamento di chi ne è affetto ma per la relazione con esso: la persone “sane” infatti temono le loro reazioni, i loro pensieri, le loro intenzioni in quanto in questo immaginario collettivo il paziente psichiatrico è “anormale” e questo le induce allo stigma e all'allontanamento di tali individui, quindi ad avere un comportamento che crea un senso di fallimento interiore nel paziente.

Una caratteristica dei disturbi bipolari e delle malattie croniche in generale è il loro esordio

improvviso che induce al passaggio da sintomi insignificanti ad una patologia conclamata o in via di sviluppo e quindi all'entrata in un nuovo mondo in cui cambia ogni punto di riferimento (Bury, 1982). I pazienti intervistati hanno riferito di trovarsi in una situazione di grande incertezza nella quale non avevano idea di cosa stesse capitando loro oppure lo avevano intuito ma allo stesso tempo lo

rifiutavano. Questa incertezza ha dato origine a molte emozioni negative: la paura per il futuro (pz 8:”ho paura per il mio futuro...non lo so che fine farò”) e per la possibilità di trasmettere o aver trasmesso la malattia ai figli (pz 6:”guardo i bambini e penso continuamente a chi potrei averla

trasmessa”), la paura di non essere accettato/a dalla società (pz 5:”anche di recente ho avuto

un'esperienza di resistenza verso questi disturbi”), l'ansia per precisi periodi dell'anno (pz 8:”durante i cambiamenti di stagione le oscillazioni dell'umore ci sono”) e per eventuali ricadute, la rabbia per il

fatto di soffrire di questo disturbo (pz 4:”mi sono chiesto perchè è toccato proprio a me”), la tristezza e la rassegnazione per la sua cronicità e quindi per il fatto che comunque la malattia non tenderà a sparire ma solo ad attenuarsi (pz 8:”purtroppo non sapevo fosse cronica quindi non c'è da stare tanto

allegri”). In opposizione a tali emozioni però notiamo anche la comparsa di emozioni positive

soprattutto dopo la psicoeducazione, come la gioia per le attività svolte una volta raggiunta

l'autonomia e l'indipendenza dalle fasi acute (pz 3:”sono esperienze bellissime, stupende”), il sollievo per aver conosciuto persone affini con le quali confrontarsi, consolarsi e poter parlare della propria situazione senza vergogna e senza timore di non essere capito o accettato (pz 7:”io non avevo

l'abitudine di parlare con estranei di queste cose ma al corso siamo diventati un tutt'uno; pz

5:”eravamo tutti alla pari e potevo parlare liberamente!”), l'accettazione della propria condizione che ha cancellato sensi di colpa e rimorsi (pz 2:”ora riesco ad accettarlo ma all'inizio è stata dura”; pz 4:”non voglio più fare come prima, basta!”), la sorpresa per aver scoperto il beneficio della terapia farmacologica (pz 5:”vedevo comunque che con la terapia stavo bene e lo sono stata per anni”) e per aver imparato come convivere con la malattia (pz 7:”ora riesco a conviverci abbastanza bene”), la speranza di un futuro migliore tramite nel regolarizzazione dello stile di vita.

Vediamo che le emozioni suscitate dal disturbo bipolare sono già state riscontrate in altri studi su diverse malattie croniche, i quali infatti evidenziano l'emergere della rabbia proprio come tipica reazione alla frustrazione dovuta a costrizioni psicologiche (Cavallero et al., 2010). Nel campione, oltre alla rabbia, si nota uno scoraggiamento iniziale contrapposto però all'accettazione successiva indicante il fatto che la malattia può essere parte integrante della vita quotidiana. Una cosa importante da sottolineare comunque è la differenza emersa tra chi sembra assimilare il disturbo bipolare nella propria vita solo perchè rassegnato alla certezza che non se ne andrà mai e chi invece è riuscito ad andare oltre esso riniziando a vivere la sua vita.

Le emozioni in contrasto emerse dalle interviste potrebbero essere dovute alla differenza su ciò che la persona sapeva o credeva di sapere prima della psicoeducazione e ciò che ha scoperto dopo; quasi tutti i pazienti infatti prima non capivano cosa stesse succedendo e perchè (pz 1-2:”sono stata anni

senza capire cosa mi succedeva”), non conoscevano i farmaci, la malattia e i suoi aspetti (pz 4:”per me stavo bene”), ecco che scaturivano emozioni negative come paura e ansia. Una volta ricevuta la

diagnosi di disturbo bipolare invece sembra esserci un misto di sollievo e orrore: sollievo per il fatto che le cose sembrano andare al loro posto in quanto il paziente adesso ha un nome e una causa da dare agli eventi inspiegabili successi finora e può aspettarsi quindi una cura adeguata o almeno qualcosa che lo aiuti; orrore perchè quel nome ha reso il disturbo qualcosa di reale, di vero, ecco che alcuni pazienti preferiscono continuare a porre la malattia tra parentesi. È proprio questa paura che ha condotto alcuni individui a rappresentarsi in modo innocuo il disturbo e a prendere alla leggera la diagnosi sottovalutando l'importanza del trattamento farmacologico e della regolarizzazione dello stile di vita e andando incontro quindi a vari episodi maniacali o depressivi. Il corso di

psicoeducazione è servito a rendersi conto di questo sbaglio, infatti, una volta svolto, tutti diventano consapevoli o ancora più consapevoli di avere a che fare con qualcosa di serio, ma allo stesso tempo si sentono più forti, non si incolpano per il disturbo perchè in parte lo accettano e comprendono che le ricadute possono esserci indipendentemente da loro e dal fatto di vivere in modo tranquillo seguendo i consigli dei professionisti (pz 2:”dai un nome proprio alla malattia...ci sono stati tanti consigli per

affrontarla e per prendere in tempo la crisi”; pz 5:”sicuramente ho più conoscenza della cosa ed è un bene anche se non mi previene dalla ricadute”; pz 6:”ho preso coscienza di quello che ho, come affrontarlo”; pz 9:”ho scoperto la malattia, i vari aspetti, i farmaci, i sintomi”).

La parziale o assente conoscenza del disturbo è riscontrabile nel fatto che pochi pazienti hanno cercato o avuto informazioni sull'argomento: solo un paziente su nove sin dall'inizio della malattia ha intuito di cosa poteva trattarsi e, una volta appurata la cosa, ha continuato ad informarsi (pz

1:”quando comprai il libro di Cassano ci ritrovai tutto quello che mi stava capitando e capii di essere malata...sapevo già quasi tutto tramite letture fatte per conto mio”), invece gli altri si sono

semplicemente basati su ciò di cui altre persone erano convinte (pz 2:”c'era chi mi diceva che forse

era schizofrenia affettiva o un disturbo dell'umore”;pz 5:”i miei familiari si accorsero che forse ero un po' troppo su”;pz 6:”mi dissero che era solo depressione”) senza però prendere iniziativa per

conto proprio con lo scopo di approfondire l'argomento, ad esempio ricercando libri o articoli riguardanti il disturbo bipolare oppure chiedendo spiegazioni al medico. Tale comportamento fa pensare che forse hanno preferito rimanere all'oscuro di tutto, azione ricollegabile all'ampio uso di coping evitante che infatti domina il periodo precedente al corso di psicoeducazione; inoltre questi comportamenti possono essere ricollegati alla conoscenza incerta del disturbo, del suo impatto, del suo decorso e degli atteggiamenti adeguati da tenere dinanzi alle sue conseguenze. Da un lato quindi sembra che i pazienti vogliano inizialmente rifugiarsi in questa ignoranza, mentre dall'altro cercano aiuto, in particolare quello medico, per tentare di identificare il problema ed è proprio questa ricerca d'aiuto che in alcuni casi ha creato difficili rapporti con i dottori perchè la loro diagnosi a volte non ha coinciso con l'esperienza del paziente, aumentando così incertezza e ansia.

Sebbene restino ben salde alcune credenze (come la convinzione di aver avuto in eredità il disturbo o di averlo trasmesso), nonostante il corso psicoeducativo abbia cercato di confutarle, l'aumento della consapevolezza e della conoscenza ha indotto molti pazienti a nuove convinzioni come il rendersi conto che la malattia si sarebbe manifestata a prescindere dallo stile di vita (pz 2:”ci ho messo un po'

del mio ma sarebbe successo lo stesso”), che la terapia farmacologica, sebbene in alcuni momenti

diventi un peso e un sacrificio, resta un aiuto fondamentale per prevenire le ricadute (pz 2:”so che

devo assumerli altrimenti arrivano le crisi”) così come l'evitamento di situazioni che potrebbero

scatenare una crisi (pz 4:”faccio una vita tranquilla, seguo una buona cura, vado a letto presto”). Possiamo quindi evincere che vi è una soddisfazione generale per il corso di psicoeducazione, definito infatti utile dalla maggior parte dei pazienti, e ciò si riscontra in alcuni loro comportamenti come il maggior impegno per vivere in modo più regolare svolgendo anche attività costruttive e gratificanti; sono proprio queste attività a migliorare la loro situazione poiché, dal momento che le persone bipolari tendono a isolarsi a causa degli episodi depressivi e del fatto che non si sentono compresi in primis da familiari e amici o sono malvisti dalla società, ciò che serve loro è stabilire delle connessioni che li aiutino a relazionarsi ed uscire dal proprio nucleo (Grecco, 2007). Nel campione sono presenti individui che, una volta capito di non essere pericolosi o non autosufficienti come invece il resto delle persone li aveva definiti, si sono rimessi in gioco, sono usciti dal loro isolamento e hanno iniziato ad occuparsi di altro che non fosse loro stessi facendo volontariato, provando a svolgere le mansioni di casa da soli, cercando un nuovo lavoro e un nuovo hobby, trovando nuove amicizie con cui poter finalmente essere se stessi (pz 3:”faccio teatro con i bambini

disabili...le cose le fai per conto tuo, dal pulirti la camera al pulire gli spazi comuni”; pz 4:”vorrei riprovare ad entrare alla Piaggio”; pz 8:”parliamo poi di iscriversi in palestra, di fare una scuola di ballo”).

Secondo alcuni studiosi la bipolarità non è un'unica cosa ma un insieme di elementi uniti e si presenta in modi diversi ma ha una struttura comune: è uno spettro molto ampio ed è frutto di un

raccontato eventi che secondo loro a persone “normali” non sarebbero mai capitati, spesso invece proprio quegli eventi accadono a tali persone, basti pensare all'uso di droghe o alcool: sebbene la mania possa indurre ad assumere sostanze, gran parte dei giovani fa la medesima cosa pur non essendo bipolare. La differenza tra le due azioni sta nel fatto che, mentre una persona “sana” riesce a controllarsi e a decidere di compiere quella specifica azione, il bipolare spesso è guidato dalla crisi e non ha ancora imparato come fare a controllarsi: questo secondo il modello di Colom e Vieta è proprio uno degli obiettivi finali della psicoeducazione, tramite la quale il paziente bipolare non passa dalla diagnosi al trattamento seguito in maniera impeccabile ma attraversa una serie di fasi in cui sviluppa la sua conoscenza, la sua capacità di gestire la malattia, le relazioni e lo stress , terminando con la comprensione del disturbo e un maggior controllo sulla propria vita che si traduce in un incremento del benessere e un miglioramento della qualità di vita (Colom & Vieta, 2006). Ciò che i due autori scrivono è quello che abbiamo potuto constatare nei pazienti dello studio, i quali

inizialmente non capivano e soffrivano per essere diversi, mentre successivamente si sono accettati e hanno iniziato ad impegnarsi per riacquisire il controllo sulla loro vita.

È inoltre importante sottolineare come spesso il paziente tenda a identificarsi con la malattia come se la sua persona non contasse quanto l'etichetta assegnatagli e come invece frequentemente possano bastare alcuni interventi di ristrutturazione per cambiare questo punto di vista (pz 5:”la psicologa mi

disse una frase che cerco di fissare sempre in testa, ovvero le dissi che ero bipolare e lei

semplicemente mi rispose così: tu soffri di un disturbo bipolare, ma sei altro”). Spesso la scarsa

informazione associata ad un immagine stigmatizzata della malattia porta a preoccupazioni il più delle volte infondate e a nuovi timori per la riorganizzazione della propria vita alla luce della diagnosi ricevuta. Una delle reazioni più comuni alla diagnosi infatti è la tendenza all'isolamento, al sentirsi rifiutato e incompreso, al considerare finite le possibilità di relazioni affettive, al senso di colpa e alla vergogna nel confessare la nuova condizione: è importante quindi ascoltare e confrontarsi con

persone che hanno vissuto e che vivono ancora lo stesso problema in modo da non percepire la situazione come “diversa” e in modo da sviluppare nuove strategie per combattere la malattia (Cavallero et al., 2010). Il corso di psicoeducazione è servito anche a questo in quanto molti dei pazienti sono riusciti ad uscire dal loro isolamento, a rendersi conto di non essere soli, a confessare dubbi e credenze e si sono sentiti compresi ed aiutati. Alla domanda “perchè proprio a me?”, la quale esprime il vivere il disturbo come un'ingiustizia e una colpa, è stato sostituito il riconoscere la propria condizione come parte della propria esistenza e ciò ha indotto ad accettare i propri limiti e a

riconoscere le proprie risorse. Ogni paziente ha ritrovato un senso alla sua vita e ragioni valide per le quali lottare ed impegnarsi e naturalmente questo non è stato semplice e non sarà mai lineare come del resto non lo sarà mai il disturbo bipolare: alla pari degli episodi di polarità opposta che lo caratterizzano, ogni paziente vivrà alcuni momenti in cui si sentirà intrappolato nella malattia e altri invece in cui si sentirà più libero. Sono proprio questi ultimi momenti i più pericolosi in quanto possono indurre a pensare di stare bene lo stesso anche senza la terapia farmacologica e quindi portare ad una sua interruzione con la conseguenza frequente di una ricaduta. La cosa fondamentale comunque è che la persona si senta compresa, accettata e soprattutto rispettata in modo che i progressi raggiunti finora continuino ad essere vissuti come rinforzi positivi e quindi facciano da input per un continuo miglioramento.

Un altro tema importante da considerare è quello dell'identità, la cui costruzione rappresenta un processo dinamico che continua nel tempo. Il disturbo bipolare, in quanto malattia cronica, costringe ad una ridefinizione della propria identità sia personale (intesa come un senso generale di continuità e di valore di sé nel tempo e nello spazio – Breakwell, 1986) sia sociale (intesa come l'insieme di sentimenti e caratteristiche che un individuo prova e si attribuisce nel considerare la propria appartenenza a specifici gruppi sociali – (Tajfel, 1981). Dall'analisi della letteratura emerge che questo tema è stato molto trattato da diverse prospettive teoriche che hanno preso in considerazione specifiche dimensioni dell'identità (come l'autoefficacia) e che rivelano come spesso il paziente sperimenti una perdita del controllo riguardante la gestione dei sintomi e l'imprevedibilità della malattia stessa (Musacchio et al., 2007). Il concetto di autoefficacia sarà trattato più avanti in questo lavoro di tesi e sarà mostrato come aumenti e si rafforzi in ogni paziente, ma possiamo intanto dire

che già durante ma soprattutto dopo la psicoeducazione la persona ha ritrovato la sua efficienza e ha sviluppato la capacità di farcela da sola.

Possiamo analizzare l'identità dei pazienti dello studio tramite almeno tre modelli teorici che spiegano l'impatto di una malattia cronica sull'identità e che si differenziano per la possibilità di individuare o ricostruire una continuità nella vita e nelle esperienze delle persone.

Secondo il modello della frattura identitaria la malattia cronica rappresenta un momento di scissione irreparabile o quasi tra la vita di prima e quella dopo la diagnosi (Bury, 1982); tale frattura però può limitarsi ad alcune aree dell'identità o non essere così irreparabile lasciando quindi spazio alla

speranza di una continuità (Sanders et al., 2002): molti pazienti hanno continuato o iniziato comunque a lavorare, a gestire la famiglia, ad impegnarsi in varie attività. Questo indica quindi che il disturbo bipolare non ha posto un limite a tutto ma piuttosto ha alzato il grado di difficoltà nell'ottenerlo. Un differente modello è quello dello slittamento biografico che evidenzia la possibilità di una

ricostruzione di una continuità biografica soprattutto quando la transizione è percepita come coerente con la propria fase di vita, come ad esempio nel caso di una malattia che compare in età avanzata e che quindi ha un impatto meno distruttivo sull'identità in quanto l'idea di malattia è socialmente connessa all'idea di invecchiamento (Hagestad, 1996). Nel nostro caso tale teoria non è applicabile per quanto riguarda la fase della vita in quanto il disturbo in questione non ha un esordio tardivo ma adolescenziale o intorno ai 30 anni quindi l'ipotesi del modello sull'insorgenza tardiva connessa ad un impatto minore sull'identità non è valutabile. È invece da considerare il fatto che il trattamento

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