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Locus of control

Nel documento Psicoeducazione nel disturbo bipolare (pagine 85-96)

RISULTATI E DISCUSSION

6. Presentazione dei dati e dei risultat

7.4 Locus of control

In generale il campione presenta una tendenza al locus of control esterno, presente infatti circa il doppio rispetto a quello interno: questo indica che la maggioranza dei pazienti attribuisce a

circostanze esterne, in questo caso al disturbo bipolare, le conseguenze di alcune loro azioni e questo potrebbe essere influenzato da una serie di rinforzi negativi come ricadute, stigma, incomprensione da parte dei familiari.

Il locus esterno sembra prevalere soprattutto nel genere femminile ma, nonostante ciò, nella fascia di età 30-49 anni, in cui dominano le donne, prevale il locus interno; infine rispetto alla

psicoeducazione notiamo che successivamente ad essa si crea un equilibrio nell'uso dei due tipi di locus of control. La differenza tra i due periodi (prima e dopo il corso) indica che inizialmente i pazienti attribuivano ogni esito ed ogni causa a forze esterne, dopo invece comprendono che, sebbene

non sia colpa loro il fatto di soffrire di questo disturbo, è responsabilità loro far sì di aumentare il controllo sul comportamento ed avere più fiducia nelle proprie capacità riconoscendo

contemporaneamente che, essendo il disturbo bipolare una malattia cronica, molte ricadute potrebbero manifestarsi indipendentemente dalla regolarizzazione del loro stile di vita.

Il concetto di locus of control è spesso correlato a quello di autoefficacia in quanto identificare le cause di alcuni eventi può avere una duplice funzione: consentire un maggior controllo delle proprie azioni e identificare un orientamento da prendere per il futuro (Maddux, 1995). Nella letteratura però alcune ricerche hanno trovato una scarsa correlazione tra i due concetti e hanno rilevato come il locus of control non sia predittivo di comportamenti adattivi come lo è invece l'autoefficacia (Maddux, 1995). Per quanto riguarda il campione possiamo dire che quasi tutti i pazienti dopo il corso di psicoeducazione presentano un locus of control che è una via di mezzo tra i due estremi, ad eccezione di due soggetti che hanno mostrato una tendenza esclusiva verso il locus esterno: questo potrebbe significare che effettivamente l'aumento dell'autoefficacia riscontrato ha cambiato il modo di attribuire le cause agli eventi nella maggior parte dei pazienti o, viceversa, le conoscenze apprese tramite la psicoeducazione hanno determinato una modifica in tale attribuzione incrementando così le convinzioni circa le proprie capacità di eseguire le azioni necessarie per produrre specifici esiti. Il concetto di locus of control è anche associato alle emozioni: sembra che soddisfazione, fiducia in sé stessi, senso di colpa siano associate al locus interno per cui se l'attribuzione di un successo è rivolta a sé determina una maggior fiducia e soddisfazione, se, al contrario, riguarda un fallimento induce al senso di colpa (Weiner, 1986); per il locus esterno invece in caso di successo si presenterà la gratitudine, in caso di insuccesso la rabbia. Inoltre dalle ricerche emerge che la vergogna, la quale dipende dall'attribuzione dell'evento alla propria incapacità, determina demotivazione e quindi fuga dal compito, il senso di colpa correlato al poco impegno induce all'azione e la rabbia porta ad

affrontare la causa del fallimento (Warner, 2005). Nel campione analizzato tutto ciò viene confermato infatti chi crede di non essere capace di gestire eventuali figli (vergogna) fugge dall'idea di averli, chi si sente in colpa per aver forse trasmesso il disturbo cerca di migliorare la propria situazione per i figli, chi prova rabbia per il fatto di soffrire di disturbo bipolare si impegna al meglio per combatterlo, gestirlo e non esserne succube.

Possiamo confrontare il concetto di locus of control anche con i criteri aggiunti alla teoria di Rotter da Weiner per valutare la causa di un risultato. L'autore introdusse la stabilità (o costante rispetto alla causa) distinguendo tra cause stabili (come l'abilità) e cause instabili (come la fortuna); questo criterio influenza i cambiamenti nell'aspettativa dopo un successo o un insuccesso e dalle ricerche risulta che, se un individuo riporta un fallimento e lo attribuisce alla propria scarsa abilità, la sua aspettativa di successo futuro diminuisce molto rispetto al fatto di collegare l'esito a cause instabili. L'altro criterio introdotto è la controllabilità o meno delle cause, ad esempio l'impegno è controllabile mentre la fortuna e l'abilità non lo sono (Weiner, 1986). Molti studi mettono in rilievo che se una persona attribuisce un insuccesso ad una causa controllabile, interna e instabile ha più probabilità di riuscire in futuro perchè convinta di poter dominare la situazione e quindi più motivata ad ottenere un successo (Warner, 2005). Nel campione spesso i pazienti attribuiscono le ricadute allo scarso impegno (causa controllabile) nel seguire la terapia o nell'evitare situazioni negative, ecco che, una volta compresa l'importanza di questi due comportamenti, si sono impegnati maggiormente nel raggiungere il

risultato essendo anche più motivati in previsione dell'aspettativa di miglioramento e sviluppando una maggiore autoefficacia e fiducia nelle proprie capacità. Gli stessi studi dimostrano poi che chi

attribuisce l'insuccesso alla mancanza di abilità (causa interna, stabile e incontrollabile) in futuro non si impegnerà abbastanza poiché lo riterrà inutile e ciò porterà al fallimento frequente (Warner, 2005). Questo spesso è accaduto ai pazienti in riferimento alla mania in quanto quasi tutti erano convinti (e per alcuni aspetti continuano ad esserlo) di non riuscire a identificare in tempo l'inizio dell'episodio maniacale e ciò ha portato più volte all'incapacità di riconoscerlo davvero; dopo il corso di

psicoeducazione però vediamo che alcuni di loro, sentendosi più capaci nel gestire il disturbo, si sono impegnati e continuano a farlo nell'identificare precocemente i prodromi maniacali ricercando anche un aiuto nei familiari e consultando spesso la lista di tali prodromi stilata durante il corso.

7.5 Elementi di insight

Gli elementi di insight sono presenti sia prima che dopo la psicoeducazione ma cambiano in maniera significativa tra loro: precedentemente al corso prevale il poor-insight e successivamente invece la consapevolezza. Questo significa che effettivamente la maggior parte dei pazienti prima di

partecipare al gruppo non aveva le idee chiare su cosa fosse il disturbo bipolare, sui suoi sintomi e prodromi, sull'importanza della terapia farmacologica associata ad un buon stile di vita, mentre, una volta concluso il corso, è aumentata la consapevolezza della malattia e di tutte le sua caratteristiche. Ciò ha determinato anche un aumento della compliance al trattamento infatti ogni paziente ha iniziato ad assumere in modo più accurato e consapevole la terapia farmacologica e a fare continuamente attenzione ai prodromi e allo stile di vita mantenendo in memoria i consigli e le avvertenze ricevute durante le sessioni psicoeducative e cercando di evitare situazioni potenzialmente pericolose per le ricadute.

La letteratura sul caso rivela che chi ha un disturbo bipolare nella maggior parte dei casi non ha consapevolezza di averlo perchè soprattutto le fasi (ipo)maniacali sono percepite come normali e questo può determinare gravi conseguenze socio-lavorative (Cassano & Tundo, 2008); inoltre può anche succedere, ma non è questo il caso, che il pazienti accetti solo la terapia ma non il disturbo e lo faccia soltanto per alleviare i sintomi che lo disturbano continuando poi a negare la malattia (Vender & Poloni, 2006).

Peratta e Cuesta (1998) sono stati tra i primi ad occuparsi del problema della scarsa consapevolezza nei disturbi dell'umore rilevando in un campione di soggetti maniacali e depressi che i primi

presentavano deficit di consapevolezza più evidenti rispetto ai secondi e che, mentre nei depressi la presenza di sintomi psicotici determinava un ulteriore aggravamento della consapevolezza, ciò non risultava essere un elemento rilevante nei maniacali (Liebson, 2000). La compromissione della consapevolezza nei pazienti bipolari è stata confermata da altri studi, infatti per i pazienti bipolari non psicotici i risultati concordano sul fatto che ci sia un ridotto livello di insight durante le fasi acute del disturbo (Ghaemi, 1995). È stato evidenziato inoltre come la dimensione della consapevolezza sia diversamente presente nei sottotipi del disturbo bipolare: i pazienti di tipo II sembrano mantenere livelli di insight più bassi anche nelle fasi di stabilizzazione clinica (Pallanti et al., 1999). Questo è in parte confermato dal campione infatti molti pazienti di tipo I affermano che prima e durante gli episodi maniacali non si rendevano conto di cosa stesse capitando loro mentre negli episodi depressivi ciò non avviene; per quanto riguarda il tipo II in questo caso caso la frequenza degli elementi di insight è pressochè simile prima e dopo la psicoeducazione ma essi cambiano nella qualità in quanto avviene un incremento della consapevolezza del disturbo. In ogni caso non possiamo dire che questo sia contrario alla letteratura poiché vi è solo un paziente di tipo II per cui non sarebbe corretto basarsi solo su di lui.

Infine un filone di ricerca ha sottolineato una relazione tra scarso insight e scarsa compliance al trattamento, la quale rileva che la scarsa aderenza alla terapia sarebbe associata a fattori correlati al paziente (giovane età, sesso maschile, comorbilità con alcol e droghe), al disturbo (età di insorgenza più giovane, assenza di consapevolezza di malattia) e al trattamento (effetti collaterali dei farmaci, efficacia della terapia) (Baldessarini et al., 2008). Analizzando il campione vediamo che riguardo ai fattori correlati alla persona effettivamente i pazienti più giovani (30-49 anni) hanno riscontrato una maggiore difficoltà nell'assumere la terapia perchè considerata come “qualcosa che annebbiava la mente” e perchè assunta spesso insieme a sostanze psicoattive, mentre rispetto al genere maschile dalle interviste emerge che solo due pazienti maschi su cinque hanno interrotto l'assunzione almeno una volta. In riferimento ai fattori correlati al disturbo notiamo come già detto che l'assenza parziale di consapevolezza di malattia in molti casi ha determinato una cattiva aderenza farmacologica, mentre rispetto all'età di esordio alcuni dei pazienti con un'età di insorgenza più giovane hanno presentato una resistenza ai farmaci o nel riprendere il trattamento. Riguardo ai fattori correlati alla terapia infine molti pazienti si lamentano per gli effetti collaterali dei farmaci ma non per la loro efficacia.

Dall'analisi del campione notiamo che l'autoefficacia è presente soprattutto nel genere femminile prima del corso di psicoeducazione e nel genere maschile successivamente ad esso

indipendentemente dall'età, inoltre sembra essere più frequente dopo il corso nel gruppo caratterizzato da una durata di malattia maggiore.

È importante sottolineare come l'autoefficacia aumenti in modo significativo in tutti i pazienti (5:16) una volta concluso l'intervento psicoeducativo: questo potrebbe correlarsi all'aumento di insight relativo al medesimo periodo per cui una maggiore consapevolezza di malattia dovuta ad una maggiore conoscenza del disturbo si correla positivamente all'aumento della percezione del paziente sulle sue capacità ad agire con efficacia e competenza mettendo in atto azioni e comportamenti adeguati come la ricerca di aiuto o la compliance.

Da alcuni studi emerge infatti che la mancanza di informazioni e spiegazioni sul disturbo e sulla terapia necessaria rende il trattamento oscuro e ne riduce l'efficacia: le spiegazioni aiutano i pazienti a credere negli effetti della terapia perchè aumentano le aspettative di esito e rinforzano la loro fiducia nella capacità di completare un compito (ad esempio seguire il protocollo del trattamento) per raggiungere tali esiti. Il conseguente aumento dell'autoefficacia conduce quindi all'azione sia durante l'intervento psicologico sia al di fuori di esso (Bandura, 2000) e questo è ciò che è accaduto ai

pazienti dello studio i quali, prima di avere informazioni chiare e dettagliate, erano diffidenti verso la terapia o comunque non capivano appieno la sua necessità, dopo averle ricevute invece ne hanno compreso il beneficio e sono andati incontro a un cambiamento comportamentale e cognitivo. Il concetto analizzato è in gran parte influenzato dal locus of control oltre che da esperienze precedenti di successo o fallimento (Giusti, 2006) infatti vediamo che nel periodo precedente alla psicoeducazione il locus of control è soprattutto esterno in riferimento sia ad eventi positivi che negativi e questo rendeva la persona quasi passiva diminuendone anche l'autoefficacia.

Successivamente invece si riscontra una distribuzione equa del locus of control interno ed esterno infatti i pazienti divengono più capaci di soppesare quanto dipende da loro stessi e quanto invece da fattori esterni consolidando quindi il proprio senso di autoefficacia in relazione a prestazioni

precedenti.

Infine un modo per promuovere l'autoefficacia è riuscire a realizzare degli obiettivi in quanto ciò incide positivamente sulla visione di sé e sul proprio senso di competenza (Bandura, 1997): nel campione i pazienti si sono posti come obiettivi il riconoscere in tempo il nuovo episodio, la regolarizzazione dello stile di vita, l'evitamento dell'interruzione della terapia farmacologica, e il successo nel fare ciò li ha resi più forti e fiduciosi nelle loro capacità.

7.7 Strategie di coping

Nel confronto dei singoli pazienti si nota un maggior utilizzo del coping attivo con poca differenza tra quello orientato al problema e quello orientato all'emozione (13:10); è interessante notare come successivamente alla psicoeducazione il coping evitante diminuisca in maniera significativa: poiché nel periodo precedente al corso prevaleva l'evitamento del problema e la negazione, questo significa probabilmente che i pazienti hanno accettato la malattia grazie ad una avvenuta ristrutturazione cognitiva. A conferma di ciò infatti il coping attivo emozionale aumenta significativamente mentre quello evitante emozionale sparisce.

Tra le donne vi è una tendenza maggiore ad adottare coping evitanti rispetto agli uomini che invece sembrano più concentrati sulla risoluzione del problema ricorrendo a strategie di coping centrate sull'orientamento al compito: tale risultato conferma in parte quanto rilevato da alcune rassegne della letteratura sul tema (Lechner et al., 2007) che sottolineano la presenza di alcune differenze attribuibili al genere come il maggior uso femminile di strategie di evitamento e interpretazione positiva della situazione. Dopo la psicoeducazione infatti vi è un aumento significativo del coping attivo

emozionale riguardante la ristrutturazione cognitiva quindi abbiamo una reinterpretazione positiva della situazione e ciò è correlato anche ad un equilibrio maggiore tra locus of control interno ed esterno e ad una maggiore autoefficacia: significa forse che il paziente dopo la psicoeducazione nutre più fiducia nella sua capacità di controllare gli eventi e percepisce le richieste ambientali come sfide e non più come minacce. Questo è in linea con la letteratura sul caso (Grimaldi & Ghislieri, 2003)

secondo la quale inoltre il coping evitante si correla negativamente con l'autoefficacia, stando ad indicare come una fuga/negazione della situazione sia legata a una sfiducia assoluta nelle proprie capacità, fenomeno confermato nel campione dal fatto che prima del corso erano ben presenti coping evitanti e dopo invece no.

Potremmo correlare la presenza del coping evitante anche con la reazione alla diagnosi ricevuta; come già detto infatti alcune delle reazioni più comuni ad essa sono la tendenza all'isolamento, al senso di colpa, alla vergogna: queste tendenze potrebbero aver indotto inizialmente i pazienti ad evitare il problema, ovvero il disturbo bipolare, a negarlo, a isolarsi e a non impegnarsi per trovare una soluzione. Inoltre l'evitamento è anche correlato all'immagine stigmatizzata della malattia mentale, ecco che molti individui hanno preferito (e spesso continuano a preferire) non usare

l'etichetta “disturbo bipolare” fuori da specifici ambienti come lo studio psichiatrico o la propria casa.

CONCLUSIONI

Il disturbo bipolare è una malattia cronica caratterizzata da oscillazioni insolite del tono dell'umore e della capacità di funzionamento della persona, dall'alternanza di uno stato depressivo e di uno maniacale (o ipomaniacale) o dalla compresenza di sintomi depressivi e maniacali con il predominio di irritabilità, ansia e irrequietezza.

Questa malattia ha un'incidenza dell'1-2% sulla popolazione generale, colpisce indistintamente sia uomini che donne, il primo episodio in genere si verifica tra i 18 e i 30 anni per poi ripresentarsi nel corso della vita e gli episodi, se non curati, diventano sempre più frequenti e invalidanti.

Nella gran parte dei casi il disturbo bipolare non viene riconosciuto con facilità e le persone possono star male per anni prima di ricevere una corretta diagnosi e un adeguato trattamento, inoltre ancora oggi non c'è unanimità sulla sua causa, sebbene molti studi concordino sul ruolo centrale del patrimonio genetico e dello stress nella sua genesi.

L'efficacia della psicoeducazione e della medicina narrativa è ampiamente dimostrata nella letteratura sul caso ma, nonostante questo, esistono solo poche ricerche qualitative sull'argomento che ne

dimostrino gli effetti positivi in pazienti con disturbo bipolare. Per questa ragione con il presente studio ci siamo proposti di analizzare e valutare i benefici dell'intervento psicoeducativo su tali pazienti usando un approccio narrativo.

Le storie/narrazioni emerse hanno mostrato un effettivo cambiamento cognitivo e comportamentale a seguito del corso di psicoeducazione. Questo risultato è coerente con l'aspettativa espressa

nell'elaborato, secondo la quale la conoscenza specifica del disturbo bipolare e dei suoi vari aspetti permetterebbe al paziente di migliorare la gestione della malattia e delle sue conseguenze, lo stile di vita, l'aderenza alla terapia farmacologica.

Colom et al. (2003, 2003b) hanno valutato gli effetti della psicoeducazione dimostrando la sua efficacia profilattica nel prevenire tutti i tipi di episodi e nel ridurre il numero totale di ricadute. Con il presente lavoro ci siamo proposti quindi di valutare l'avvenuta conoscenza del disturbo

bipolare e di conseguenza l'utilità percepita dai pazienti in riferimento alla psicoeducazione, oltre agli eventuali cambiamenti correlati ed indotti da essa, ma anche di esplorare l'esperienza soggettiva del singolo riferita al fatto di convivere con una malattia cronica, in questo caso il disturbo bipolare.

Riguardo al primo obiettivo (esplorare il tipo di storia/narrazione del paziente e il suo rapporto con la malattia) possiamo dire di aver compreso il modo in cui ogni paziente si rappresenta il disturbo bipolare, ovvero come un “peso”, fenomeno determinato in parte dalla visione negativa che da sempre caratterizza i disturbi mentali e che induce allo stigma e ad emozioni negative, in parte dalle limitazioni che la malattia ha imposto.

In opposizione a ciò però sembra che proprio questo “peso” serva da input per cercare di trovare il meglio possibile in ogni attività svolta e per migliorare continuamente; questo è correlabile

all'aumento di insight e autoefficacia, all'equilibrio tra locus of control interno e esterno e all'adozione di strategie di coping attive.

Questo contrasto è manifestato anche tramite il tipo di emozioni, le quali infatti da negative si trasformano in positive una volta raggiunta una diagnosi corretta, la conoscenza della malattia e di come affrontarla.

Tramite l'analisi dell'orientamento temporale è stato confermato il fatto che, nonostante le esperienze negative (rappresentate in questo caso dagli episodi depressivi o (ipo)maniacali), ogni paziente ha trovato il modo di andare avanti e vivere una vita il più possibile “normale”, sfruttando in alcuni casi proprio la malattia per ricordare i traguardi raggiunti.

Riguardo al secondo obiettivo (verificare l'avvenuta conoscenza del disturbo bipolare tramite la psicoeducazione) abbiamo constatato che quasi tutti i pazienti prima del corso di psicoeducazione conoscevano poco o nulla del disturbo bipolare, quindi l'intervento psicoeducativo è servito ad acquisire questa conoscenza. Ciò è confermato dall'aumento di insight successivo al corso e dal cambiamento comportamentale e cognitivo nei confronti della malattia e della sua gestione, cambiamento iniziato già prima della psicoeducazione ma preso realmente in considerazione e consolidato una volta conclusa.

In riferimento al terzo obiettivo (verificare l'utilità percepita dal paziente e riferita alla

psicoeducazione) vediamo che tutti i pazienti tranne uno sono rimasti soddisfatti dall'intervento psicoeducativo e grazie ad esso si è verificato un effetto di rimessa in gioco manifestato tramite la ricerca di obiettivi realistici da raggiungere, un nuovo modo di approcciarsi alla terapia farmacologica e un nuovo modo di vivere con la malattia e non contro di essa.

Infine, riguardo al quarto obiettivo (esplorare la presenza di eventuali cambiamenti determinati dall'aver partecipato ad un gruppo di psicoeducazione) rileviamo cambiamenti in tutte la variabili prese in considerazione dallo studio. Vediamo infatti che quasi tutti i pazienti da un maggior uso del locus of control interno o esterno giungono ad un utilizzo equilibrato dei due, dalla presenza del solo poor-insight passano ad una piena consapevolezza della malattia, da una presenza minima di

autoefficacia arrivano a credere davvero nelle proprie capacità e dall'uso frequente di coping evitanti giungono all'uso quasi esclusivo di quello attivo.

Ciò significa che un cambiamento si è verificato e si tratta di un cambiamento positivo, il quale senza dubbio è indotto dalla maggior conoscenza della propria condizione che ha diminuito e in alcuni casi

Nel documento Psicoeducazione nel disturbo bipolare (pagine 85-96)