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Gli andamenti del rapporto debito/Pil prospettati dal DEF per il quadriennio 2019-2022 destano preoccupazione: nel quadro tendenziale, dopo la marcata risalita

P ARTE PRIMA

29. Gli andamenti del rapporto debito/Pil prospettati dal DEF per il quadriennio 2019-2022 destano preoccupazione: nel quadro tendenziale, dopo la marcata risalita

del 2018 - nonostante sia stato, quello chiuso da qualche mese, un anno da valutare di buona crescita economica alla luce di quanto viene ora programmato - l’indicatore in questione aumenterebbe di 6 decimi di Prodotto e fletterebbe poi molto lentamente fino a poco sotto il 130 per cento nel 2022. Leggermente migliore è il profilo prospettato nel quadro programmatico: cresce un po’ meno nell’anno in corso (4 anziché 6 decimi di Pil) e flette in misura un po’ più marcata nel triennio 2020-2022 (al 128,9 anziché 129,6 per cento del Pil nel 2022). In entrambi gli scenari prospettati, non viene rispettata la regola del debito fissata in sede europea, regola che non prevede solo la discesa del rapporto, ma contempla una velocità “minima” del percorso di rientro. La regola, come lo stesso Documento rileva, non risulta rispettata né con riferimento al criterio backward looking né con riferimento al più permissivo criterio forward looking.

GRAFICO 19

DEF2019- RAPPORTO DEBITO/PIL E SUE DETERMINANTI:

QUADRO TENDENZIALE VS QUADRO PROGRAMMATICO

Nel quadriennio di programmazione, la riduzione del rapporto posta ad obiettivo assommerebbe a 3,3 punti di Pil, meno di quanto, secondo le regole vigenti, viene richiesto in un solo anno. I 3,3 punti di riduzione risulterebbero da spinte di segno diverso: al ribasso, per circa 6 punti e mezzo, per l’azione di consolidamento dell’avanzo primario; al rialzo, per oltre 3 punti, prevalentemente per l’operare dell’effetto di snow-ball. All’inversione di tendenza prospettata nel 2020, ovvero l’1,3 per cento di riduzione del rapporto, fornisce un contributo decisivo l’ipotizzata crescita dell’inflazione: oltre il 50 per cento degli apporti derivanti da prezzi, Pil reale e primario è dovuto alla variazione del deflatore del Pil (Grafico 20).

GRAFICO 20 CONTRIBUTI ALLA VARIAZIONE (-1,3 PUNTI) DEL RAPPORTO DEBITO/PIL PREVISTO PER IL 2019

Fonte: elaborazione Corte dei conti su dati MEF

Inoltre, il pur modesto risultato che viene prospettato per l’intero quadriennio dipende da ipotesi particolarmente favorevoli relative ai “fattori residuali”; essi scontano infatti, nella media 2019-2022 una pressione al rialzo (ulteriore rispetto a quanto esercitato dal nuovo deficit), ma di soli 2 miliardi all’anno a fronte dei 15,5 miliardi già citati del 2018 e dei circa 13 miliardi medi annui dell’ultimo decennio.

In uno scenario programmatico di più lungo periodo, che copra per esempio anche il decennio successivo (2023-32) al periodo considerato dal DEF e che si basi sulla pura proiezione dei valori attesi per il 2022 per avanzo primario (2,3 per cento), crescita nominale (2,3 per cento) e costo medio del debito (3 per cento), il rapporto continuerebbe a scendere, ma la regola del debito non sarebbe comunque rispettata. Nella ipotesi più favorevole di una crescita nominale di mezzo punto più elevata sin dal 2019, con i conseguenti risvolti in termini di più elevato avanzo primario, si avrebbe una discesa più pronunciata, ma anche in questo caso insufficiente.

GRAFICO 21

LA REGOLA DEL DEBITO IN UNO SCENARIO DI PURA PROIEZIONE

DEI RISULTATI PROGRAMMATICI DEL DEF 2019

Fonte: elaborazione Corte dei conti su dati Ministero dell’economia e delle finanze

30. In definitiva, la dinamica del rapporto debito/Pil costituisce uno degli elementi meno rassicuranti del DEF 2019. La prospettiva che nel medio termine si possa imboccare un sentiero decrescente è infatti circondata da notevoli incertezze. Occorre ricordare che i rendimenti sul debito richiesti dal mercato sono il frutto di valutazioni sul livello del rapporto debito/Pil e, soprattutto, sulla sua tendenza. Come si è visto, nel DEF di quest’anno viene profilata una tendenza esplicitamente al rialzo del rapporto debito/Pil nel 2019 con un moderato ripiegamento negli anni successivi. La valutazione della vulnerabilità rispetto a scenari avversi è importante. Così, ad esempio, se si ipotizzasse una crescita nominale di mezzo punto di Pil inferiore a quella prospettata per l’intero quadriennio (con i conseguenti risvolti in termini di minore avanzo primario) e di un rialzo permanente di 50 punti base sui tassi a lungo termine rispetto ai valori del quadro programmatico, il previsto rientro del debito sarebbe annullato.

GRAFICO 22

DEF2019- RAPPORTO DEBITO/PIL E SUE DETERMINANTI IN UNO SCENARIO PIÙ SFAVOREVOLE:

CONFRONTO CON LA BASELINE (DEF PROGRAMMATICO)

Fonte: elaborazione Corte dei conti su dati Ministero dell’economia e delle finanze

Scenari peggiori vengono prefigurati da esercizi che considerino eventuali varianti alle previste simulazioni stocastiche che il DEF 2019 è tornato a proporre (e che erano assenti nella NaDEF dello scorso settembre). Nell’estendere l’esercizio suggerito da una consolidata metodologia richiesta dalla Commissione Europea, si possono applicare shock sui tassi di interesse a breve, tassi di interesse a lungo termine e crescita nominale del Pil, simmetrici intorno ad una media che riflette condizioni di difficoltà per la nostra economia.

Un esercizio che “impone”, infatti, che gli shock abbiano la media non più uguale a zero, ma pari ad una crescita nominale inferiore di 0,50 punti percentuali allo scenario programmatico e di 0,50 punti percentuali in più sui tassi di interesse a lungo termine per i quattro anni dell’intervallo DEF evidenzia la vulnerabilità della traiettoria delineata nel DEF. Il Grafico 23 mostra infatti che in tal caso, il risultato mediano delle simulazioni per il debito/Pil si attesta intorno ad un valore di un punto percentuale superiore al valore dello scenario base nel 2019, e rimane intorno a quel valore per i tre anni successivi.

GRAFICO 23 DINAMICA DEL RAPPORTO DEBITO/PIL (PUNTI %):

SCENARIO AVVERSO (-0,50% SU CRESCITA NOMINALE E +0,50% SUL TASSO A LUNGA)

VALUTAZIONE PROBABILISTICA DI RISULTATI IN RAPPORTO ALLO SCENARIO BASE

Fonte: elaborazione Corte dei conti su dati DEF, OCSE e ISTAT

Questa variante nell’analisi di sensitività dà quindi delle indicazioni importanti, soprattutto considerata la variabilità dei risultati della simulazione: la probabilità, infatti, che i risultati futuri del rapporto debito/Pil siano uguali a, o migliori di quelli dello scenario base delineato nel DEF è circa del 37 per cento per il 2019, del 31 per cento nel 2020, del 26 per cento nel 2021 e del 22 per cento nel 2022.

APPENDICE 1-PROSPETTIVE DI LUNGO PERIODO DEL TASSO DI INTERESSE “NATURALE” E

IPOTESI DI STAGNAZIONE SECOLARE: LE IMPLICAZIONI PER LE POLITICHE DI

STABILIZZAZIONE DEI DEBITI PUBBLICI Premessa

Come sottolineato nel testo del capitolo, la dinamica del rapporto debito/Pil è fortemente condizionata, oltre che dalle scelte discrezionali sul saldo primario, dall’andamento del differenziale tra costo medio del debito pubblico (generalmente indicato con r) e tasso di crescita dell’economia (g). Il dibattito accademico internazionale sulle tendenze di fondo di tali fondamentali variabili è diventato, nell’ultima fase, particolarmente ricco, e la relazione tra r e

g è diventata il tema centrale dell’ultimo American Economic Association’s Presidential

Address11. In un tale contesto, è utile interrogarsi su quali possano essere per l’Italia, in una

prospettiva di lungo periodo - sganciata, dunque, dalle valutazioni degli attuali documenti programmatici - le tendenze di r-g. Per fare ciò è opportuno far riferimento da una parte al cosiddetto tasso di interesse “naturale”, poi allo spread, che, aggiungendosi al primo, determina r, e, dall’altra, alla crescita del Prodotto potenziale nel lungo periodo.

Negli ultimi 10 anni, caratterizzati dal succedersi della crisi finanziaria del 2007-2008 e della crisi dei debiti sovrani del 2011, le politiche monetarie estremamente accomodanti hanno ridotto fortemente i tassi di interesse, portandoli nell’intorno dello zero in termini nominali. Ciò ha favorito la ripresa ciclica e, nei Paesi maggiormente indebitati, ha ridotto l’onere per il servizio del debito pubblico. La fase delle politiche monetarie eccezionali sta però volgendo al termine, al di là del leggero “allungamento” della fase espansiva ora imposto da esigenze congiunturali. Il processo si è già avviato negli Stati Uniti, dove il ciclo economico ha raggiunto una fase avanzata di maturazione; deve ancora iniziare ma, è alle porte, nell’area dell’euro, caratterizzata ancora da livelli elevati di disoccupazione dei fattori produttivi, pur se con differenze fra i Paesi aderenti. I prossimi anni vedranno dunque una risalita dei tassi di interesse e verranno quindi progressivamente meno le eccezionali condizioni di favore per il servizio del debito. Nel caso dell’Italia, l’onere per interessi pagati dalle Amministrazioni pubbliche è destinato a crescere.

In tale contesto è cruciale però porsi il quesito di quali siano i livelli attesi per i tassi di interesse non solo nel medio termine, ma anche nel più lungo periodo. Quesito attorno al quale oramai da diversi anni si è sviluppato un vivace dibattito, sia in un ambito più strettamente teorico, sia fra i policy makers. Infatti, la presenza di tassi di interesse reali straordinariamente bassi nella maggior parte delle economie avanzate ed emergenti12 dopo la crisi finanziaria globale si inserisce in una fase di lungo declino che parte dagli anni ’90 del secolo scorso, e ciò ha stimolato il dibattito sulle cause di un tale fenomeno.

In questa Appendice si ripercorre velocemente tale dibattito (par. 1), cercando di delinearne gli elementi caratterizzanti. Nonostante esistano molte posizioni anche largamente discordanti fra loro, sembra emergere come punto fermo l’osservazione che i tassi di interesse reali si sono strutturalmente ridotti e verosimilmente, usciti dalla fase di emergenza, torneranno al più sui livelli storicamente bassi degli anni 2000 pre-crisi (par. 2). Non sembra possano ripresentarsi all’orizzonte le condizioni per prefigurare tassi reali superiori al 3 per cento, come avveniva prima del 2000. Tuttavia, “l’algebra del debito pubblico” indica che per mantenere stabile il rapporto debito/Pil la crescita dell’attività economica (Pil reale) dovrebbe collocarsi sul 3 per cento, un livello che al momento appare fuori portata per la nostra economia. Anche in un

11Prof. Olivier Blanchard “Public debt and low interest rates”, American Economic Association, Gennaio 2019, anche per una discussione di taluni problemi di misurazione, oltre che di significato economico.

12 I tassi nominali nelle economie emergenti sono sostanzialmente superiori a quelli delle economie avanzate. Tuttavia, aggiustati per l'inflazione, i rendimenti reali nei Paesi emergenti hanno seguito un percorso simile a quelli dei Paesi avanzati nel periodo 2003-2013. Si veda Rachel L. e T.D. Smith (2015) Secular drivers of the global real interest rate. Bank of England, Staff Working Paper No. 571 December 2015.

contesto favorevole dal punto di vista dei tassi di interesse di fondo, come potrà essere quello di lungo periodo, per il nostro Paese la riduzione del debito non potrà non comportare un aumento importante degli avanzi primari.

Qualche riferimento teorico

Il dibattito in questione ruota attorno al cosiddetto tasso di interesse naturale che è forse, tra i suoi affini (Pil potenziale e tasso di disoccupazione naturale), il concetto più sfuggente e delicato per le sue implicazioni di politica economica. Esso è definibile come molto sinteticamente, quel tasso di interesse reale che sarebbe prevalente se l’economia fosse in pieno impiego, ovvero quel tasso capace di mettere in equilibrio il risparmio con gli investimenti.

Il legame tra la nozione di tasso di interesse naturale e la politica monetaria può essere sinteticamente riassunto ricorrendo alla equazione di Fisher, uno schema molto semplificato ma ampiamente utilizzato in pratica proprio per la sua immediatezza, pur prestandosi a molte critiche dal punto di vista teorico. Essa consiste in una relazione matematica che indica a quale livello dovrebbe essere il tasso di interesse nominale di breve periodo fissato dall'autorità monetaria, affinché sia pari al tasso di interesse reale di equilibrio, ossia il tasso di interesse reale a cui corrisponde un livello di domanda aggregata pari all'offerta aggregata di piena occupazione (Pil potenziale).

La regola può essere così formulata:

i= + r*+a (-*) + ay(y-y*) dove:

i è il tasso di interesse nominale di policy;  è il tasso di inflazione;

 è il tasso obiettivo d’inflazione; r* è il tasso di interesse naturale; y è il tasso di crescita del Pil effettivo; y* è il tasso di crescita del Pil potenziale;

a ay sono due parametri che esprimono le preferenze della banca centrale.

Si noti che quando =* y=y* allora i =  + r*, ovvero in “equilibrio” il tasso di interesse nominale è dato dal tasso di inflazione più il tasso di interesse naturale.

Il compito ufficiale della Banca centrale, il controllo dell’inflazione, viene quindi declinato nel regolare i tassi di interesse, lo strumento che dovrebbe consentire di raggiungere l’obiettivo. Risulta dunque chiara l’importanza di definire correttamente il tasso di interesse naturale per avvicinarlo il più possibile e garantire così l’equilibrio economico. In questo contesto, la politica monetaria non può influire sulle grandezze reali (la crescita economica, l’occupazione, ecc.) nel lungo periodo, né tantomeno sul tasso di interesse naturale, ma solo sulle grandezze nominali (il tasso d’inflazione, i tassi di interesse nominali) e sulla crescita di breve periodo.

Questa estrema semplificazione muove dalla cosiddetta sintesi neoclassica

(New-Keynesian), il principale punto di riferimento della teoria economica che ha permesso

l’incontro tra le due impostazioni teoriche più distanti del tasso di interesse naturale le cui radici affondano nella scuola austriaca (in particolare con la figura di Wicksell) e nel pensiero di Keynes. La prima individua come tasso naturale di interesse il prezzo che misura il rendimento reale del capitale produttivo, da cui i rendimenti dei capitali finanziari dipendono e ne rappresentano una sorta di “prezzo ombra”. Essendo il rendimento del capitale, esso è contemporaneamente il prezzo di scambio tra consumo presente e futuro, in altri termini il rendimento per il quale si è disposti a rinunciare al consumo oggi per

risparmiare e investire in vista di un consumo futuro. A differenza di Wicksell, per Keynes la definizione del tasso di interesse naturale non avviene sui mercati, ma corrisponde al livello teorico che assicura il pieno impiego delle risorse e, contemporaneamente, garantisce l’equilibrio tra risparmio e investimento. La sintesi New-Keynesian concilia entrambi i principi. Temporanei disallineamenti del tasso di interesse reale prevalente sui mercati finanziari rispetto al tasso di interesse naturale sono visti come conseguenza dell’aggiustamento finanziario e reale che i mercati sperimentano nel rientro al valore di equilibrio. I diversi approcci che si riconoscono in tale sintesi possono differire anche in misura elevata in relazione alla capacità di autoregolazione dei mercati e alle proprietà di convergenza spontanea all’equilibrio. Per Keynes tali proprietà non sono per nulla scontate e il ruolo della politica economica è soprattutto quella di condizionare il tasso di policy al fine di alleviare disallineamenti persistenti tra tasso effettivo reale e tasso naturale, ovvero riducendo il disequilibrio tra investimenti e risparmio. All’estremo opposto, i critici di tale visione negano ogni possibilità alla politica economica di influenzare sia nel breve che nel lungo periodo il tasso reale di crescita e tasso reale di interesse.

Il problema dell’analisi economica e dei policy makers è quindi come distinguere, sempre che sia possibile farlo, i movimenti di breve periodo dei tassi di interesse da quelli di lungo periodo, che implicano una modificazione del tasso naturale. Il problema è chiaramente molto complesso e in questi anni è stato molto dibattuto sia dal punto di vista dell’analisi teorica che da quello dell’analisi empirica. Senza voler entrare in tale dibattito, nel prosieguo daremo conto dei principali risultati raggiunti, sui quali sembra esservi il maggiore consenso.

Cosa muove il tasso di interesse naturale?

Che vi sia una tendenza di lungo periodo alla riduzione dei tassi di interesse nominali è fuor di dubbio (Fig. 1 e Fig. 2), e con essi dell’inflazione. I tassi di interesse reale si sono ridotti chiaramente nell’ultimo 40ennio (dagli anni ‘80). Un altro dato di fatto è che nel lungo periodo il tasso di interesse reale si è ridotto più velocemente nei Paesi avanzati che nei Paesi emergenti; dopo la crisi del 2008 la caduta nei Paesi avanzati è stata pronunciata arrivando a toccare livelli negativi, con tassi nominali prossimi allo zero e tassi di inflazione debolmente positivi.

Ma mentre per alcuni studi nel periodo post crisi lo spostamento verso il basso dei rendimenti nominali è stato in larga parte determinato artificialmente dalle politiche monetarie espansive adottate dalle banche centrali, per altri il cambio di stance della politica monetaria non sarebbe stato sufficiente a determinare la tendenza al ribasso dei tassi reali su un così lungo periodo. Si tratta infatti di un trend che risulta comune a Paesi molto diversi – per fasi cicliche e caratteristiche strutturali – e che a fortiori sembra suggerire la presenza di forze globali in atto che influenzano la dinamica del tasso di interesse reale/naturale di ciascun Paese nel lungo periodo.

A livello interpretativo sono state avanzate due chiavi di lettura, cioè tante quante sono le direzioni causali: la prima è che la riduzione del tasso di interesse reale sia stata causata dalla riduzione del tasso di policy; la seconda è che il tasso di policy si sia ridotto in funzione del tasso di interesse reale e naturale.

Tuttavia, la chiave di interpretazione più dibattuta, e per certi versi più interessante per i suoi risvolti prospettici, è quella che vede nel cambiamento delle preferenze di investimento e risparmio a livello globale la causa ultima del declino del tasso di interesse reale di equilibrio. In tale ambito, una delle argomentazioni più accreditate si rifà all’ipotesi di stagnazione secolare13, secondo la quale la crescita tendenziale delle economie (e con essa del tasso di interesse naturale corrispondente) è diminuita a causa del rallentamento della crescita demografica e di un calo del progresso tecnologico che comportano modificazioni nelle scelte di risparmio e investimento dell’economia14. In particolare, tale ipotesi si intreccia con quella che identifica in un eccesso di risparmio (saving glut) a livello globale

13 Nel 2013, l'economista americano Lawrence Summers, Professore a Harvard e già segretario al Tesoro negli ultimi anni dell'amministrazione Clinton, descrisse lo stato delle economie occidentali, in primis quella statunitense, con l'espressione “stagnazione secolare” (secular stagnation). L'idea era mutuata da un altro economista americano, Alvin Hansen, che anni addietro l'aveva coniata per descrivere la situazione economica degli anni '30, quelli della Grande depressione.

14 Non mancano autorevoli voci contrarie a tale chiave di lettura. Tra tutte, ricordiamo la posizione del premio Nobel Stiglitz, che rovescia l’ordine di causalità dell’analisi e sottolinea come la caduta dei tassi di interesse sia conseguenza della carenza di stimolazione di domanda, data la troppo timida reazione negli USA in seguito alla crisi nel reagire con stimoli di spesa pubblica e nel non procedere alla riforma strutturale del mercato del credito troppo concentrato sulle grandi imprese. Queste osservazioni portano alla conclusione che la passività nel trattare il tasso di interesse naturale come strumento di policy hanno fornito un alibi ai seguaci dell’ipotesi della Secular Stagnation nel non perseguire politiche di stimolo tempestive e di grandi dimensioni per invertire le tendenze economiche e politiche che accompagnano la caduta del tasso di interesse naturale.

l’origine del rallentamento dei ritmi di crescita e della progressiva riduzione dei tassi di interesse reali.

Le trasformazioni demografiche sono state profonde e i loro effetti altrettanto importanti. La crescita demografica ha dato il suo massimo contributo alla crescita globale nella seconda metà del XX secolo: la combinazione di tassi di mortalità più bassi nei Paesi emergenti e del baby-boom nelle economie avanzate ha sostenuto la crescita globale15. Per i prossimi anni invece, nonostante le diverse aree mondiali siano in fasi molto diverse della transizione demografica, si prospetta un rallentamento demografico con conseguenze negative sulla crescita e sul tasso di interesse naturale.

La teoria del ciclo di vita suggerisce inoltre che cambiamenti nella struttura per età della popolazione influenzino i comportamenti di risparmio. Al ridursi della popolazione in età lavorativa, sarà minore il livello di risparmio aggregato. Più in particolare, la riduzione del tasso di crescita della popolazione agisce attraverso diversi effetti, di segno contrapposto. Da un lato, a causa di una riduzione dell’offerta di lavoro si determina un aumento del capitale per addetto con conseguente riduzione della produttività marginale del capitale e quindi del tasso di interesse reale di equilibrio16; dall’altro, a causa di un aumento dell’indice di dipendenza degli anziani (rapporto tra la popolazione con più di 65 anni di età e la popolazione in età lavorativa), si determina una riduzione del risparmio aggregato e un aumento del tasso di interesse. L’aumento della longevità d’altra parte può indurre una riduzione del tasso di interesse poiché gli individui tendono ad aumentare i loro risparmi in

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