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Un apprezzamento delle misure sulla previdenza non può prescindere da una rivisitazione degli accadimenti degli ultimi lustri, delle ragioni alla base delle riforme

P ARTE SECONDA

14. Un apprezzamento delle misure sulla previdenza non può prescindere da una rivisitazione degli accadimenti degli ultimi lustri, delle ragioni alla base delle riforme

operate, dei problemi risolti e di quelli rimasti insoluti; quindi, dei nodi ancora aperti ben evidenziati dalle più recenti stime sulle tendenze di medio e lungo termine della spesa pensionistica. Occorre dunque chiedersi quali sono le ragioni ultime dell’intervento e per comprenderne la fondatezza è necessario anche fare qualche passo indietro. È quanto si farà nei prossimi paragrafi.

Le ragioni alla base degli interventi. La legge 2014/2011: un cambiamento troppo brusco?

Le innovazioni disposte, andando a modificare requisiti d’accesso fissati dopo ripetuti interventi legislativi ed individuati anche attraverso il coinvolgimento di variegate competenze, avrebbero meritato una discussione più ampia ed una maggiore

contestualizzazione nell’ambito degli attuali problemi della finanza pubblica italiana. Un dibattito che, in effetti, è mancato. Da quanto si desume dalle relazioni introduttive al DLB 2019 e al DL n. 4 del 2019, l’idea ispiratrice di fondo è che la riforma Fornero sarebbe stata troppo brusca e avrebbe determinato l’impossibilità di un ricambio generazionale nel mondo del lavoro, ora resosi improcrastinabile. In effetti, negli ultimi anni sono stati profusi notevoli sforzi al fine di risolvere i problemi indotti dal cambiamento prodotto dalla legge n. 214 del 2011, approvata, d’altra parte, nel pieno di una violenta crisi finanziaria. Con riferimento a questo modus operandi del legislatore, la Corte ha già avuto modo di esprimere un giudizio di apprezzamento per una scelta che ha rappresentato un ragionevole punto di equilibrio tra le esigenze di flessibilizzazione del sistema e la necessità di non minare la costruita sostenibilità finanziaria di lungo termine. Se si considera il complesso degli interventi operati e più sopra ricordati e le altre deroghe concesse, si può valutare che tra il 2012 ed il 2018 quasi un quarto dei soggetti che non avrebbe potuto accedere alla pensione sulla base delle vigenti regole generali, lo ha in effetti potuto fare; nei fatti, in molti casi, dunque, il sistema ha consentito l’uscita di molti assicurati anche in situazioni in cui la somma tra età ed anzianità contributiva è stata ben inferiore a 100.

Inoltre, il legislatore è intervenuto per attutire gli effetti derivanti sia dalle innovazioni della riforma Fornero sia dal funzionamento intrinseco del sistema contributivo anche in circostanze diverse da quelle già segnalate. Basti ricordare in proposito da un lato la decisione di cui al DL n. 65 del 21/5/2015 (convertito nella legge 109 del 17/7/2015), con il quale si è evitata la riduzione dei montanti contributivi che vi sarebbe stata nel caso della piena applicazione di quanto disposto dalle norme16. Una riflessione aggiuntiva merita la natura degli effetti sui conti pubblici stimati a livello ufficiale. Se essi, infatti, ai fini della legge di bilancio, sono per definizione misurati in termini di maggiori spese immediate rispetto agli esborsi a legislazione vigente, cosa diversa e importante, su cui la relazione tecnica non fa valutazioni, è l’effetto in termini di maggiore debito pensionistico implicito (valore attuale del flusso di esborsi futuri meno gli introiti a copertura). È bene considerare al riguardo alcune delle cifre chiave che connotano al momento il bilancio della previdenza italiana. Secondo i dati dell’INPS, maggiore erogatore di trattamenti, nel 2018 sono state liquidate nel settore privato 306 mila pensioni (anticipate + vecchiaia, escludendo prepensionamenti, invalidità ed altro), di cui 41 mila in regime integralmente contributivo (contributivo puro), 49 mila in regime retributivo puro e 216 mila in regime misto; la quota di pensioni calcolate con il metodo contributivo puro sulle pensioni vigenti all’1/1/2019 è pari al 3,5 per cento, mentre è stata per l’appunto del 16,1 per cento quella relativa alle liquidate del 2018. Purtroppo, non si dispone di informazioni circa l’incidenza delle componenti retributive sulle pensioni liquidate in regime misto, ma è ragionevole ritenere che essa sia ancora importante. In un tale contesto, per un numero considerevole di pensionandi la facoltà di anticipare il pensionamento, equivale, sic et simpliciter, a creazione di nuovo debito pensionistico. In aggregato, un tale debito sarà costituito dalla sommatoria di tutti i deficit incrementali che tuttavia diventeranno via via minori (fino a scomparire) man a mano che crescerà la quota contributiva.

16 Si fa riferimento al fatto che per il 2015, a seguito della crisi, la media mobile a cinque anni della crescita nominale del Pil, di segno negativo, è stata fissata a zero e al meccanismo attraverso il quale si è parzialmente derogato, in taluni casi, alla norma generale sull’indicizzazione del requisito anagrafico alla speranza di vita.

L’INPS ha valutato che l’effetto in termini di debito pensionistico implicito potrebbe ragguagliarsi, - considerando anche misure diverse da quelle puntuali di cui al DLB - in 117 miliardi, un importo che deriverebbe dalla sommatoria di una maggiore spesa cumulata, tra il 2019 ed il 2046 (data successivamente alla quale tutte le nuove pensioni saranno erogate in regime di contributivo puro), pari a circa 400 miliardi e i successivi risparmi dovuti dai ritorni, rispetto al tendenziale, garantiti dal sistema contributivo.

Un punto di rilievo è naturalmente quello degli effetti di Quota 100 sull’andamento dell’occupazione. La decisione di offrire la possibilità di uscire dal lavoro prima di quanto disposto dalla legislazione vigente è infatti motivata dalla volontà di facilitare la crescita dell’occupazione giovanile ed aiutare, in una fase di forti trasformazioni tecnologiche connotate in particolare dalla digitalizzazione dei processi produttivi, il ricambio generazionale. Quanto alla possibile maggiore occupazione “sostitutiva” della forza lavoro che si ritira in quiescenza, non si può che ricordare che molti studi internazionali non sembrano trovare forti correlazioni tra riduzione dell’età di pensionamento e crescita dell’occupazione. Nei Paesi in cui l’età effettiva di pensionamento è più bassa non si riscontra, generalmente, un più elevato tasso di occupazione giovanile; semmai, traducendosi, la riduzione dell’età, in maggiore debito pensionistico implicito, le imprese tendono a incorporare aspettative di crescita del costo del lavoro dettate proprio dall’esigenza di riportare in equilibrio di lungo termine il sistema e dunque ridurre, ceteris paribus, la domanda di lavoro. Con riguardo all’effetto positivo della possibile occupazione “sostitutiva” sul debito pensionistico va anche considerata l’esistenza di uno scarto tra livelli retributivi dei lavoratori in prossimità di pensionamento e dei lavoratori di primo ingresso nel mercato del lavoro. Da questo punto di vista, anche nell’ipotesi che ad ogni nuovo pensionato in Quota 100 si sostituisse un nuovo assunto, considerando lo scarto retributivo e il fatto che la percentuale di contribuzione sociale complessiva è pari al 33 per cento della retribuzione lorda, la condizione perché l’operazione avvenga in un quadro di pieno equilibrio nei conti previdenziali è che ad ogni uscita corrispondano circa quattro o cinque nuove assunzioni (tre nel caso di parità di retribuzione tra chi esce e chi entra). Un elemento che ostacolerà, tra gli altri, la sostituzione è quello del possibile mismatch qualitativo dei lavoratori.

Al fine di acquisire informazioni sul tema della corrispondenza tra le caratteristiche dei soggetti che rientrano nelle platee dei potenziali beneficiari di Quota 100 e Reddito di cittadinanza, è stata condotta un’analisi basata su micro dati di fonte ISTAT ed Eurostat (Indagine sulla rilevazione delle forze di lavoro e indagine Eu-Silc). L’esercizio, che ha dovuto fare ampio utilizzo di ipotesi semplificatrici e variabili proxy per la misurazione di taluni requisiti (per esempio, quello dell’anzianità contributiva) e che fornisce pertanto solo indicazioni di larga massima, ha messo in evidenza ampie disomogeneità tra le figure candidate all’uscita dal mercato del lavoro (tramite Quota 100) e all’entrata in esso (tramite il Reddito di cittadinanza). La platea di Quota 100 presenta quote rilevanti di maschi. La distribuzione sulla base dei titoli di studio evidenzia una elevata percentuale di laureati, coerente con un’elevata incidenza di dipendenti pubblici operanti in settori quali sanità e istruzione (la disaggregazione per gruppo di laurea evidenzia infatti un elevato peso dei laureati in discipline letterarie e in medicina). Di contro, la platea del Reddito di cittadinanza evidenzia quote maggioritarie di donne e, in generale, di soggetti scarsamente istruiti (il 62 per cento ha licenza elementare o al massimo licenza di scuola media), e senza esperienze lavorative (oltre il 61 per cento degli elegibili dichiara di non aver mai lavorato). L’inesistente o scarsa esperienza lavorativa, unita alla bassa istruzione, rappresentano un grosso problema per l’occupabilità di queste persone una volta attivate ed entrate nelle forze lavoro, con il rischio che si trasformino in disoccupati di lunga durata. Per chi invece ha esperienze lavorative precedenti, si rileva come i settori siano prevalentemente di bassa specializzazione. I risultati dell’esame hanno in sostanza evidenziato come i due interventi disposti potrebbero avere un effetto non trascurabile sulla composizione della forza lavoro e se non adeguatamente gestiti potrebbero dar luogo a fenomeni di mismatch, sia in termini

settoriali che di competenze. In particolare, più che la fuoriuscita di occupati per effetto del pensionamento anticipato, l’ingresso di persone attualmente al di fuori del mercato del lavoro, spesso ai suoi margini, come effetto collaterale dell’attuazione del reddito di cittadinanza richiede attenzione. Se l’attivazione di persone inattive è in sé fenomeno positivo, occorre evitare le potenziali connesse problematiche: solo ingenti sforzi di formazione e concreto rafforzamento dell’employability possono evitare che la stessa resti per lo più formale, limitata all’iscrizione al Centro per l’Impiego locale per poter beneficiare del previsto beneficio, trasformando semmai gli inattivi in disoccupati permanenti.

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