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Piparétta..., così era chiamato quest’uo-mo. Forse perché da ragazzino soffriva di frequenti raffred dori e spesso aveva il moccolo al naso, butta là il nostro Umberto Mezzetti, che del personaggio ha collezionato una piccola aneddotica.

Era di statura media, alquanto asciutto.

Aveva folti capelli brizzolati, ma ciò che lo rendeva inconfondibile era una vistosa frizza bianca subito sopra la fronte. Nell’immagine qui riprodotta,

“in alta uniforme”, l’uomo appare so-lenne e quasi ispirato, ma, come la maggior parte della gente di quegli anni, Piparétta non aveva studi né cul-tura, perciò il suo comportamento era quel lo dettato dalla natura, che negli

anni lo aveva modellato con un’espressione arcigna e un carattere scorbutico e schivo; più l’uno che l’altro. Era sposato con una certa Marianna ma non aveva figli. La Marianna non era molto alta. Diciamo anzi che era decisamente traccagnotta, grassa e piuttosto rotonda. Tanto che lei stessa, parlan do di sé con la gente, se ne usciva spesso col dire: “Madonna quanto so’ grossa!

Pargo ‘n cannone!”.

Lui era un semplice uomo di campagna. Quando capitava, andava a giornata, e tirava avanti quel suo fazzoletto di terra, ma non aveva né mulo né cavallo né somaro. Viag giava a piedi, con le provviste della giornata dentro le sac chette, che lui portava a tracolla, con la Marianna che lo seguiva quasi giornalmente. Era schifìno e schizzinoso. Per questo quando arrivava l’ora di pranzo e gli uomini si dava no voce all’ombra di un albero per un boccone in compa gnia, lui si teneva sempre un po’ in disparte per non vede re qualche intruglio o sentire qualche odore a lui sgradito. Ciò che non bastava a metterlo al riparo da certe disguste voli sorprese, con gran di-vertimento dei presenti. Di tempo di fieno, che allora veniva lavorato a mano da molte persone munite di forcone a due o tre corna, Pipa rétta era spesso del gruppo, in cui di solito si trovavano anche adolescenti vogliosi di giocare e divertirsi. E sicco me di meglio non c’era, spesso e volentieri si sfo-gavano con lui. Sapendo della sua avversione per certi odori sgra devoli, a

Piparétta

(Giuseppe Lucattini, Piansano 1905­1969)

turno usavano il forcone a mo’ di asta ed e seguivano un salto a bandiera li-berando dei venti puzzo lenti quasi sulla faccia di Piparétta! Figuratevi questo! Diventava un ossesso e rincorreva quei ragazzi con insulti e minacce.

Anche se tutto finiva lì, naturalmente.

Era innocuo e a suo modo sensibile, curiosamente delica to, sotto quella sua scorza. Così, a quel cane randagio che gli si accostò scodinzolando mentre stava sbocconcellan do un tozzo di pane seduto sullo scalino di casa un ani -male senza padrone che tutti avrebbero scacciato con un pussa via! - lui col coltello affettò una crosta e gliela lasciò cadere per terra per fargliela addentare. Ma una crostici na fina come un’ostia, un po’ di briciole, perché più che affettarlo, quel tozzo di pane lo raschiò. Dopodiché fece al cane, che continuava a fissarlo aspettando: “Via, va’ a bbeva, ché mo’ hae magnato!”.

C’è chi ricorda una sua esclamazione ricorrente: “Para diso e gloria!”, che lui ripeteva come una giaculatoria a ogni lamentazione del suo occasionale in-terlocutore. Chessò, assisteva a una partita a carte e uno dei giocato ri non si dava pace per l’esito sfortunato del gioco? “Para diso e gloria!”, faceva lui.

O, in altra circostanza, il vicino di campo se la prendeva con la stagione, che sembrava non voler ubbidire alle necessità del suo infidèo? “Paradi so e gloria!”. Che cosa intendesse di preciso nessuno ce lo sa dire. Un richiamo alle cose celesti per sorvolare sulle piccinerie terrene? Un’esortazione filosofica tipo ‘che vuoi farci’? O una chiusa come per dire ‘è andata così’,

‘morto un papa se ne fa un altro’ e simili?

Faceva parte della confraternita del SS. Sacramento, allora presente in paese in folta schiera. Quelli con la tunica bian ca fino a terra e la mantellina rossa con lo stemma sul petto. Lui era addetto a dare compattezza ai ranghi, in quelle lunghe processioni. Gli era stata assegnata una mazza bianco-azzurra e con quella in mano viaggiava a pie’ veloce avanti e indietro richiamando all’ordine e alla com postezza. Ritto, severo, solerte. Pareva un centurione. Proprio per tale mansione si è guadagnato fama imperitura, dato che ancor oggi tutti in paese ripetono il suo rimprove ro rimasto pro-verbiale, allorché, con fiero cipiglio, raggiun se le file davanti che senza av-vedersene avevano staccato di diverse decine di metri il resto del corteo:

“Ma ve volete ferma’ sì o no!?... ‘Nn’e vedete che la Madonna è giù all’infer -no?!”. E l’immagine di questa “Madonna giù all’inferno” entrò dritta nella Storia insieme con il suo autore.

Il nostro Piparétta, dunque, secondo una cronaca alquan to sfocata e perciò confusa, prima di sposarsi con la Ma rianna era stato fidanzato. Con chi e

per quanto tempo non è dato sapere, ché stiamo parlando di un’era mitolo -gica. Non è escluso che si trattasse della Marianna stessa. Fatto sta che lui aveva regalato un anello alla futura spo sa, che però si era fatto restituire quan-do, con il passare del tem-po, il rapporto si era gua-stato ed era svanita la pro-spettiva del matrimonio.

Passò ancora del tempo, e per quanto possa sembrare strano, il caso volle che il nostro Piparétta si fidanzasse una seconda volta. Con chi e per quanto tempo non è da to sapere neanche stavolta, ché stiamo parlando della stessa era mitologica. Così come non è escluso che si trat tasse sempre della Marianna. Ma quando si fu al dunque di regalare l’anello alla nuova fi-danzata, Piparétta fu colto da un dubbio amletico: spendere altri soldi per un nuovo anello, quando c’era disponibile quello vecchio? Ma, d’al tra parte, questo non sarebbe stato di cattivo gusto e pre sagio, dato che rap-presentava l’ingloriosa fine di una sto ria, anziché presentarsi come pegno di amore eterno?

Non chiedeteci come andò a finire, perché delle ere mitologiche, com’è noto, nessuno sa indicare i contorni precisi. Ciò che dimostra anche come la tradizione orale spesso non si curi di definire i particolari preferendo cogliere il succo delle vicende. Più o meno arbitrariamente. In questo caso s’è fissata al momento del dubbio, accanendosi, anche un po’ canagliescamente, sul popolare personaggio e traendone un termine di paragone che però, bisogna riconoscere, risulta originalissimo e perfettamente calzante. Così, di fronte a qualsiasi alternativa cieca, qualsiasi dilemma insolubile da qualunque punto lo si guardi, capita di sentir rievocare il simpatico Piparétta alle prese con l’anello “spromesso”, tolto e non più utilizzabile: “...È come l’anello de Piparétta: ‘n se pò nné cava’ nné metta!”.

da la Loggetta n. 91/2012

Nèno

La prima cosa a sorprendermi, lo con-fesso, è il nome d’arte che vedo stampato sulla locandina. Insieme alle varie Mery, Giade, Santhy, o anche Tony, trovo scritto Neno, che mi appare subito in-solito proprio per l’eccessiva familiarità.

Da noi Nèno sta per Nazareno, come Pèppe per Giuseppe, Méco per Do menico o Chécco per Francesco. Al femminile può anche essere contra zione di Mad-dalena, al punto che in passato ha de-terminato più di un equivoco rognoso, ma, appunto, è acqua passata. Nèno è

deformazione popolare, a volte circoscritta all’am bito familiare ma più spesso consolidata nell’uso comune dell’intero paese (anche nelle forme vezzeggiati ve di Nenuccio e Nenétto). Inizialmen te innocua e anzi affettuosa, in tempi di mutata sensibilità quali quelli di oggi viene però progressivamente avvertita, diciamo così, poco rispet tosa, se non proprio offensiva, una libertà che uno si prende quasi come per ridimensionare il portatore. Sarà che ci ricorda tutti i Nèno e i Méco del nostro passato di miseria, ma, in

somma, un genitore di oggi ci terreb -be a non veder deformato in tal modo il nome del figlio. Di ciamo anzi che tale nome (dal Gesù Na -zareno di consolidata tradizione cri-stiana, è appena il caso di ricor dare, e quindi indicante l’origine da Naza-reth) non viene più imposto da de-cenni, e se proprio non si può fare a meno di “rinnovar lo” per compiacere qualche avo omonimo, si studiano tutte per “addomesticarlo” in forme sentite come più moderne o trend, come Reno, per esempio, o magari anche Nuccio, da Nenuccio (Nazy sembra l’anticipo di naziskin e di questi tempi potrebbe risultare compromet tente). E invece il nostro

giovane artista ne va fiero, perché Nèno è corto, ami chevole, e perché no?, è il nome del nonno paterno. Sarà anche che Nazareno junior è nato e cresciuto in ambiente romano e tutte le cose da noi rivangate neanche le so-spetta, ma sentirgli dire che oltre alla grade volezza estetica e all’efficacia comu nicativa, nella scelta del nome d’arte ha pesato anche il ricordo affettuoso del nonno, ci è inaspettatamente di conforto. E anche di qualche insegna mento. Per i significati nuovi che la stessa cosa può assumere fuori da pregiudizi o se vista da altre angolazioni.

Bando alle ciance, Na zareno Ciofo è il venti duenne secondogenito di Vincenzo, che a sua volta era appena se dicenne quando a metà degli anni

‘60 lasciò Piansano per “cercar fortuna” a Roma. Era il primo di sette figli e na turalmente in casa c’era poco da scialac quare. Da qualche tem po suo zio Lorenzo si era riciclato cameriere in un ristorante nei pressi del Vaticano e così trovò un posto an che a lui. Vincenzo abbassò la testa e tirò la carretta come da abi tudine di famiglia, facendo da apripi sta ai fratelli che poi lasciarono tutti il paese meno Nara e Mariella. Anni di lavoro senza tregua, ma anche di sod disfazioni. Da cameriere a cuoco, Vin cenzo entra pian piano nei segreti del mestiere; si fa benvolere dalla cliente la, tanto da attirare la simpatia perso nale di alti prelati frequentatori del suo locale (in seguito porterà più volte a Piansano un importante cardi nale canadese);

dopo il servizio mili tare prende la licenza e finalmente apre un esercizio proprio. Nel frattempo conosce Rosina Cra pisto, calabrese di Cirò anche lei a Roma per lavoro. E’ cuoca in un ri storante vicino e le prime volte si in-contrano casualmente all’ora di chiusura. Nel ‘76 si sposano, hanno il pri-mogenito David e vengono ad abi tare a Piansano. Ma il locale in città non si può mandare avanti da pendo lari, sicché qualche anno dopo torna no a Roma e vi si stabiliscono. Fino a una decina di anni fa, quando lasciano la metropoli sempre più invivibile per trasferirsi con l’attività a Calvi dell’Umbria, appartata quanto basta pur essendo raggiungibilissima dall’auto strada Orte-Roma all’uscita per Ma gliano Sabino. Gestiscono un ristoran te-pizzeria adatto anche per ma trimoni e cerimonie di ogni tipo. Vi è impegnata tutta la famiglia, con la moglie chef di cucina e David diretto re di sala, un pizzettaio fisso e altri tre o quattro dipendenti. Insomma, un esercizio in ottima salute e con un buon giro di attività.

Nazareno fa anche lui la sua parte, almeno quando è libero da studi musicali e impegni artistici piuttosto pressanti. Studia musica da sei anni.

Ha superato il quinto anno di piano forte e vuole concludere almeno con l’ottavo, dopodiché - con qualche insegnante che lo incoraggia e qual cun

altro che lo frena - partecipa al festival di Castrocaro, a serate, tra smissioni televisive, perfino a un musical tutto particolare al teatro S. Cecilia di Roma.

“Quello dello spettacolo è un mondo strano, difficile...”, confida lo stesso Na-zareno, ed è bello vedere questa faccia pulita di ragazzo che sicura mente ha talento ma rimane coi piedi per terra. L’abbiamo incontrato a Piansano una di queste sere estive, nel “pied-à-terre” dello zio Ottavio di Via Valleforma.

C’era tutta la famiglia di Vincenzo in una delle sue visite non proprio fre-quentissime. La loro venu ta mi era stata annunciata proprio da Ottavio, che mi aveva portato in visio ne un CD con le incisioni di Nèno pre sentandomelo in modo entusiasta. Ci sono una decina di titoli che nella mia ignoranza non conosco, ma che sicu ramente ho orecchiato dai big della musica leggera: a parte i gruppi stori ci tipo Nomadi, Pooh, Camaleonti..., ci sono successi di Antonello Venditti, Renato Zero, Francesco Renga, Eros Ramazzotti, Riccardo Fo... Il brano 16 anni, per esempio, dà il titolo all’intera raccolta, ma poi vedo Io vagabondo, L’alfabeto degli amanti, Io voglio vive re, Terra promessa..., e per quanto non sia assolutamente competente in materia, mi sembra un’antologia di notevole livello e buon gusto, nell’am bito delle tra-smissioni canore d’intrat tenimento. La voce calda di Nazareno mi pare ben impostata, di buona estensione e modulazione; la sua interpretazione senza affettazioni decisamente accattivante. Insomma devo ricredermi, perché mi sarei aspettato un adolescente velleitario abbagliato dalle luci della ribalta, e invece scopro un ragazzo serio, prepa rato, motivato e al tempo stesso

La famiglia Ciofo al completo: (da sinistra) David con la fidanzata, Nazareno e i genitori

disil luso quanto basta per tentare una car riera artistica nello strano mondo dello spettacolo. Se il successo verrà, ne saremo tutti contenti; sennò, sarà stata comunque un’esperienza giova nile entusiasmante e un’abilità espres siva di sicura soddisfazione personale nel tempo. E’ l’impressione che ho riascoltando le sue incisioni, sia pure accompa gnate da una base musicale piut-tosto essenziale. E Nazareno me ne dà un’altra dimostrazione proprio quan do siamo sul punto di salutarci, per ché lo

zio Ottavio smania da un pezzo e con la sua attrezzatura stereo ci presenta finalmente i suoi cavalli di battaglia, i successi anni ‘60 di Albano e Gianni Morandi. Nazareno lo asseconda divertito, lo guida anzi con discrezione in qualche attacco affrettato, insieme si alternano in sim patici duetti ed è bello vederli così spontanei, zio e nipote, in questo show improvvisato per i quattro familiari e amici presenti, tanto che Ottavio, sentendosi incoraggiato, alla fine s’infervora in crescendo travol genti...

Non posso fare a meno, nella mia inguaribile deformazione “storica”, di pensare a Nazareno e a suo padre che mi siede vicino, coetaneo che non vedevo più da quel dì e ora è sul punto di lasciare l’attività ai figli, nonostante sia ancora attivo e “di riferimento”. Quanta differenza, da una generazio ne all’altra! Non parliamo tra nonno e nipote omo-nimi! E nel leopardiano

“dolce naufragar” tra si-mili pensieri, mi accorgo di quanto sia passato il tempo anche per me, che divago per dendomi in chiacchiere, e trascuro questo ragazzo promet-tente, sempli ce, che sa suscitare emozioni.

da la Loggetta n. 67/2007