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Sono Francesco Ciofo (classe 1913) e Rosilda Ercolani (1915), che vediamo di frequente passeggiare come una cop-pietta di innamorati, con Checco che offre signorilmente il braccio alla sua Ro-silda. Conversano tra di loro e rispon-dono ai passanti, che non possono fare a meno di rallegrarsi e complimentarsi per quel quadretto inusuale. Sposatisi ses-sant’anni fa, hanno condotto insieme una vita semplice di lavoro e di affetti, met-tendo insieme quanto bastasse per vivere decorosamente e tirare avanti dignitosa-mente la famiglia. “T’aricorde, Rosi’, quann’èremo sempre sopra a la tavola del carretto?”, le dice qualche anziana che, come lei, aiutava sempre il marito in campagna. Ora si godono un tramonto

Chécco e la Rosilda di ritorno dall’infidèo (diversi anni fa). Quelli loro furono l’ultimo carretto e l’ul­

tima bestia da tiro (la somàra) a circolare nelle nostre campagne (da la Loggetta n. 44/2003)

dorato con l’affetto delle figlie Maria e Giovanna e delle loro famiglie. Maria, del ‘37, ha sposato Renato Bronzetti e ha avuto Angelo (1959) e Gianfranco (1966), che a loro volta si sono sposati e in due hanno già tre figli (l’ultimo in assoluto è Daniele di Franco, nato proprio questo mese). Giovanna, del

‘48, ha sposato Alberto Capradossi di Arlena, autista del presidente del-l’Agip, e vive a Roma, dove ha avuto Stefano (1969), che a sua volta lavora all’ltalgas di Roma, Adelmo (1971), impiegato alla Snam di Viterbo, e Fran-cesca (1975), bellissima ragazza esperta di computer, che certamente per l’al-tezza ha preso dal padre. “Così di mese in mese e d’anno in anno, - come scrive Giusti ne “L’amor pacifico” - amandosi e vivendo lemme lemme, / è certo, cara mia, che camperanno / a dieci doppi di Matusalemme”. E’ l’augurio di tutti, che crediamo di interpretare e che rivolgiamo alla nostra coppietta con vera simpatia.

da la Loggetta n. 8/1997

“E non ti dispiacciano i detti dei vecchi...

...perché non sono senza perché”

Devo averla letta da qualche parte. Magari è una citazione famosa e mi vergogno pure a confessare di non ricordarne la fonte. Tant’è che mi riaffiora da qualche strano recesso della memoria e a essere sincero non sono per nulla smanioso di appurare.

Spesso, in ogni modo, in questo continuo riandare alle nostre memorie

“patrie”, mi tornano in mente “i miei vecchi”. Tutti, più o meno, ne abbiamo alcuni verso cui sentirci debitori. Non solo di famiglia o di abituale frequentazione, ma semplicemente anziani del paese testimoni del loro tempo, protagonisti a volte della microstoria locale, depositari d’eccezione di antiche saggezze. Alcuni “miei” vecchi per esempio sono stati Giovanni Mattei, Giggétto De Simoni, Alfredo de Piccione, Gioacchino de Codone, Antonio Eusepi,... ma so di far torto a parecchi altri, variamente incrociati nel tratto di strada insieme, di cui inconsciamente mi porto dentro qualcosa. Ore passate ad ascoltarli, a “provocarli”, ad aiutarli a volte nelle loro ricostruzioni, per riceverne in premio un senso della storia impressionante.

Attraverso i loro ricordi più lontani - e per questo più nitidi - e la tradizione orale tramandatagli dai loro avi, si può risalire indietro di secoli, con una concatenazione “fisica” che te ne fa sentire parte e frutto. E aldilà del fascino del racconto vivo, ascoltarli con intelligenza aiuta a capire l’oggi e a individuarne il senso. C’è una forza, nel cammino di ogni popolo, che te ne fa vedere gli errori e le grandezze, come le tortuosità o il fluire possente di un fiume; ti dice quali scorie abbandonare - con rispetto, ma senza rimpianti - e su quali punti di forza far leva; ti rassicura, infine, che qualsiasi domani ci aspetti, perché sia degno dell’uomo non potrà essere appunto che nel segno di un nuovo umanesimo. La storia è garanzia di ma-turità e di equilibrio, di coscienza della propria condizione e serenità nel-l’affrontare i mutamenti dei rapporti di forza...

Ma a questo oggi sembra non credere più nessuno ed è meglio lasciar perdere. Li ricordo spesso, alcuni nostri vecchi: con il rammarico, per quelli scomparsi, di non averli “sfruttati” a sufficienza; con l’angoscia, per quelli tuttora viventi, di “non fare in tempo” a farlo come si deve; con il timore, per tutti, di non riuscire a cogliere e rendere appieno il senso della loro esperienza storica...

da la Loggetta n. 33/2001

Piansano, località sant’Antonio, 1974-75, bevuta collettiva di anziani a cazzòla sotto ai due pini nei pressi della bottega di Venturino. Sono presenti Giuseppe Bordo (‘l professore), Giuseppe Severi, Filippo Ciofo (Pippo de Cignalino), Girolamo Egidi, Augusto Parri, Luigi Burlini, Lorenzo Di Virginio (Pistolone), Rodolfo Costa (Capobianco), Giuseppe Brizi (Pèppe del pòro Impero), Antonio Sensoni (Marianèlla), Mario Brizi (Marafèo).

Operante sul posto come facocchio dal 1948, Venturino si piazzò nella sua falegnameria definitiva nel 1951 e vi è rimasto per oltre 40 anni fino ai primi anni ‘90. I due pini li piantò lui, e il luogo, arredato rusticamente di tavolo e panche, sulla via del ritorno dai campi, è stato sempre un piacevole ritrovo per anziani, che magari nelle vicinanze avevano orti e gallinai. Ma anche presso le altre botteghe artigiane (solo di falegnamerie se ne contavano quattro, fino a ieri) si formavano facilmente circoli di persone in amichevole compagnia, che s’ingrossavano sensibilmente nelle brutte giornate in cui non si poteva lavorare in campagna. E’ anche questo un aspetto dei tempi cambiati, e nell’attrazione degli anziani verso le botteghe artigiane, indub-biamente c’era anche il desiderio di “contatto” con il proprio passato di lavoro, in una sorta di prolungamento della propria utilità sociale oltre la soglia della validità fisica. Ovviamente non c’erano

centri anziani e gite e feste e balli, ma non era meno apprezzabile (anzi) la “dignità rustica” di questi uo-mini d’esperienza in un contesto sociale in cui pote-vano ancora riconoscersi. Il defunto Mariano del pòro Pompilio (Egidi, 1911-1987, marito dell’Atti-glietta), uno dei frequentatori assidui di Venturino di cui alla foto a lato, nel 1984 scrisse alcuni semplici versi, giuntici parzialmente, nei quali si allude ine-vitabilmente al secondo lavoro del falegname ospi-tante, quello di becchino:

Il Pino ( .... )

Sotto l’ombra c’è sempre un tavolino circondato da uomini opulenti che per giocar si danno a Venturino anima e corpo perché sia clemente.

Il corpo vecchio non vale più tanto:

dell’animale si cerca la pelle,

mentre noi la marcìmo al camposanto Questo è il destino delle cose belle!

Amici, vi saluto, vado via, ci rivedremo su coll’altre stelle.

da la Loggetta n. 17/1999 Venturino Ceccolini (1934­2017)