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Quando me l’hanno raccontata non volevo crederci. E non per l’impresa in sé, che, per quanto notevole, non era né infrequente né del tutto assurda, quanto piuttosto per il protagonista, Lodelélla, appunto, uomo mite e ap-partato quant’altri mai.

Oggi Mecuccio è un elemento della piazzetta del Comune, una presenza umana silenziosa e immanente; specie da quando l’ictus di qualche anno fa ve l’ha costretto col bastone riducendogli le già rare sortite oltre la torre. In piedi da una parte, seguendo il sole negli spostamenti della giornata, o più spesso seduto sulle panchine sotto alla loggetta Compagnoni (ma, se pioviggina, anche riparato sotto alla loggia del Comune), Mecuccio è lì, da solo o in compagnia, col suo bastone e la sua sigaretta, che vi saluta sempre con la voce e con la mano. Figura discreta, rispettosa... un po’ irreale, senza tempo; dal tono di

voce dimesso ma non smorto, lo sguardo asciutto ma non spento; schivo e socievole insieme. Non so neppure perché gli dicano Lodelélla, che è vez-zeggiativo di allodola. Certamente non in relazione al canto o alla leggiadria dell’uccello; semmai alla sua minutezza, la sua innocuità. E lieve come quella di un’allodola è la sua orma nella vita del paese.

Ha moglie e due figlie, Mecuccio. La più grande si è trasferita anni fa a seguito del matrimonio; l’altra è in casa con la madre, e dal vicoletto della Volpe, dove abitano, risalgono di quando in quando per affacciarsi in piazza per la spesa o spingersi per faccende nella parte alta del paese, magari accompagnati alla zi’ Angela. Quegli spazi noti e contenuti, così come le piccole necessità quotidiane e gli scenari ripetitivi, sono tutto il loro cosmo, e a rifletterci, è ogni volta ovvio e sorprendente quanto poco basti a un’esistenza serena. E, più in generale, quanta sapienza del cuore ci sia spesso nella semplicità di tante persone umili che conosciamo senza co-noscerle.

Ma non divaghiamo, sennò perdiamo il filo. E dimentichiamo che Mecuccio non è stato sempre così. Nel senso che anche lui ha avuto i suoi vent’anni, e, prima ancora, i suoi sedici/diciotto, quando si è ragazzi azzardosi com’è giusto che sia. Come tutti quelli della sua età, lui era sempre dietro ai lavori della campagna con suo padre, ma tra ragazzi era inevitabile il mito della forza, della vigoria fisica, specie nella nostra società arcaica di oltre mezzo secolo fa: un po’ perché vi si era costretti dai pesanti lavori della terra, e un po’ perché la forza fisica era l’unica arma in dotazione a ogni essere umano per difendersi dalla potenza del Creato. E per quanto con la scuola e l’istruzione non ci fosse molta confidenza, tutti sapevano per millenaria ininterrotta tradizione che gli eroi dell’umanità, da Ercole in poi, erano stati tutti necessariamente dei forzuti eccezionali. Gli uomini forti del paese erano indicati a nome e circondati di considerazione, e le loro imprese facil-mente entravano nella piccola mitologia del luogo. Sicché emulazioni e prove di abilità erano frequenti, così come bravate o tentativi meno appariscenti di misurarsi continuamente con se stessi. Mecuccio per esempio non era esibizionista, ma non c’era occasione che non gli servisse per saggiare le sue forze. Era robusto senza darlo a vedere, e una volta che lungo il fosso delle Streghe gli fece mòla il carretto carico della coltrina e di due o tre quintali di grano, dagli e dagli riuscì a rialzarlo e a rimetterlo in posizione di marcia.

Un giorno dunque si ritrovarono due o tre amici verso l’ammasso di Angelino Buzzecòtto. Avete presente?..., quello in fondo alla strada romana, a spigolo con via Valleforma? Era ed è l’unico, fateci caso, ad avere quella specie di sportellone levatoio di ferro. La cosa mi è sempre curiosamente rimasta impressa. Le rimesse per il fieno, sopra alle stalle, avevano tutte un’unica finestra sul davanti, lasciata tranquillamente aperta o chiusa alla meglio da un’anta di legno ribaltabile, che a volte si calava dall’alto a formare un piano di appoggio sporgente. All’epoca dell’immagazzinamento, bastava fermarvisi di fianco col carro carico e praticamente vi si poteva caricare o scaricare lavorando quasi in piano. Solo in certe occasioni si ricorreva alla girella, appesa a un palo sporgente, per issare o calare a terra qualcosa con la fune. Beh, Buzzecòtto era l’unico ad avere quella sorta di ponticello levatoio in ferro. Tutto qui. Un attrezzo rugginoso del tutto ordinario, tuttora sul posto, che forse per il fatto di proteggere anche altre derrate, oltre al fieno, o semplicemente perché più visibile dalla strada, vai a capire perché, alla fine te lo ritrovi tra quei depositi della memoria che senza volere ci portiamo dietro.

...Basta. Mecuccio, Luciano e Piciòlo si trovarono dunque all’ammasso di Buzzecòtto e scommisero che Mecuccio avrebbe portato un quintale sulle

spalle da lì fino alla torre dell’orologio. Una bella fatica, perché saranno quattro/cinquecento metri di salita ripida e accidentata, all’epoca anche con le Scalette, senza un benché minimo tratto in piano per spezzare il fiato. Non era poi così facile, tant’è vero che Piciòlo, che tempo prima aveva scommesso lui di portare un quintale dal solito ammasso fino al bivio per Capodimonte - ossia in un tratto tutto in piano e anzi in leggera pendenza - arrivato alla fonte del Giglio aveva dovuto buttare a terra il carico perché sfiancato dal peso. Qui si sarebbe visto dunque tutto il valore di Lodelélla, e la posta in gioco di ben quattromilalire stava a confermare l’eccezionalità della prova.

Non ci fu bisogno di particolari formalità o giurie. Pesarono un quintale di favetta, gliela caricarono sulle spalle e il ragazzo partì. Passo passo, si fece in silenzio tutte le Scalette, sostò un attimo su in cima per assestarsi il carico e non si fermò più fino alla bottega di Pèppe Sciupa. Era il traguardo fissato. Mantenne il quintale sulle spalle e fece agli amici: “Se ci mettiamo sopra altri soldi, lo porto fino al mulino...” (che era il molino della sòra Pèppa, dove oggi è il minimarket Lucci). “No no... - gli fecero in coro gli altri due - Basta così!”.

da la Loggetta n. 64/2006 Il vecchio “ammasso de Buzzecòtto” (foto Mecorio)

Ti presento l’amico Venturino...

Sfidiamo i non piansanesi a ca-pire quale dei due è “l’amico Venturino” e quale il suo “pre-sentatore”. Eppure è facile, per-ché chi presenta di solito è il tramite tra il presentato e l’in-terlocutore, conosce entrambi e sa di potersi permettere certe avances. Se poi, come in questo caso, l’“amico” in questione svolge la particolarissima pro-fessione di cassamortaro, è evi-dente anche la scaramantica in-tenzione di “scaricarlo” ad altri, quindi ammicca sapendo che...

“dire amico è un grosso azzardo”.

Avete indovinato, è il nostro Pèppe Melaragni. Che non è neppure “nostro” ma una cate-goria dello spirito, un modo di porsi, di guardare alle cose tra il serio e il faceto, o meglio, di presentarle con lucidità ma con

il disincanto del relativista: un’arguzia bertoldesca e sorniona che prima ti irretisce nella sua narrazione e poi ti coinvolge nella risata finale.

Intelligenza fine e innato senso dell’umorismo travasate nelle sue ottave, il metro ritmico per eccellenza che lo ha accompagnato per tutta la vita, rac-contando, insieme con la sua, la storia del paese. Fatti e persone filtrati da una verve unica, che si traduce in versi che spiccano per la vivezza del parlato pur nella sapiente architettura sintattica. Un’ottava, due quartine di endecasillabi sono sufficienti a rendere il suo colpo d’occhio, coniugando capacità di sintesi ed efficacia comunicativa.

Del resto lo conosciamo tutti fin da quando nel nostro giornale pubblicavamo

“Le rime di Pèppe”, poi confluite in gran parte nel libro “Io la vedo così” da lui pubblicato nel 1997: il suo punto di vista, per l’appunto, come se dal balconcino di casa davanti al quale l’abbiamo fotografato fosse stato prota-gonista/spettatore della microstoria individuale e collettiva. Una raccolta nella quale non mancano “pennellate molto delicate di misurato lirismo -

scrivemmo presentandola ai lettori - ma per la maggior parte dei casi si tratta di aforismi, ossia sentenze, massime spontanee, semplici considerazioni filosofiche che, con un linguaggio immediato, popolaresco anche se non apertamente dialettale, nell’insieme ne fanno una summa arguta e simpatica di vita paesana”.

Oggi Pèppe ha superato gli ottantasei anni e si appoggia al bastone nei suoi brevi tragitti tra la casa e il centro anziani, l’orto e le comunelle delle panchine. Gli sono spesso “compagni di viaggio” Spartaco o Piripìcchia, an-ch’essi, a modo loro, “personaggi”, e a chi gli chiede ragione di queste

“coppie fisse” lui spiega che... “Ho fatto domanda d’accompagno... e m’hanno dato que’!”, indicandoli con il bastone. Non ci meraviglia dunque che abbia rivolto la sua attenzione anche a Venturino, antico facocchio, poi falegname e cassamortaro. Il quale, nonostante l’apparenza, è in pensione da quando la sua attività fu rilevata da Bruno e Leonardo Franceschini, ossia dal gennaio del 1998. Ma, vuoi perché all’occorrenza ancora si presta a collaborare con i suoi successori; vuoi, forse, per la tipicità della sua figura, che sembra aggirarsi tra le comunelle di anziani come eternamente in cerca di “clienti”, con quella sua andatura lenta, l’espressione del volto più spesso seriosa, il nome inconfondibile che richiama la sorte, il destino (come fino a poco tempo fa l’indimenticabile Archidòro, rimasto sinonimo di camposanto anche dopo essere andato in pensione da custode del cimitero), insomma Venturino è tuttora nell’immaginario collettivo come il

“traghettatore nell’aldilà”, poco meno della morte con la falce dei catafalchi delle nostre infanzie. E tutti farebbero volentieri a meno di vederselo intorno, come a roteare senza fretta in attesa della capitolazione. Tanto che lo stesso Pèppe l’ha invitato più volte a... “vede de fa’ quel servizio per te,...

che ‘n te costa niente!”. Un ruolo sul quale ama giocare lo stesso Venturino, che asseconda divertito la nomea. Ed è così che, non potendo evitarne la compagnia, il nostro poeta ne ha esorcizzato l’implicito presagio di requie-meterna fissando lui gli appuntamenti decisivi. Ecco come:

Al cassamortaro Venturino Ti presento l’amico Venturino

(anche se dire amico è un grosso azzardo), perché per gran disgrazia o per destino ti gira intorno senza alcun riguardo.

Con lui non puoi giocare a nascondino;

ti scopre sempre, tu sei il suo traguardo.

Però sa bene che, tra noi, il buon Dio ha già deciso: prima lui poi io.

E a questo punto, già che c’era, un pensierino anche alle spese per l’ultimo...

“imballaggio”. Con un accenno ai disegni imperscrutabili del Patretèrno e agli eterni dubbi sull’aldilà (con la libera aggiunta di due versi a ciascuna ottava e l’uso intransitivo del verbo oltrepassare):

All’imballatore di uomini (e donne)

Quell’imballaggio del cassamortaro, a chi lo deve usare, poco piace.

Sarà perché indossarlo costa caro, ma, una volta indossato, si va in pace.

Un vestito più unico che raro, con passaporto incluso (per chi giace) e garanzia per tutti gli incassati:

sarete soddisfatti o rimborsati.

... Se poi viene dall’Alto, la proposta, si parte e zitti: quanto costa costa!

E doppo?

Anime e corpi, ci si chiede in massa:

“Che ne sarà di noi?”. Questo è il mistero!

Noi prevediamo di finire in cassa, nel sonno, accompagnati al cimitero;

dopo una pausa al buio, si oltrepassa, incamminandoci per quel sentiero che per voler supremo ci conduce alle alte vette nell’eterna luce.

... Se questa luce fosse un’illusione, si resta... dentro “cassa integrazione”!

da la Loggetta n. 99/2014