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Tra le “formicuzze laboriose” che nei vicoli del nostro centro storico troviamo sempre impolverati tra attrezzi e ponteggi per il restauro di vecchi immobili, tutti avranno incontrato almeno una volta anche il “romano co’ la coda”, che poi romano non è, come capisce subito l’occasionale passante che attacca bottone venendone ripagato con una sorta di filosofia tascabile sul recupero ambientale in genere.

Estroverso, di modi civili, garbatamente polemico, Franco Varini è un mantovano di Sèrmide, dove è nato la bellezza di 73 anni fa. Con Roma ha avuto a che fare a lungo, perché suo padre vi si

trasferì appunto con la famiglia sul finire degli anni ‘30 per fare l’elettricista a Cinecittà. Alla caduta del regime, e anzi all’indomani stesso della famosa seduta del Gran Consiglio del Fascismo del 25 luglio 1943 che portò all’arresto di Mussolini, i Varini lasciarono la capitale divenuta insicura e tornarono a Sèrmide. Dove sarebbero tranquillamente rimasti, se a metà degli anni ‘50 Varini padre non si fosse ammalato e non fosse stato consigliato dai medici di allontanarsi dalle nebbie del Mantovano per

Vicolo Vecchio com’era ­ Vicolo Vecchio com’é

ricorrere al clima e alle possibilità di cura di Roma. Varini figlio - ossia il nostro Franco - veramente non si sarebbe voluto più muovere, perché già da alcuni anni lavorava alla Montedison di Ferrara, era fidanzato con una ragazza del nord e progettava di sistemarsi da quelle parti. Ma la famiglia partì e lui la raggiunse nel ‘56. Di nuovo nella capitale, per parecchi anni continuò a fare l’elettricista di impianti industriali e di riscaldamento, fino a quando, nell’80, non gli venne bene di entrare nell’Istituto sperimentale per la patologia vegetale, dipendente dal ministero dell’Agricoltura, come centralinista telefonico e guardia giurata. Nel frattempo aveva messo su famiglia sposandosi nel ’64 con la signora Maria e avendone tre figli:

Barbara del ‘65, oggi dietologa all’ospedale S. Eugenio e a sua volta madre di tre figli; Stefania del

‘69, casalinga e pittrice, anche lei sposata con un figlio; Stefano del

‘73, ancora “signorino”

e fonico in una società cinematografica gli diceva; e lui, in pen-sione dall’86 e

berghe in Via Valleforma, alle estreme propaggini del paese: la cantina di Bordellóne e quella di Fortunato de Rufolóne, cui fecero seguito a breve distanza la stalla e il fienile di Armando del Grambìno. Dopodiché decise di lasciare definitivamente la città e di farsi paesano acquistandovi anche la casa. Via la cravatta, via la barbona brizzolata alla Giuseppe Verdi dall’aria professorale, ed eccolo arrampicarsi su facciate e tetti in jeans, blusa e cap-pellaccio. Scalza i tufi riportandone al vivo la porosità, stucca con malte ce-mentizie, canalizza tubi e fili nascondendoli sottotraccia, sfrullìna travi e limette, ricostruisce comignoli, gronde, archi e architravi. Il tutto con evidente mestiere e buon gusto, sia pure introducendovi delle “preziosità”

stilistiche che in effetti non trovano alcun riscontro nella semplice tipologia architettonica del luogo. Ma il problema è risaputo, e in assenza di qualsiasi direttiva tecnica da parte delle autorità locali - dagli stessi protagonisti invocata - non possiamo che prendercela con noi stessi. Meno male che questi artigiani hanno Fran-co un bel ritratto, gli ci ha scritto sotto: “A lavori solo per la gran passione che ha e solo

Vicolo Veccho com’era Vicolo Vecchio com’é

negli immobili di sua proprietà: la casa di abitazione; quella acquistata dalla figlia in Vicolo Vecchio; i locali di Via Valleforma divenuti magazzini di de-posito... Tutt’al più dà volontariamete una mano a qualche altro romano dei dintorni che, vedendolo così bravo ed esperto, gli si rivolge per consiglio e aiuto. E’ lento, ci dicono, e quando piazza un ponteggio, è certo che vi rimarrà per molto. Ma del resto chi gli corre dietro? E se, come nel suo caso, il restauro è anche una filosofia di vita, chi gli impedisce, in questa sua... università della terza età, di oziare a discettarne con l’occasionale passante interessato? Allora vi sciorinerà a ruota libera le tecniche dell’in-tervento; le sue impressioni sul carattere collettivo dei piansanesi (non pre-cisamente idilliache); lo sdegno per la ragnatela di cavi elettrici, tubi e fili di ogni genere sparsi per l’intero centro storico come in una terra di nessuno;

le difficoltà d’intesa con confinanti e non per opere di migliorìa... Insomma, le difficoltà che incontra ogni giorno, compreso il lavoro che per via dell’età grava sempre di più (“sono schiavizzato - vi confessa - ...mia moglie la chiamano ‘Maria la vedova’...”). Poi, però, tra una chiacchiera e l’altra salta fuori che più d’un paesano, notando i risultati del suo lavoro, se ne esce con il considerare cosa abbiamo perso ad abbandonare il centro storico, e che forse una casa condominiale in cemento non eguaglia un appartamento singolo personalizzato e con tutti i confort quale si può ottenere da un sapiente restauro nella quiete del vecchio borgo. Sono i sensi di colpa della nostra cattiva coscienza? O i primi segni di quel processo culturale di matu-razione innescato venti/trent’anni fa proprio da questi... “restauratori molto artistici”?

da la Loggetta n. 64/2006

La pietra di Franco

Il muro rustico di contenimento nel quale l’ho inserita l’ho chiamato “il muro della rosa” per il soggetto floreale che vi è scolpito, ma non sono affatto sicuro che si tratti di una rosa. Però ha una sua bellezza ruvida in tono col grigio e la porosità del sasso e mi piace pensarla una rosellina selvatica, slan-ciata sul gambo con nuove gemme e boccioli, spontaneità rigeneratrice di natura senza artifici e ricercatezze. E’ scolpita su una pietra sagomata, chiave di volta di un arco di chissà quale dimora gentile. Magari sarà stato un sem-plice motivo ornamentale per puro vezzo estetico, ma mi piace ancora im-maginarlo un omaggio alla padrona di casa o un simbolo augurale di leggiadria nell’ambiente rappresentato.

E’ un graditissimo ricordo di Franco Varini, ricordate?, quel “romano” che abitava sopra alla “vòlta di Balduino” e per lunghi anni abbiamo visto

re-staurare case e altri locali nei vi-coli del centro storico. Lo incon-travamo spesso alle prese coi suoi lavori ed era facile sentirlo sciorinare una filosofia del re-stauro che - dopo una vita da elettricista/telefonista/guardia giurata a Roma - all’arrivo nel nostro paese a metà degli anni

’80 era diventato per lui una spe-cie di mission, tanto che gli de-dicammo un meritato spazio nella rubrica Com’era… Com’è della Loggetta n. 64 del 2006.

Franco ci ha lasciato un giorno di novembre di nove anni fa e come ultimo gesto volle essere inumato nel nostro camposanto.

Segno, non mancammo di notare, di “ritorno” e di umiltà, parola che viene da humus, terra. E dopo qualche tempo, incontrandoci casualmente per strada, sua moglie Maria mi disse che aveva una cosa da darmi, un pensiero che Franco aveva sempre avuto e che, nell’attesa dell’occasione più propizia, non aveva fatto in tempo a consegnarmi. Era questa chiave di volta, da lui recuperata da qualche portale ristrutturato e messa là per farmene omaggio.

Un segno inaspettato di stima che mi colpì. E m’imbarazzò. Sia per la prova di considerazione in sé, sia per essermi subito sentito indegno depositario d’una cosa d’altri, oggetto di sentimenti e chissà quali aspettative che mi sembrava di profanare.

Sicché è passato un po’ di tempo nell’incertezza, prima di decidermi a riesporlo a faccia vista con l’idea consolatoria di ridare comunque un senso alle attese dei primi artefici e di avere il “viatico”

affettuoso di una persona perbene e appassio-nata. Come “l’olivo Giuseppe” o “l’ippocastano Giulio” del mio terreno sotto casa. Che vivono qui e mi fanno compagnia. Mi “guardano”.

Come “la pietra di Franco”.

da la Loggetta n. 118/2019 Franco Varini (1933­2011)