allargamento del concetto di discriminazione
2. D IRETTIVE DELL ’UE: STRUMENTI PER AVVICINARE LE LEGISLAZIONI NAZIONAL
2.3 Gli anni Novanta e la tutela della donna
Il secondo gruppo di direttive, comprendente gli atti normativi adottati a partire dagli anni Novanta, allarga la precedente concezione di discriminazione per includervi quella indiretta, andando così ad affrontare questioni trasversali come la riconciliazione tra vita professionale e privata. Queste direttive non si
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prefissano più come obiettivo la totale uguaglianza, come invece facevano quelle sulla parità di trattamento, bensì la tutela delle specificità degli individui; investendo prima di tutto nella dimensione del tempo ancora prima di quella della retribuzione, hanno un effetto non solamente sulle donne ma anche sugli uomini. Il modello di lotta alla discriminazione proposto da tali direttive è finalmente in grado di trascendere dal modello maschile di impiego e incorpora invece caratteristiche più tipiche della vita di una donna, come lo è la cura dei figli, in quanto attività da inserire nell’organizzazione dell’impiego. A partire da questi anni, le direttive si concentreranno sulla tutela della donna nella sua particolarità, come tra l’altro già si stava avviando a fare la direttiva 86/613 (Walby 2004).
La direttiva 92/85/CEE concerne l’attuazione di misure volte a promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute sul lavoro delle lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo di allattamento; esse devono essere prese in considerazione, secondo la direttiva, come un gruppo esposto a rischi specifici sotto molti punti di vista e nei confronti di cui è quindi necessario adottare provvedimenti per proteggere la loro particolare condizione. Ciò è valido soprattutto per quel che riguarda lo svolgimento di attività che comportano esposizione a determinati agenti chimici, fisici e biologici o condizioni di lavoro all’interno di processi industriali ritenute pericolose per la sicurezza o la salute, attribuendo al datore di lavoro la responsabilità nel valutare i rischi e nell’informare le proprie dipendenti. Oltre al succitato divieto di esposizione, si stabilisce anche che le lavoratrici non possano essere obbligate a svolgere turni notturni (per cui si rende necessaria una riorganizzazione temporanea degli orari e delle condizioni di lavoro), né che esse possano essere licenziate nel periodo che va dall’inizio della gravidanza al termine del congedo, accordando loro un congedo di maternità di almeno quattordici settimane prima e dopo il parto, una dispensa dal lavoro per esami prenatali e tutti i diritti connessi al contratto di lavoro, tra cui il mantenimento della retribuzione o il versamento di un’indennità adeguata. Si sottolinea in tal modo come la condizione particolare della maternità richieda un maggiore
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equilibrio tra la sua tutela e la salvaguardia del principio di parità occupazionale: non solo occorre tutelare la madre e il bambino, ma anche garantire l’attività lavorativa della donna – per evitare che le misure di protezione adottate a suo favore finiscano per svantaggiarla nel lavoro (Rossilli 2009). La Corte di giustizia a tal proposito ha sentenziato che il licenziamento di una lavoratrice gestante dovuto alla sua particolare condizione equivale a una forma di discriminazione diretta (Prechal, Burri 2014).
La direttiva 96/34/CE adottata dal Consiglio recepisce l’accordo quadro sul congedo parentale, frutto del primo accordo sindacale europeo tra alcune organizzazioni interprofessionali, in quanto parti sociali direttamente coinvolte nel processo di attuazione e applicazione dell’accordo medesimo e in considerazione della loro idoneità nel “trovare soluzioni rispondenti alle esigenze dei datori di lavoro e dei dipendenti”: la Confederazione europea dei sindacati (CES), gli imprenditori privati (UNICEE) e gli imprenditori pubblici (CEEP). L’accordo quadro pone in atto prescrizioni minime sul congedo parentale e sull’assenza dal lavoro per cause di forza maggiore, in quanto esso è considerato uno strumento di fondamentale importanza per la conciliazione delle responsabilità professionali e familiari dei genitori che lavorano, promuovendo così in maniera concreta la parità di opportunità e di trattamento tra uomini e donne. All’interno del capitolo dedicato alle considerazioni generali, si enuncia che “una politica effettiva di pari opportunità presuppone una strategia globale integrata, la quale consenta una migliore organizzazione degli orari di lavoro, una maggiore flessibilità e un più agevole ritorno alla vita professionale”, anche in considerazione dei “bisogni della società in via di mutamento” e “dei mutamenti demografici, degli effetti dell’invecchiamento della popolazione, del riavvicinamento e della promozione della partecipazione delle donne alla vita attiva”. Si stabilisce inoltre, in maniera molto diretta, che “gli uomini dovrebbero essere incoraggiati ad assumere uguali responsabilità familiari, ad esempio, proponendo loro di prendere congedi parentali con mezzi quali programmi di sensibilizzazione”. Per la prima volta, all’interno di una direttiva, si fa accenno alla possibilità di mutamento del paradigma
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occupazionale e familiare fino a quel momento mai parte del dibattito istituzionale sulla parità. L’accordo prevede, tra l’altro, un congedo parentale minimo di tre mesi per figli fino agli otto anni di età, garantendolo come un diritto individuale sia della madre che del padre, e attribuito conseguentemente in forma non trasferibile appunto per incoraggiare entrambi i genitori a prendere un congedo in maniera equa (Prechal, Burri 2014).
Le tre organizzazioni interprofessionali siglano più tardi un nuovo accordo quadro, questa volta riguardante il lavoro a tempo parziale, adottato dall’Unione europea con la direttiva 97/81/CE del Consiglio. L’accordo, convenuta l’importanza che gli effetti del lavoro part-time hanno sull’occupazione, riconosce la necessità di eliminare le discriminazioni nei confronti dei lavoratori a tempo parziale (soprattutto quelli volontari) rispetto ai lavoratori a tempo pieno, di migliorarne la qualità del lavoro e di offrire loro una tutela sociale appropriata, nell’ambito di una ristrutturazione dei modelli previdenziali. L’importanza della direttiva è data dal fatto che la particolare tipologia di incarichi a tempo parziale è spesso scelta dalle donne come forma conciliativa tra vita lavorativa e vita privata, e conseguentemente il rafforzamento della tutela di queste professioni corrisponde a un miglioramento della condizione occupazionale femminile.
La direttiva 97/80/CE riguarda l’onere della prova nei casi di discriminazione basata sul sesso e mira a garantire l’accrescimento dell’efficacia dei provvedimenti a favore della parità, consentendo a chiunque si ritenga leso dall’inosservanza nei suoi confronti del principio della parità di trattamento di ottenere il riconoscimento dei propri diritti per via giudiziaria, dopo un eventuale ricorso ad altri organi competenti. Dopo avere ribadito la definizione di parità di trattamento, la direttiva dà una specifica descrizione della discriminazione indiretta, fino ad allora mantenutasi piuttosto vaga; essa sussiste “quando una posizione, un criterio o una prassi apparentemente neutri colpiscono una quota nettamente più elevata di individui d’uno dei due sessi”, e cioè quando un provvedimento formalmente neutrale va a colpire soggetti legalmente protetti dal divieto di discriminazione. Secondo tale direttiva, gli
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Stati membri adottano “i provvedimenti necessari affinché spetti alla parte convenuta di provare l’insussistenza della violazione del principio della parità di trattamento ove chi si ritiene leso abbia prodotto, dinanzi a un organo competente, elementi di fatto”.