3. L E POLITICHE ALLA PROVA DEI FATTI : MERCATO DEL LAVORO E CARRIERE FEMMINILI E
3.2 Sfera pubblica e sfera privata, una persistente dicotomia
Un’attenta critica alle asimmetrie di genere dovrebbe partire dalla denuncia di un grave difetto della nostra società, cioè il suo ragionare ancora in termini estremamente dualistici: affermando la permanenza di una netta divisione tra una sfera pubblica e una sfera privata, dietro la quale si cela la distinzione maschio/femmina, la donna continua ad essere posta al di fuori delle dinamiche economiche, politiche e di potere, in una condizione di sudditanza (Scisci, Vinci 2002; Sartori 2009). Mentre l’attenzione pubblica si è sempre rivolta verso il lavoro produttivo declinato al maschile, attraverso cui l’uomo diventa parte integrante della società, il riconoscimento della donna, vittima di una reiterata esclusione dall’ambito lavorativo, si è sempre limitato alla marginalità del privato, ai compiti riproduttivi e a quelli legati alla gestione della casa, nonché al suo ruolo materno e famigliare di cura e di assistenza.
Tale occultamento della donna ha origini difficili da definire, perché alle motivazioni economiche e sociali se ne aggiungono anche di culturali: “le diverse funzioni che (…) vengono attribuite al genere maschile e femminile (…) sono state ricondotte alle forme primitive di divisione del lavoro o quanto meno a quelle forme che la storia e l’iconografia ufficiale ci riportano” (Sartori 2009, pp. 84-85); una discriminazione legata all’idea essenzialista che a
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uomini e donne fossero stati assegnati dalla natura caratteri diversi e dicotomici: ai primi la ragione, alle seconde il sentimento. In prospettiva storica si riconosce come la generale divisione del lavoro lungo un confine sessuale emerga con più decisione nel corso dell’industrializzazione della società, che in Europa ha luogo a partire dal Diciassettesimo Secolo, in seguito al progressivo abbandono del lavoro agricolo, dove la distinzione tra pubblico e privato era certamente meno marcata (Sartori 2009). È proprio da questo momento che la donna si specializza nei compiti riproduttivi (cura e allevamento della prole, assistenza e soddisfazione dei bisogni della famiglia), che diventano l’unica occupazione cui si possa dedicare senza subire alcun tipo di riprova sociale. Soprattutto la mentalità borghese, infatti, nutriva il forte preconcetto per cui una donna lavoratrice rappresentasse una vergogna: è solo nelle famiglie meno abbienti che il contributo femminile al sostentamento rimaneva una necessità, più che una scelta (Sartori 2009); non un gesto di emancipazione, quindi, quanto piuttosto una triste esigenza, che gettava discredito sullo status della famiglia.
L’avvento del paradigma produttivo fordista finisce per irrigidire la già presente asimmetria di genere: da un lato l’uomo è dedito alla produzione e dall’altro la donna è occupata nella riproduzione. Quest’ultima si trova sprovvista di mezzi di sostentamento propri ed è impossibilitata ad acquisirne, risultando così in tutto e per tutto dipendente, e perciò subordinata, a una potestà maschile, a seconda del caso rappresentata dal padre, dal fratello o dal marito, che provvedevano finanziariamente alle sue necessità. Tutto ciò rientrava perfettamente nel quadro di un modello industriale che prevedeva il pieno impiego e la stabilità occupazionale del maschio, inserito in un corso di vita lineare e prevedibile, in cui i ruoli risultavano ben definiti per ogni membro dell’istituto famigliare (Ruspini 2003). Proprio perché il modello di industrializzazione “non solo è stato concepito per lavoratori uomini, ma presupponeva anche la presenza a casa di qualcun altro, interamente dedicato all’attività riproduttiva di cui gli addetti industriali erano impossibilitati a occuparsi” (Biancheri 2012b, p. 19), la famiglia nucleare viene a rappresentare
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il perno principale intorno al quale le disuguaglianze si producono e si moltiplicano. La separazione delle sfere di competenza maschili e femminili ha conseguito col tempo un successo tale da permeare ancora oggi la situazione sociale e conseguentemente occupazionale, nonostante il tramonto dell’era fordista.
Dalla fine degli anni Settanta del Novecento, la società occidentale ha progressivamente abbandonato il perseguimento di un modello produttivo industriale ed è andata incontro a una serie di profondi rivolgimenti socio- economici, molto aggressivi nell’intaccare l’omogeneità e la regolarità dei percorsi di vita secondo il genere di appartenenza (Zanfrini 2011). La cosiddetta transizione post-fordista ha comportato, tra le altre cose, una forte deindustrializzazione e conseguentemente un declino dell’occupazione stabile nelle grandi industrie manifatturiere, mentre è cresciuta esponenzialmente l’importanza del settore terziario e dei servizi. Eventi che hanno implicato gravi esperienze di disoccupazione, forme lavorative instabili, atipiche, temporanee, a scarso reddito. A farne le spese sono le classi sociali più esposte e vulnerabili, in particolare le donne, i giovani e gli uomini con bassa qualificazione. La flessibilizzazione del lavoro e la precarizzazione delle carriere sono fenomeni che avvengono proprio nel momento in cui il movimento dell’emancipazione femminile spinge fortemente affinché le donne possano trovare il proprio spazio all’interno del mercato del lavoro, combattendo l’esclusione dalla possibilità di avere un impiego e la loro segregazione all’interno delle mura domestiche. Un tale connubio di cause e avvenimenti profondamente destabilizzanti per l’intera società fa emergere con forza l’esigenza di una nuova negoziazione dei ruoli maschili e femminili (Giddens 1995), che non trovano più spazio nel nuovo ambiente sociale che è venuto a determinarsi. Le precedenti definizioni asimmetriche di genere, col maschio che porta a casa lo stipendio e la donna occupata nelle faccende domestiche, diventano improvvisamente stridenti e non rispondenti alle esigenze della società e del modello organizzativo occupazionale. Poiché anche le donne accedono al mercato del lavoro, le nuove identità, sia maschili
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sia femminili, si determinano non più solamente dalla propria posizione all’interno della famiglia, quanto da un intreccio di quest’ultima con la dimensione occupazionale, dando spesso luogo a non pochi conflitti. Infatti, per quanto obsolete risultino le precedenti rappresentazioni dicotomiche di genere, non avviene alcun cambiamento sostanziale nelle relazioni tra uomini e donne: ai nuovi termini dettati dalla società post-fordista si affiancano al contempo vecchie stereotipizzazioni. Il risultato è quello che le donne riescono sì a penetrare nel mercato del lavoro, ma si trovano a subire più di altri le sue nuove condizioni di flessibilizzazione e precarizzazione, andando in aggiunta incontro a una forte marginalità e discriminazione. Il loro corpo sessuato continua a essere percepito come ingombrante nella definizione degli ambiti lavorativi; “luoghi permessi o proibiti, mestieri adatti o pericolosi, professioni compatibili o incompatibili con la femminilità, sono dicotomie entro cui si sedimentano norme e credenze culturali che definiscono e organizzano il lavoro delle donne in base a paradigmi biologici di distinzione tra i sessi” (Biancheri 2012b, p. 19), da cui sembra molto difficile affrancarsi. La persistente marginalità delle donne nel mercato del lavoro ha cause multiple e diversificate, che convergono però intorno alla costruzione sociale del corpo femminile: l’organizzazione del lavoro che rimane rigido e ostile alla convivenza con altre modalità di svolgimento della professione, il carico dei compiti famigliari, la maternità quale motivo di interruzione del percorso lavorativo (Ruspini 2003). Tale situazione di squilibrio appare particolarmente accentuata in quelle situazioni in cui le donne sono meno o niente affatto tutelate, come ad esempio l’occupazione irregolare e il lavoro autonomo o atipico, dove si nasconde tutta una serie di condizioni di sottoccupazione e sottoremunerazione. E ancora, problemi più evidenti sono da registrarsi nell’ingresso nel mercato del lavoro, nel minore tasso di occupazione, nella permanenza ridotta nel mercato, nel persistere di segregazioni occupazionali, nell’utilizzo distorto del part-time e nella disparità salariale.
In un contesto profondamente mutato, non è quindi più plausibile continuare a ragionare in modalità polarizzata, distinguendo la sfera pubblica
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da quella privata, una marcatamente maschile e l’altra marcatamente femminile; essi sono oggi ambiti ormai inscindibili e strettamente relazionali, legati alla continua evoluzione dei percorsi lavorativi di donne e di uomini. Proprio perché il costante aumento dei tassi di formazione e occupazione femminile non ha comportato una vera riconfigurazione dei ruoli famigliari, il peso del lavoro di cura continua a gravare sulle spalle delle donne, traducendosi in un fattore in grado di influenzare negativamente la partecipazione al mercato del lavoro e la disponibilità di tempo per sé. L’uomo è coinvolto solo marginalmente nelle faccende domestiche e si limita a “dare una mano”, senza partecipare in maniera effettivamente paritetica alla propria controparte femminile. Permane un’immagine sociale alterata, che vuole la donna subordinata, poiché le mansioni finalizzate alla riproduzione sociale e fisica dei membri della famiglia sono attività gratuita che, svolgendosi al di fuori del mercato del lavoro, è poco o per niente presa in reale considerazione.
Risulta chiaro come a fattori esogeni di ordine socio-economico (scarsa flessibilità e inadeguatezza degli orari di lavoro, insufficienza di servizi di
childcare e di eldcare, disuguale distribuzione dei compiti domestici,
discriminazione nelle retribuzioni) si affianchino allo stesso tempo problemi endogeni di tipo culturale (i modelli socializzativi che tendono a indurre orientamenti occupazionali differenziati e che derivano dall’introiezione di ruoli stereotipati di genere). Queste problematiche appaiono oggi più che mai acuirsi, con l’aumento della disoccupazione e della precarizzazione del lavoro, i tagli alla spesa pubblica e la riduzione del welfare – fenomeni che hanno portato al revanscismo del male breadwinnig model, lo stereotipo fordista dell’uomo che “porta il pane a casa”. Solo un approccio integrato e programmatico sarà in grado di scardinare le profonde asimmetrie che regolano ancora i rapporti di genere, combattere l’ineguale impiego di risorse economiche e l’asimmetrica distribuzione delle risorse temporali di cui soffrono le donne.
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