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O RDINE E GERARCHIA

2.1 Antecedenti e precedent

Le due decadi che circondano la Prima guerra mondiale furono uno dei periodi più intensi per lo sviluppo della moderna politica britannica, sia da un punto di vista della concreta azione governativa, sia da un punto di vista di elaborazione teorica. In questi anni i parametri e i termini della politica cominciarono a mutare in modo netto: gli assiomi liberisti che avevano dominato incontrastati il XIX secolo iniziarono rapidamente a venire

messi in discussione, primi fra tutti il culto dell’iniziativa economica individuale e il ruolo marginale a cui lo Stato ottocentesco era stato relegato. Contemporaneamente, la crisi del liberismo agiva più in profondità andando a mettere in discussione il cuore stesso della sua struttura ideologica: l’idea di libertà individuale. Grandi sforzi furono infatti dedicati da più parti a ricostruire un nuovo significato di libertà, più adatto ai problemi posti dalla società contemporanea. «The crying need of our days is the need for freedom»1, affermava G.D.H. Cole mentre la Grande Guerra volgeva alla sua conclusione.

Delineare un nuovo concetto di libertà era un bisogno intellettuale che affondava le sue radici in un dibattito in corso fin dall’ultimo quarto del XIX secolo, stimolato sostanzialmente dai grandi cambiamenti sociali ed economici portati dalla rivoluzione industriale. Cos’era la libertà? Come poteva essere coniugata con una qualsiasi tipologia di organizzazione o di ordine sociale? Quali erano i limiti della libertà individuale e che rapporto doveva intercorrere tra il singolo e la società per permettere il maggior livello possibile di benessere collettivo? Erano queste le grandi questioni dell’epoca, intorno alle quali si era andato costruendo un intenso dibattito che, dal 1880 circa in avanti, aveva animato il mondo dell’opinione pubblica, dei circoli politici, economici, culturali e accademici dell’intero paese.

Le questioni chiave che venivano sollevate erano quelle tipiche di una società ormai pienamente moderna, che vedeva sorgere importanti problematiche di natura sociale, economica e politica strettamente legate ad uno sviluppo industriale ormai da più parti percepito come ineguale e asimmetrico. Le riflessioni principali, quindi, vertevano sul ruolo dello Stato, dei gruppi sociali e del singolo individuo all’interno di una complessa società industriale. Il problema dell’epoca, come affermò R.H. Tawney, consisteva nel comprendere «what exactly freedom means and how it was to be reconciled with the desire for social unity»2.

Alcune delle risposte a questi interrogativi finirono per costituire quel grande bacino di idee e suggestioni al quale attinsero i pensieri corporativi che si svilupparono nel Regno Unito a partire dai primi anni del XX secolo. La crisi del liberismo inglese e i tentativi di correzione, aggiornamento e rimodellamento dei suoi principi fondanti, costruirono una

1 G.D.H. COLE, Self-Government in Industry, G. Bell and Sons, Londra 1917, p. 114.

2 R.H. TAWNEY, Lecture to Stoud WEA, cit. in M. STEARS, Progressives, Pluralists, and the Problems of the State, Oxford University Press, Oxford 2002, p. 24.

sorta di grammatica intellettuale sulla quale vennero poi elaborati i diversi discorsi teorici oggetti di questo studio.

2.1.1 La crisi del liberalismo inglese di fine XIX secolo

L’inizio di una intensa fase di riflessione politica, socio-economica e filosofica si colloca all’interno di un periodo della storia inglese caratterizzato da quello che è stato definito il declino del radicalismo liberale di fine Ottocento. Nel medesimo periodo, si assiste ad una fase di generale rallentamento anche dell’economia britannica che, a partire dal biennio 1870-1872, caratterizzato dalla flessione di tutte le economia europee, conobbe un lento ma irreversibile declino destinato a durare fino allo scoppio della Prima guerra mondiale3.

In generale, le cause principali della fase decrescente dell’economia europea sono state identificate nelle difficoltà sperimentate dal settore agricolo, dovute essenzialmente all’afflusso dei cereali a basso costo provenienti dai paesi d’oltremare4. Tale situazione determinò un mutamento delle politiche commerciali a livello internazionale, risolvendosi in una generalizzata svolta protezionista che caratterizzò gli atteggiamenti economici di tutti i paesi europei dal 1879 in avanti5. Il primo paese ad invertire la rotta su questo

3 Per avere un quadro generale di questo declino economico si noti che, mentre fra il 1864-66 e il 1874-76 il

prodotto nazionale lordo era cresciuto del 2,2% annuo, fra il 1874-76 e il 1882-84 il saggio di crescita si era ridotto all’1,4% annuo. Parallelamente le importazioni di manufatti aumentarono rapidamente, tanto che si stima che crebbero, tra il 1869-71 e il 1879-81 del 5-5,5% all’anno. Infine, ed è forse il dato più importante, le esportazioni in Europa e negli Stati Uniti diminuirono proprio mentre aumentava il volume di quelle destinate ai mercati dei territori imperiali. Per una ricostruzione di questo periodo dell’economia britannica è disponibile una vasta letteratura, per le cui linee generali si rimanda alla lettura dei seguenti volumi: S. POLLARD, Britain’s Prime and Britain’s Decline: The British Economy 1870-1914, Edward Arnold, Londra

1990; D. H. ALDCROFT, H.W. RICHARDSON, The British Economy 1870-1939, Macmillan, Londra 1969. 4 Rompendo con le interpretazioni classiche di monetaristi, pensatori liberali e marxisti, David S. Landes ha

proposto una lettura del XIX secolo come secolo dell’eccezionalità deflattiva che dura – interrotta solo per sei o sette anni dal boom creditizio degli anni ’50 e dall’afflusso d’oro in lingotti dalle nuove miniere – dalla fine delle guerre napoleoniche fino al 1896. La spiegazione di questa anomalia nella storia monetaria e dei prezzi va ricercata proprio negli spettacolari incrementi produttivi che resero possibile la crescita economica ottocentesca, portando ad una riduzione dei costi di produzione, sia nel settore manifatturiero che in quello alimentare, che, insieme ad una rivoluzione nel campo dei trasporti, determinarono un abbassamento globale e prolungato dei prezzi. Il declino dei prezzi del XIX secolo è dunque, scrive Landes, il barometro del livello dell’industrializzazione europea. Cfr. D.S. LANDES, Prometeo liberato. La rivoluzione industriale in Europa dal 1750 ai giorni nostri, Einaudi, Torino 1978, pp. 302-325.

5 Si rammenta che dal l860, con l’entrata in vigore del trattato anglo-francese di libero scambio Cobdein-

Chevalier, si era inaugurata una fase di libero scambio che coinvolse velocemente tutta l’Europa e che, grazie ad un largo uso della clausola della nazione più favorita, fece del continente europeo negli anni tra il 1860 e il 1879 un’enorme area di libero commercio. Diversi furono infatti i trattati commerciali che disarmarono le barriere doganali europee in quei due decenni, come ad esempio il trattato franco-belga del 1861, quello franco-prussiano, che agiva in nome dello Zollverein, del 1862, ai quali seguirono i trattati francesi con Italia

terreno fu la Germania che, con l’introduzione di una nuova tariffa doganale nel luglio del 18796, inaugurò un nuovo periodo della storia degli scambi commerciali europei destinato a durare sostanzialmente fino al 1914. Il trionfo di idee e pratiche protezionistiche derivò, in larga misura, dalla coalizione di interessi tra mondo agricolo e mondo industriale: gli agricoltori, ampiamente danneggiati dal già citato afflusso di cereali e altri prodotti alimentari a basso costo provenienti dai paesi d’oltremare, vennero in appoggio degli industriali, i quali non si erano mai convertiti del tutto al libero scambio. Le medesime condizioni generali economiche produssero effetti simili anche nel resto dell’Europa continentale, sebbene ogni singolo paese fu caratterizzato da fattori specifici: tornarono velocemente a politiche commerciali protezioniste la Russia, dove i dazi vennero aumentati prima nel 1885 e poi di nuovo nel 1891; l’Austria-Ungheria nel 1882 e poi, in maniera più accentuata, nel 1887; la Spagna, dove si ebbe una revisione del sistema doganale nel 1887; l’Italia, nel 1888 ed infine la Francia, dove si arrivò ad un aumento complessivo pari al 32,5% con successive riforme varate tra il 1878 e il 18927.

Il periodo che va dal 1892 al 1914 vide un progressivo e sostanziale rafforzamento di questo trend che, grazie alla sua efficacia sulla bilancia dei pagamenti dei diversi Stati, cominciava a sollevare anche difficili problemi per le teorie liberiste del commercio estero, contribuendo a porre seri dubbi sulla validità delle stesse. Semplificando, è possibile affermare che l’evoluzione dell’economia europea tra il 1870 e il 1914 diede luogo, per gli osservatori liberisti dell’epoca, ad un’equazione che sembrava ai loro occhi paradossale: ad un libero scambio responsabile della stagnazione economica e del calo dei commerci internazionali, si era andato sostituendo un protezionismo che stava portando, invece, ad una crescita economica generale, verificatasi in particolar modo a partire dall’ultima decade del XIX secolo.

Ciononostante, il Regno Unito rimase, unico tra i grandi paesi europei, fedele al dogma del libero commercio in quanto la vecchia classe liberale, non potendo accettare la

(1863), Svizzera (1864), Svezia e Norvegia (1865), Spagna e Paesi Bassi (1865) e Austria (1866). Per una ricostruzione delle dinamiche politico-commerciali ottocentesche si veda: P. BAIROCH, “Le politiche commerciali in Europa dal 1815 al 1914”, in Storia Economica Cambridge, vol. VIII, Le economie nazionali.

I. Lo sviluppo delle politiche economiche e sociali, a cura di V. Castronovo, Einaudi, Torino 1992 pp. 3-179.