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Come specificato in precedenza, si è sentita la necessità di delineare un modello teorico di corporativismo che si configuri come punto di partenza e che serva al tempo stesso a misurare le distanze tra le singole teorie che saranno esaminate nel corso del lavoro. Le pagine che seguono hanno lo scopo di costruire un corpus di precetti ideologici identificabili come corporativi30. Parallelamente, però, proprio dalla stessa rigogliosità teorica corporativa, che si è sviluppata nell’arco di più di un secolo, sono stati selezionati fonti ed esempi per supportare e specificare meglio il modello che si andrà delineando. Si è scelto di organizzare il seguente paragrafo in quattro sezioni, ognuna delle quali è incentrata su un elemento costitutivo dei sistemi corporativi: la prima si sofferma sul ruolo che i teorici del corporativismo riservavano allo Stato, con particolare riferimento ai suoi rapporti con l’economia e con il mercato; nella seconda sezione viene invece preso in considerazione il ruolo riservato alle diverse forze produttive organizzate presenti nella società, ovvero ai diritti/doveri dei datori di lavoro e dei lavoratori; nella terza sezione vengono presentati attributi e funzioni di quelle che costituiscono le istituzioni peculiari e caratteristiche del sistema corporativo, ovvero le organizzazioni dei corpi intermedi e delle categorie economiche; infine, nella quarta ed ultima sezione, sono chiariti i tratti essenziali della riorganizzazione del sistema della rappresentanza e dei meccanismi politico- decisionali all’interno dei pensieri corporativi31.

a) Lo Stato, l’economia e il mercato

La riflessione economica corporativa, così come altre teorie economiche sviluppatesi a cavallo tra il XIX e il XX secolo, dedicava notevole spazio ad individuare e precisare il ruolo dello Stato all’interno del sistema economico generale. È utile iniziare il nostro

30 La riflessione che segue recupera e tenta di ampliare la grande mole di riflessioni che nel corso degli anni

sono state portate avanti riguardo il corporativismo quale modello per le scienze sociali, storiche e politologiche. In particolar modo si farà riferimento più volte ai seguenti testi, essenziali per una comprensione di tale modello: H.J. WIARDA, Corporatism and Comparative Politics. The Other Great “Ism,

op. cit.; A. CAWSON, Corporatism and Political Theory, Basil Blackett, Oxford 1988; P.J. WILLIAMSON,

Varieties of Corporatism. A Conceptual Discussion, Cambridge University Press, Cambridge 1985.

31 La suddivisione tematica scelta in questo lavoro per spiegare schematicamente le caratteristiche principali

del modello corporativo è in parte ripresa dalle riflessioni presenti nel volume di P.J. Williamson, le cui riflessioni, e soprattutto lo schema interpretativo adottato, convincono per efficacia e chiarezza espositiva. Cfr. P.J. WILLIAMSON, Corporatism in Perspective. An Introductory Guide to Corporatist Theory, op. cit.;

ragionamento partendo da un’affermazione formulata da Ugo Spirito in uno dei suoi più lucidi interventi sul tema dei rapporti tra Stato ed economia, in quanto essa possiede la forza di esplicitare chiaramente quello che può a ragione essere definito il punto chiave della visione corporativa del problema dei rapporti tra Stato, mercato e società:

Se si guarda all’economia classica e in genere all’economia più comunemente intesa come scientifica, si deve convenire che essa è stata via via costruita e perfezionata dal secolo XVIII a oggi trascurando, qualche volta in modo assoluto e sempre in modo essenziale, il problema dello Stato. Dall’economia del baratto fino a quella complicatissima delle banche e dell’industria contemporanea, i tratti della scienza sono stati concepiti in rapporto a una vita economica in cui dello Stato non si sente quasi mai il bisogno di occuparsi, come se fosse realtà estrinseca e irrilevante ai fini di una vera costruzione scientifica.32

Si nota chiaramente come Spirito si orienti verso una duplice critica del sistema liberista che aveva dominato la scena della contemporaneità fino alla Prima guerra mondiale e che tentava di sopravvivere nel primo dopo-guerra.

Dell’ideologia economica liberale i corporativisti non condividevano due elementi essenziali. Il primo era la fiducia nella capacità del meccanismo di mercato di presiedere ad un’allocazione efficiente delle risorse, implicando quindi una negazione sostanziale di un qualsiasi aspetto positivo del ruolo dello Stato nell’economia. Per i corporativisti il mercato, lontano dal possedere un’intrinseca e naturale capacità di auto-regolamentazione, era invece il luogo principale dal quale si generavano l’ineguaglianza e il conseguente conflitto sociale. Il secondo elemento di critica si muoveva nel solco di una serie di rifiuti sul piano culturale e filosofico che separavano nettamente le progettualità corporative da quelle liberali: ciò che veniva duramente messo in dubbio erano le stesse premesse individualistiche delle società liberali, accusate di lasciare poco spazio ad azioni riformatrici ispirate a finalità collettive.

Il nodo fondamentale di queste critiche è da ricercare nella diversa concezione dell’essere umano e della vita associata sulla quale si basavano le architetture istituzionali di stampo corporativo, che portava ad una simultanea reazione «contro un modo di organizzare la vita politica e contro un sistema economico: la democrazia liberale e il capitalismo»33. La critica dello Stato liberale partiva quindi da un rifiuto elaborato ad un

32 U. SPIRITO, I fondamenti dell’economia corporativa, in «Nuova Antologia», 15 febbraio 1930, riprodotto

in O. MANCINI, F. PERILLO, E. ZAGARI, La teoria economica del corporativismo, op. cit., p. 99. 33 M. MARAFFI, “Introduzione”, in Id. (a cura di), La società neo-corporativa, op. cit., p. 18.

livello più alto, che si concretizzava in un allontanamento metodologico dall’individualismo come condizione fondamentale della società: l’inviolabile libertà del singolo individuo non era più considerata la piattaforma unica della vita associata, sulla quale si doveva costruire l’intero funzionamento sociale: «L’erreur fondamentale […] – affermava, ad esempio, Georges Valois, politico francese proveniente dalla prolifica e ambivalente scuola di Georges Sorel – est de croire que la liberté est la condition nécessaire du travail, de la production et du progrès»34. Il XIX secolo è stato sicuramente il secolo della scienza, del progresso tecnologico e della crescita industriale. Parallelamente, su un piano filosofico, si era vista l’affermazione di correnti quali il positivismo, l’utilitarismo, il materialismo ed il marxismo, prassi filosofiche che riposavano, tutte a modo loro, sul dogma dell’evoluzione e del progresso. Ma la rivoluzione tecnologica – che sul piano sociale aveva assicurato il trionfo della borghesia e la nascita del proletariato, lo svuotamento delle campagne e l’emersione della grande città – , aveva generato, riprendendo ed estendo una riflessione di Sternhell35, contemporaneamente le sue antitesi: la rivolta contro il modo di vita prodotto dalla società industriale scorreva parallelo alla sua trionfale affermazione, preparando il terreno al riemergere di una cultura politica corporativa che, mai del tutto sopita, mirava a rivalutare l’importanza e la valenza socio- politica degli enti associativi e dei gruppi sociali intermedi, interpretati come luogo primo di creazione politica e gestione socio-economica36.

Come incisivamente suggerito da Stuart Hughes37, il lasso di tempo appena ricordato costituì un vero e proprio spartiacque nell’evoluzione della filosofia occidentale: ad un

34 G. VALOIS, L’Economie Nouvelle, Nouvelle Librairie Nationale, 1919, pp. 42-43. Georges Valois si era

formato studiando Proudhon, Nietzsche e Marx. Proprio agli errori metodologici dell’economia liberale egli dedicava un intero capitolo del suo volume. Cfr. Ivi, pp. 42-62. Su Georges Valois si veda anche: O. DARD, G. RICHARD (a cura di), Georges Valois, itinéraire et réceptions, Riveneuve, Parigi 2011; A. SALSANO,

Georges Valois e lo Stato tecnico. Il corporativismo tecnocratico tra fascismo e antifascismo, in «Study

Storici», anno 34, n. 2-3, 1993, pp. 571-624; Y. GUCHET, Georges Valois, l’Action Française, le Faisceau, la République syndacale, L’Harmattan, Parigi 1975.

35 Sternhell afferma che la maggior parte dei sistemi di pensiero e delle forze politico-sociali che

domineranno il XX secolo, sono già in movimento dall’inizio del secolo e, anzi, affondano le proprie radici in quegli importantissimi anni di incubazione intellettuale rappresentati dall’ultimo quarto del XIX secolo. Z. STERHNEHLL, La destra rivoluzionaria, op. cit., pp. 7-8.

36 Sergio Panunzio, uno dei maggiori intellettuali del sindacalismo rivoluzionario e poi del fascismo,

presentava, quasi paradossalmente, il nuovo assetto corporativo come un’evoluzione storica necessaria e naturale del liberalismo, che doveva trasformarsi in «un liberalismo di gruppi, non di atomi individuali e di errovaghi granelli di sabbia». Cfr. S. PANUNZIO, Che cos’è il liberalismo, in «Critica Fascista», anno I, n. 9,

15 ottobre 1923.

37 Cfr. H. STUART HUGHES, Coscienza e società. Storia delle idee in Europa dal 1880 al 1930, Einaudi,

Torino 1967. Sulla stessa lunghezza d’onda troviamo, in anni più recenti, il contributo di J. W. BURROW, The Crisis of the Reason. European Thought 1848-1914, Yale University Press, New Haven-Londra 2000.

periodo in cui il positivismo, il pensiero razionale e un’incrollabile fiducia nell’infinito progresso delle società umane dominavano la scena, costituendosi come vere e proprie condizioni di spirito, si sostituiva un periodo che vedeva il sorgere di numerosi interrogativi circa le possibilità di spiegare razionalmente il reale. Come affermato esemplificativamente nel 1895 da Gustave Le Bon, antropologo, psicologo e sociologo francese, «la ragione è cosa troppo nuova nella storia dell’umanità, e ancora troppo imperfetta, per poterci rivelare le leggi dell’inconscio, e soprattutto per sostituirle. In ogni nostra azione la parte dell’inconscio è immensa, e quella della ragione piccolissima»38. Questa reazione anti-razionalista produsse conseguenze su molteplici livelli delle scienze umane: esaminare nel dettaglio i prodotti intellettuali di questa crisi, le sue contraddizioni e i suoi svolgimenti, non rientra però negli obiettivi di questo lavoro39. Quel che ci preme qui

sottolineare sono le implicazioni che la messa in discussione del razionalismo e dell’individualismo aveva nella concezione del ruolo dello Stato all’interno della società in un sistema di pensiero corporativo. Recuperando sul piano della politica economica quanto appena illustrato, i corporativisti d’età contemporanea convergevano quindi nella critica ad un sistema di pensiero che riteneva che il gioco di liberi operatori economici sul mercato avrebbe naturalmente raggiunto un punto di equilibrio, permettendo in questo modo la creazione di un vasto e condiviso benessere40.

Quella che veniva evidenziata era l’esigenza di porre dei vincoli alla libertà contrattuale e all’iniziativa economica privata per il superiore interesse della nazione che, a differenza di quello dei singoli individui, non aveva carattere transitorio, bensì immanente. Aderendo forse ad una visione più realistica del mondo economico, i corporativisti facevano notare che un sistema di concorrenza perfetta si risolveva, inevitabilmente, solamente in accordo alla forza dei diversi operatori economici, senza alcun riguardo per quelli che venivano considerati più elevati principi di natura morale, i quali dovevano tornare a guidare le

38 G. LE BON, La psicologia delle folle, op. cit. in Z. STERNHELL, La destra rivoluzionaria, op. cit., p. 7. 39 Per analizzare queste tematiche si rimanda ai già citati lavori di Stuart Hughes e Burrow. Cfr. H. STUART

HUGHES, Coscienza e società. Storia delle idee in Europa dal 1880 al 1930, op. cit. e J.W.BURROW, The Crisis of the Reason, op. cit.

40 È bene fin d’ora precisare che, come in ogni campo del pensiero umano, le divisioni tra le diverse teorie

non sono mai nette: si registra, quindi, l’esistenza di una serie di economisti che, forse più per sopravvivenza politica che per autentica convinzione, fecero notevoli sforzi per tentare di presentare la nuova economia corporativa non come una negazione delle vecchie teorie economiche, bensì come un momento di sintesi e superamento che avveniva però sempre in continuità con il passato. Si vedano in particolare i tentativi degli economisti liberal-fascisti come Amoroso e De Stefani, che sottolineava proprio i punti di contatto tra l’economia corporativa e alcuni schemi del marginalismo. Cfr. A. DE STEFANI, L. AMOROSO, La logica del sistema corporativo, cit. in L. ORNAGHI, Stato e corporazione, op. cit., pp. 172-173.

società umane. Come affermava nel 1878 Albert de Mun, monarchico legittimista francese ammiratore e studioso del pensiero di von Ketteler:

Voi, o signori, parlate di libertà. Ma dov’è la libertà? Io sento che se ne parla da tutte le parti ma non vedo che della gente che la confisca per il proprio interesse. Io sento parlare di libertà di lavoro, ma vedo che in pratica essa serve per opprimere i lavoratori. Sopprimendo di colpo ogni intervento statale, questa libertà ha abbandonato senza difesa i più deboli alla mercé dei più forti. Non c’è più che una sola legge, quella dell’interesse e dell’arricchimento. C’è la libertà: ma essa ha un nome solo ed è la libertà della forza.41

Sulla stessa lunghezza d’onda troviamo anche le riflessioni di un altro dei padri del corporativismo di marca cattolica, René de La Tour du Pin, che nella sua opera Vers un

ordre social chrétien affermava:

Si le contrat de travail ou d’échange est absolument libre, c’est-à-dire s’il n’y a ni juste salaire, ni juste prix, ni condition d’équité dans l’échange de service, si en un mot les transactions économiques ne sont pas soumises à la loi morale, c’est la force qui y fait loi.42

I teorici del corporativismo si pronunciavano quindi in favore di una regolamentazione nel campo economico che avrebbe restituito allo Stato, per mezzo delle agenzie intermedie da lui stesso create o riconosciute, un ruolo fondamentale di regolatore della vita nazionale. Riallacciandosi a quanto detto in precedenza circa la crisi dell’individualismo e del ruolo della ragione, questo passaggio nella concezione del rapporto tra Stato, società e mercato risulta estremamente logico e coerente: l’individuo da solo non era in grado di prendere decisioni razionali e orientate al bene della collettività, quindi esso doveva essere subordinato alla stessa collettività della quale faceva parte, che avrebbe gestito armoniosamente la vita sociale ed economica del paese. In aggiunta, molti corporativisti ritenevano che la maggiore efficienza socio-economica che si sarebbe raggiunta con l’affidamento di un ruolo decisivo all’azione dello Stato fosse in realtà una soluzione ben più razionale di quella prescritta dalla scuola economica neo-classica, come esemplificato perfettamente dalle parole di Filippo Carli, economista esponente del nazionalismo italiano:

41 A. DE MUN, Discorso alla Madonna di Chartres, 8 settembre 1878, cit. in C.VALLAURI, Le radici del corporativismo, Bulzoni, Roma 1971, p. 17.

42 R. DE LA TOUR DU PIN, Vers un ordre social chrétien: jalons de route 1882-1907, Nouvelle Librairie

Non è dunque che l’azione dello Stato riduce, a mano a mano che si allarga, la zona economica (come vorrebbe la teoria economica individualistica); anzi, riducendo la zona dell’irrazionalità, amplia di altrettanto la zona della razionalità o zona economica43.

La nazione e le sue componenti organiche diventavano quindi il riferimento ultimo di ogni analisi e di ogni politica economica. Per dirla con le parole di Massimo Fovel, «la nozione essenziale, originaria e ultima insieme, dell’economia corporativa è quella di unità: unità nazionale, o statale, o popolare, si dica qui come si vuole, o, con più precisione, unità collettiva»44. Concezione che verrà estremizzata nella dottrina dello Stato fascista espressa da Alfredo Rocco dove, in contrasto con le teorie politiche razionaliste scaturite dall’Illuminismo, «il rapporto […] fra società ed individuo appare […] perfettamente rovesciato. Alla formula delle dottrine liberali, democratiche e socialistiche: la società per l’individuo, il fascismo sostituisce l’altra: l’individuo per la società»45. Il

rapporto tra il singolo essere umano e la collettività sociale nella quale egli si trovava a vivere e operare finiva per essere, nelle formulazioni fasciste, perfettamente ribaltato46.

Ma non bisogna cadere nell’errore di credere che questo ribaltamento di prospettiva sia stato una prerogativa dei fascismi o che esso sia sorto con l’avvento di questa ideologia sulla scena europea nel primo dopoguerra o negli anni Trenta. Le continuità storiche dell’idea di uno Stato organico, espressione di una nazione concepita come individualità integrale e metafisica superiore ai singoli individui e composta da associazioni di produttori, viaggiano lungo tutto l’arco del XIX e del XX secolo, ritrovandosi in diverse accezioni in pensatori e filosofi tedeschi, francesi e italiani47. In questa concezione, lo Stato

43 F. CARLI, Le basi storiche e dottrinali della Economia Corporativa, cit. in L. ORNAGHI, Stato e corporazione, op. cit., p. 81.

44 M. FOVEL, L’individuo e lo Stato nell’economia corporativa, in «Archivio di studi corporativi», fasc. I,

1930, in O. MANCINI, F. PERILLO, E. ZAGARI, La teoria economica del corporativismo, op. cit., p. 136. 45 A. ROCCO, La dottrina politica del fascismo, in Id., Scritti e discorsi politici, Giuffrè, Milano 1938, p.

1101.

46 Nel regime fascista italiano, la concezione organica dello stato, riprendendo discorsi nazionalisti, andò ad

occupare un posto di rilievo anche nel documento programmatico di maggior rilievo, ovvero la Carta del Lavoro del 1927, il cui primo articolo recitava: «La nazione italiana è un organismo avente vita, fini, mezzi di azione superiori, per potenza e durata, a quelli degli individui divisi o raggruppati che la compongono. È una unità morale, politica ed economica, che si realizza integralmente nello Stato Fascista». Cfr. R. DE FELICE, Mussolini il fascista, vol. II. L’organizzazione dello stato fascista (1925-1929), Einaudi, Torino

1966.

47 Idee per uno Stato organico composto da corpi intermedi funzionali si ritrovano nelle riflessioni di Hegel, ,

era concepito come un organismo vivente, composto da parti che dovevano comportarsi come gli arti di un vero e proprio organismo, collaborando armoniosamente per il raggiungimento del benessere generale48. Era una concezione del potere come ordine gerarchico, scandito in corpi intermedi e corporazioni professionali, che nasceva come reazione alla supremazia dell’individuo instauratasi dopo il 1789 e deflagrava in una galassia ampia di soluzioni dottrinarie che andavano dal corporativismo dichiarato, alla programmazione economica, alla politica tecnocratica49.

Riprendendo le fila delle considerazioni corporative sul ruolo dello Stato, occorre sottolineare il fatto che, se da una parte veniva rifiutata nettamente la soluzione liberista della mano invisibile del mercato che postulava l’inevitabile fallimento di un qualsiasi tipo di interventismo statale, veniva parallelamente osteggiata anche la soluzione opposta, ovvero quella di un illimitato protagonismo dello Stato nel campo economico. Se, infatti, il liberismo era visto come l’anatema principale al raggiungimento di un comune benessere, il socialismo marxista era parimenti ritenuto inadatto a creare un sistema di organizzazione politico-sociale utile ad affrontare i problemi della modernità. L’eccesso di centralizzazione, infatti, avrebbe portato, secondo i corporativisti, ad una burocratizzazione

La Tour du Pin e Albert de Mun, fino all’italiano Giuseppe Toniolo e al pontefice Leone XIII – nei socialisti utopici e poi non-marxisti – tra i quali i più importanti sono sicuramente Saint-Simon, Proudhon e Georges Sorel – , ed infine in tutta una galassia di nazionalisti e monarchici, che vanno dall’Action Française di Charles Maurras, fondata tra l’altro proprio insieme a La Tour du Pin nel 1899, fino ai nazionalisti italiani come Alfredo Rocco e Filippo Carli. Per una panoramica su questi argomenti si rimanda ai seguenti testi: J. NELIS, A. MORELLI, D. PRAET, Catholicism and Fascism in Europe, 1918-1945, Olms, Hildesheim 2015; L.

CERASI, Il corporativismo “normale”. Giuseppe Toniolo, tra medievalismo, laburismo cattolico e riforma dello Stato, in «Humanitas», vol. 69, n. 1, 2014, pp. 1-14; O.DARD, Charles Maurras, le maître e l’action,

Colin, Parigi 2013; M. LEYMARIE, O. DARD, J. GUERIN (a cura di), Maurrassisme et littérature, L’Action

française. Culture, société, politique, tomo IV, Presses universitaires du Septentrion, Villeneuve-d’Ascq

2012; G. SIMONE, Il guardasigilli del regime: l’itinerario politico e culturale di Alfredo Rocco, F. Angeli,

Milano 2012; KAISER W., WOHNOUT H. (a cura di), Political Catholicism in Europe, 1918-1945, vol. 1, Routledge, New York 2004; G. DE ROSA (a cura di), I tempi della Rerum Novarum, op. cit.; A. MURAT, op. cit.; D. FISICHELLA, La democrazia contro la realtà: il pensiero politico di Charles Maurras, op. cit.; P. MISNER, Social Catholicism in Europe, op. cit.; A. BLACK, Guilds and Civil Society in European Political Thought, Methuen & Co. Ltd, Londra 1984; F. GAETA, Il nazionalismo italiano, op. cit.; P. PECORARI (a cura di), Ketteler e Toniolo, op. cit.; G. ARE, I cattolici e la questione sociale in Italia (1894-1904), op. cit. 48 Queste idee nacquero inizialmente all’interno della cultura romantica tedesca del XIX secolo, in particolar

modo in reazione alla Rivoluzione francese, al Terrore del 1793 e alla Francia napoleonica, il cui esito cesaristico veniva interpretato come inevitabile in qualsiasi costruzione politica di stampo individualistico e atomistico. Per differenziarsi dallo sviluppo della teoria politica francese, i romantici tedeschi posero quindi l’accento su idee che ruotavano intorno al concetto di gruppo, declinato gerarchicamente secondo le