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ANTONIA, STREGA DI ZARDINO, NE “LA CHIMERA” DI VASSALL

NON LASCIAR VIVERE LA MALEFICA

2.1 LA STREGA: SPECCHIO DEL PECCATO.

2.2. ANTONIA, STREGA DI ZARDINO, NE “LA CHIMERA” DI VASSALL

La Chimera94, romanzo storico, di Sebastiano Vassalli racconta la storia di

Antonia e della realtà sociale e superstiziosa del suo tempo. La vicenda ha inizio il 17 gennaio 1590, giorno in cui Antonia, frutto di un adulterio, viene

92; R. G. Lienhardt, Some Notions of Witchcraft among the Dinka, in “Affrica”, 21 (4), 303-18,

pp.317- 318, in M. Douglas, La Stregoneria: confessioni e accuse, nell’analisi di storici e antropologi, Einaudi, Torino,1980, pp. 28-29.

93 G. Faggin, Le streghe, pag. 57.

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abbandonata ancora in fasce sul torno della Pia Casa di San Michele a Novara, e da lì accolta dalle monache e allevata, insieme alle altre esposte, sotto i rigidi dettami della dottrina cattolica. L’evidente bellezza della protagonista, bambina dagli occhi e capelli nerissimi, diventa da subito un problema per la sua adozione. Le famiglie preferiscono adottare ragazze brutte e storpie, poiché non saranno preda di uomini senza scrupoli e non metteranno a rischio il buon nome della famiglia con gravidanze illegittime. Tuttavia, all’età di dieci anni Antonia viene adottata da una coppia di contadini della Bassa Valsesia, Bartolo Nidasio e sua moglie Francesca, che la portano con loro a Zardino, un piccolo borgo nelle campagne novaresi. Sin da subito la coppia alleva Antonia come una figlia legittima, cosa molto strana in quei tempi, dal momento che le esposte venivano adottate per fare da serve. Eppure, questo non è sufficiente a dare ad Antonia una posizione nella comunità, che continua ad essere chiamata e additata come l’“esposta”, frutto del peccato.

Arrivata a Zardino, Antonia, riceve la benedizione del parroco Don Michele, appartenente alla categoria dei quistoni, falsi preti dediti più agli affari che all’esercizio del culto:

«Un prete anomalo: che non si faceva scrupolo di usare la chiesa per allevarci i bigatti, cioè i bachi da seta, e che perciò in questa stagione dell’anno la teneva chiusa, qualunque cosa succedesse, dovendo ancora riscaldare l'ambiente coi bracieri; ma che anche nelle altre stagioni di funzioni religiose ne celebrava poche. Un prete mago: che tastando la testa dei bambini ne prevedeva lo sviluppo fisico ed anche i casi della vita, conosceva le virtù delle pietre e delle erbe e sapeva rimettere a posto le ossa fratturate o slogate, legando l'arto tra due assicelle di legno di betulla e pronunciando certe formule di cui lui solo conosceva il segreto. Un falso prete, se dobbiamo dire le cose realmente come stavano: un uomo che sapeva a malapena leggere e scrivere, e che i suoi studi di filosofia e teologia amava ripetere d'averli compiuti all'Università della vita: andando in giro per i monti e per le valli ad insegnare ai contadini che l'Inferno

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è orribile, e che se volevano raggiungere il Paradiso dopo morti per la via più breve, dovevano comperare le indulgenze che lui stesso gli vendeva»95

Don Michele non è affatto ordinato sacerdote, ma uomo che sfrutta la Chiesa e le indulgenze per un proprio tornaconto personale. Il Concilio di Trento e la Controriforma diffondono a Novara, e quindi anche a Zardino, la nuova visione religiosa di una Chiesa moralmente ripulita che richiama sacerdoti e fedeli a una fede moralmente esercitata. La Chiesa istituzionale, contrapposta alla religiosità superstiziosa e popolare di Don Michele, è colta dall’autore nel momento di passaggio da una dimensione libertina a una dimensione severa e repressiva. L’artefice di questo cambiamento a Novara è il vescovo Bescapè, allievo e ammiratore dell’operato di Carlo Borromeo. Egli è fautore di una Chiesa «disumana e santa», nella quale avvia una politica di negazione del desiderio, proibendo ai fedeli «i canti, i balli, il riso, l’allegrezza, la festa»96. Ad

aiutarlo in questa opera è il giovane e ambizioso Don Terenzio, il quale sostituisce il vecchio parroco Don Michele e intraprende nel paesino una lotta per estirpare il paganesimo:

«gli ultimi resti dei culti cristiani, rappresentati da iscrizioni e da pietre venerate come feticci; […] le sagre del raccolto e delle fertilità; […] i maggi e balli sull’aia, le feste di nozze e i banchetti funebri; […] quell’usanza pessima e perniciosa che va sotto il nome di carnevale, e che più di ogni altra e in sommo grado produce corruzione, decadimento dei costumi, perdita d’anime e trionfo del Demonio. Bisognava dunque sostituire la recita del rosario alle veglie delle stalle, le novene ai balli, la processione alle streghe e i Te Deum e le cerimonie del ringraziamento alle feste pagane del raccolto.»97

95Ivi, pag. 29. 96 Ivi, pag. 22. 97 Ivi, pag. 118.

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Il programma di sradicamento della magia e superstizione attuato dalla Chiesa muta in un’operazione densa di ambiguità e crudeltà. L’insieme delle credenze e superstizioni pagane, che rappresentato il millenario substrato culturale, non viene estirpato con una visione razionale pre-illuminista, ma usato nella trattatistica dotta e inquisitoriale sulla stregoneria che ne alimenta la credibilità.

Il nuovo parroco diviene subito argomento di conversazione nelle sere d’inverno per il suo modo esasperato di eseguire la fede: costringere i paesani ad adempiere ai sacramenti, chiedere costantemente denaro per le indulgenze, sconfiggere il diavolo, e riconoscere coloro che hanno rapporti con esso. Tra i racconti dei popolani nelle stalle, Vassalli si sofferma a descrivere una delle più importanti credenze popolare del luogo. L’immaginazione superstiziosa del popolo crede che le streghe incontrino il diavolo in un posto non troppo distante dal paese chiamato dosso dell’albera dove avveniva il sabba:

«Mia madre dice che, di notte, tutt’attorno a Zardino ci sono i Diavoli. Vengono giù dai dossi o dalla parte del mulino, non te l’ha detto la signora Francesca? Ce n’è uno che tutti chiamano il Biron ed è un capro con gli occhi rossi come la brace, che si porta via le ragazze se la trova fuori di casa quand’è buio. Se ne è portate già tante! Anche le mie sorelle più grandi, la Liduina e la Giulia, uscivano di notte e il Biron le ha prese.»98

Il grande albero di castagno è il luogo di ritrovo delle streghe, da dove gli abitanti di Zardino sentono provenire di notte suoni demoniaci e voci di donne, che impediscono loro di avvicinarsi in prossimità del posto e raccogliere i frutti, seppure abbondanti, dell’albero.

Intanto Antonia ha raggiunto l’età dell’adolescenza, diventando ancor più bella, tanto che molti uomini del paese e dintorni la chiedono in moglie. La

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ragazza rifiuta tutte le proposte, persino quella proveniente da un uomo appartenente all’alto ceto, imparentato con la nobiltà. Questi continui rifiuti causano non poche dicerie nel paese – come può un esposta rifiutare un matrimonio del genere? - e la rabbia di tutte le madri e sorelle di quei giovani rifiutati. La sua bellezza e il numero elevato di pretendenti inducono a credere che Antonia sia dotata di particolari poteri, iniziando così ad essere considerata una strega.

Le caratteristiche fisiche delle streghe descritte nei manuali demonologici, benché rimangono di solito fedeli a uno schema costante, presentano delle oscillazioni. Tradizionalmente la strega, nelle raffigurazioni, è vecchia, brutta e povera. Ma quando l’accusa di stregoneria offre la possibilità di compiere una vendetta, ad essere additate come streghe sono anche le donne belle e giovani. La bellezza e la giovinezza non sono altro, per gli inquisitori, che un’illusione diabolica. Si ricorda a tal proposito il gruppo eretico dei catari, dalla parola greca kàtharos, “puro”; le donne che aderiscono al movimento ereticale sono riconosciute dalla loro straordinaria bellezza corporea, la quale è presentata nei testi come un espediente diabolico.

Il corpo della strega presenta dei tratti inconfondibili. La lunghezza dei capelli, tipica delle donne, è di per sé un simbolo funesto: i capelli affascinano e attraggono il desiderio sessuale dei demoni. Non per altro una ciocca di capelli è il pegno del patto tra la donna e il diavolo. Antonia è solita portare i suoi lunghi capelli sciolti come sinonimo di libertà, raccogliendoli, su richiesta di Francesca, soltanto il giorno della convocazione al Tribunale della Chiesa di Novara. Gli inquisitori certi che il demonio fornisse alle streghe dei talismani,

sors silentii, per evitare di confessare sotto tortura tutti i misfatti compiuti, le

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diaboliche poteva celarsi il signum diaboli. Ad insospettire i periti sono invece sul corpo di Antonia l’abbondante presenza dei nei:

«li i insospettirono nei come possibili signa Diaboli o “bolli del Demonio”; perciò li sottoposero alla prova della trafittura, pungendoli pazientemente ad uno ad uno con spilli d’argento e trovandone alcuni presso chè insensibili: indizio grave – scrissero i dottori – e prova quasi certa (“majius argumentum et satis firma probatio”) d’avventura possessione diabolica.»99

Il corpo delle streghe, destinato a essere il tempio di Satana, emanava un fetore che, invece di essere segno di sporcizia, era il marchio dell’unione carnale con lo spaventoso caprone.

Tra le vittime amorose di Antonia, vi è Biagio, un ragazzo con grave ritardo mentale, trattato alla stregua di un animale dalle sorelle Borghesini. Le fughe continue del giovane fanno spazientire le due sorelle, che decidono di accusare Antonia di aver usato contro di lui dei malefici. La denuncia è fatta dapprima al Tribunale dello Stato, senza alcun risultato, e poi al Tribunale dell’Inquisizione.

Le dicerie sui suoi poteri da strega crescono, e vengono collegate a ogni fatto insolito avvenuto nel paese: la morte di un bambino in una casa in cui lei in precedenza aveva fatto visita, la nascita di un vitello deforme, o la morte di un cane.

«“come abbiamo potuto non pensarci prima? Avevamo una strega tra di noi, e nemmeno ce ne accorgevamo!”. Le parole, gli atti e tutti i movimenti di Antonia cominciarono ad essere seguiti con grandissima attenzione, e interpretati alla luce di ciò che succedeva n seguito, per esempio: Antonia entrava per fare qualcosa in una casa e poi nei giorni successivi in quella stessa casa s’ ammalava un bambino, oppure improvvisamente moriva il cane, o un

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vitello nasceva deforme; ecco il vero motivo – si diceva – per cui lei era stata lì! Le concatenazioni dei fatti, le coincidenze si sprecavano: Antonia salutava una ragazza e il giorno dopo quella cascava dal fienile; Antonia passava per una certa strada, e vi si trovava i pezzettini di legno sparsi in un certo modo, dei segni a terra, a dir poco misteriosi… E non basta. Se lei guardava per aria poi pioveva, o addirittura nevicava; se guardava per terra s’asciugava il pozzo, o sprofondava la cantina; se indicava un punto verso l’orizzonte si poteva stare certi che laggiù, o comunque in quella direzione, prima o poi sarebbe scoppiato un incendio, o la fiera bestia avrebbe aggredito un contadino; se sospirava, erano dolori per tutti.»100

Il romanzo mette in luce la pazzia collettiva di un popolo schiavo della sua ignoranza, in cui la superstizione condiziona il modo di pensare e di agire. Dalla semplicità, che contraddistingue i contadini della bassa, nasce la loro natura altamente influenzabile da un potere superiore, come la Chiesa. Infatti, gli abitanti di Zardino per liberarsi dalla strega si rivolgono all’unica figura di potere del paese, don Terenzio: «provvedesse lui, che ne aveva il potere la competenza specifica, a ridurre la strega in condizione di non nuocere, con esorcismi e con altri mezzi ritenuti idonei; o denunciandola a Novara al Sant’Uffizio»101. I fratelli cristiani affermano di avere le prove del suo essere

strega e possono testimoniare di aver visto Antonia andare al sabba. Si apre così il processo ad Antonia, in data 20 aprile del 1610, presso il Sant’Uffizio di Novara. I primi ad essere ascoltati sono tre residenti del villaggio di Zardino che affermano di aver incontrato di notte Antonia fuori dal villaggio mentre si reca ai suoi convegni con il diavolo; e alle domande dei contadini del perché in quel luogo ella ha risposto: «Io vado a incontrare col signore mio e nemico vostro, che se lui ora vi apparisse dinanzi, voi caschereste di cavallo per lo

100 Ivi, pag.214. 101 Ivi, pag.215.

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spavento»102. Alle testimonianze dei contadini seguono quelle delle comari,

definite negli atti dei processi “donne piissime”. Quest’ultime confermano gli incontri tra il diavolo e Antonia, che avvengono regolarmente tutte le settimane, nella notte tra il giovedì e il venerdì, sul dosso dell’albera, da cui si scorgono le luci e si sentono strane voci.

Secondo alcune, persino il diavolo in forma di caprone percorre le strade del paesino camminando e danzando, mostrando enormi vergogne103. Un'altra

comare racconta di aver avuto un incontro con un bellissimo giovane, vestito di velluto, che chiede alla donna se in paese ci fossero dei neonati maschi. Ma appena la comare fa il segno della croce, il giovane uomo sparisce.

Dalle deposizioni dei processi di stregoneria si può notare la natura mutevole delle apparizioni del Diavolo. In molte il Diavolo si presenta in carne e ossa, un uomo di bell’aspetto, e persino elegantemente vestito. Quasi sempre queste apparizioni avvengono in un momento di profondo dolore, di lutto o di indigenza. Per questo i migliori soggetti alle lusinghe diaboliche erano le anziane vedove, respinte dalla società e in una condizione sociale non vantaggiosa. Le promesse di denaro e di riscatto sociale, spingono le donne ad accettare la totale sottomissione al suo volere e ad un amplesso disgustoso. La richiesta del Diavolo di neonati maschi è da ricercarsi nella paura del popolo. Il figlio maschio vale di più della femmina104, per tale motivo nei primi

mesi di vita in molti paesi del sud Italia i maschietti vengono vestiti con gli indumenti delle femmine, per trarre in inganno gli spiriti malefici.

102 Ivi, pag.221. 103 Ivi, pag. 223.

104 La facile eliminazione di Antonia è da ricercarsi tra il suo scarso valore produttivo

all’interno della comunità: «E pazienza ancora – dicevano le comari – se la Francesca fosse andata a prendersi un maschio, i maschi crescono e lavorano nei campi; ma andare a prendere una femmina, in città, era una cosa che non stava né in cielo né in terra […] “Anche questa ci doveva capitare! Un esposta a Zardino! In mezzo ai nostri figli” “Una figlia del Diavolo! Una piccola stria!”» (pag.60).

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Al processo di Antonia altri capi d’accusa si aggiungono a queste testimonianze irrilevanti: l’essere stata usata come modella da un pittore di strada per dipingere su un’edicola il volto della Madonna; e di averla vista ridere durante la visita, alla chiesa di Zardino, del Vescovo di Novara, Bescapè. Antonia rappresenta l’eccesso con i suoi capelli neri e la sua pelle scura. Definita un “mostro” da bambina, ella diventa di pericolosa bellezza e indipendenza in età adulta. Durante il processo i suoi incontri notturni con il

camminante Tosetto vengono visti come convegni in compagnia del diavolo e

il suo schietto materialismo è considerato un’azione di propaganda «di dottrine eretiche e scismatiche tra gli abitanti della bassa»105.

Nonostante le testimonianze di Antonia e dei suoi genitori sulla reale veridicità dei fatti, il processo ha il suo esito. Antonia viene imprigionata e torturata brutalmente, finché, stremata dal dolore, confessa di essere una strega e di aver avuto rapporti carnali con il diavolo. In fine la condanna per stregoneria, Antonia viene consegnata al braccio secolare per essere bruciata al rogo nel luogo dei convegni notturni, il dosso dell’albera.

L’11 settembre Antonia è sulla corazza che la conduce al luogo della sua morte, e guardando fuori dal finestrino vede la gente che acclama a gran voce: «Maledetta Strega! Devi crepare! A morte! Al rogo!»106. All’innalzarsi delle

prime fiamme, esplodono le urla di gioia e risuonano gli applausi: giustizia è stata fatta.

Vassalli utilizza gli strumenti di ricerca antropologica per presentare ne La

Chimera il fenomeno della stregoneria nel momento cruciale dello scontro tra

un substrato folklorico e popolare e le “dotte” teorizzazioni inquisitoriali

105 Ivi, pag. 292. 106 Ivi, pag. 339.

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sull’argomento107. Lo scontro tra le due mentalità, da una parte, quella

popolare rappresentata dai contadini del villaggio di Zardino, dall’altra quella intellettuale dimostrata dalla chiesa istituzionalizzata, si compie sul corpo di Antonia, la quale diviene la vittima sacrificale su cui si riversano tutte le paure e tensioni di un sistema socioculturale colto in un momento di crisi.

Il viaggio iniziale della protagonista, dalla Pia Casa degli esposti di Novara al villaggio di Zardino, è un viaggio dalla città alla realtà contadina; in un microcosmo, le cui pause sono scandite dai lavori stagionali nei campi, e dove sono presenti le forme di una cultura alternativa e liberatoria108, individuata nel

dinamismo delle sagre e feste di paese popolate da un’umanità marginale e

colorita. Questa stessa cultura è stata artefice dell’unione della doppia valenza

associata alla festa: quella positiva, giocosa, e quella demoniaca, negativa. Lo scontro tra cultura superstiziosa – popolare e quella ecclesiastica si realizza nello spazio immaginario del sabba, che diviene la rappresentazione concreta di atteggiamenti anarchici e libertini dai contorni mostruosi, lontani dalla compostezza e legalità delle feste diurne. Distante dall’area sociale del villaggio, il luogo del sabba, il dosso dell’albera, minaccia di estendersi e reclutare nuovi adepti per creare una nuova anti- società che fondi il suo credo sulla promiscuità e il disordine. L’atmosfera festiva, che la Chiesa aveva osteggiato e abolito nelle campagne, ritorna nella sua forma mostruosa a chiusura del romanzo, nell’ultima scena al dorso dell’albera dove è innalzato il patibolo per Antonia:

«S’incontrano, quasi ad ogni passo, comitive dirette al dosso dell’albera, che andavano laggiù per veder bruciare la strega […] i ragazzi facevano girare con due mani certi strumenti di legno detti raganelle, […]gli uomini agitavano

107 C. Della Coletta, L’altra metà del seicento: da I promessi Sposi di Manzoni a La Chimera di

Vassalli, in «Italica», 1° ottobre 1996, Vol. 73(3), pp.348-368.

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quelle stesse filze di barattoli che erano stati gli strumenti del Diavolo cioè del Carnevale, prima di Bescapè lo mettesse a bando, e che ora servivano per festeggiare la vittoria di Dio sul Diavolo, le donne e i vecchi gesticolavano[…]in segno di festa le comari avevano esposto tutte le stoffe colorate che c’erano in paese e sulle finestre di quasi tutte le case brillavano file di lumini.»109

La folla è rappresentata al culmine di una crudele isteria. Il desiderio di evasione e il gusto per l’eccesso, che caratterizzavano le feste e i riti pagani, per lungo tempo osteggiati e proibiti dalla Chiesa, ritornano, in forma legalizzata, nella mostruosa festa che si svolge sul corpo di Antonia, che permette la feroce, finale sublimazione della violenza in spettacolo110.

2.2.1 DALLA STREGA DI ZARDINO ALLA CATERINA DEI MEDICI