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Antonio Tabucchi, uno scrittore impegnato?

Ma è possibile realmente definire Tabucchi uno scrittore impegnato, un militante o analizzare la sua opera soltanto con la prospettiva di questo elemento? Come risponde lo stesso scrittore:

Ce serait une définition trop étroite. Je me sentirais comme ces insectes épingles dans une boîte. L'appartenance à un parti, l'engagement ne seront jamais, selon moi, un instrument suffisant pour mesurer la réalité265.

La questione dell'appartenenza di uno scrittore a un partito politico è già stata clamorosamente al centro dell'attenzione nel dibattito culturale civile in Italia negli anni Cinquanta, nella famosa querelle tra lo scrittore Elio Vittorini (1908-1966) e l'allora segretario del Partito Comunista Italiano Palmiro Togliatti (1893-1964). L'esperienza per lo scrittore di Uomini e no (1945) di lavorare intorno ad un progetto editoriale come quello della rivista «Il

                                                                                                               

263 Come ha prontamente rimarcato Milanesi, su dieci presidenti della Repubblica, cinque non furono democristiani, tra i quali De Nicola, Einaudi, Saragat, Pertini, Ciampi, Ibidem, p. 277 264 ANTONIO TABUCCHI, L’oca al passo, op. cit., p. 165

265 ARNOULD DE LIEDERKERKE, Antonio Tabucchi: le contrebandier, «Magazine littéraire», luglio-agosto 1997, pp. 154-159.

Politecnico»266 è antecedente alla fine del secondo conflitto mondiale; già in seguito alla guerra Vittorini scrive:

una volta finita la guerra di cercare una rivista, una pubblicazione culturale destinata a giovani di tutte le classi sociali ma che si rivolgesse anche e soprattutto ai giovani lavoratori in quell’età nella quale tutti sono intellettuali267.

Vada inoltre sottolineato che un primo netto distacco dal mondo del PCI, al quale la rivista era legata sin dalla sua origine, è già il passaggio da settimanale a mensile; parlo di netto distacco poiché già dalle origini della sua pubblicazione, il PCI ha vissuto con incostante consenso la scelta di Elio Vittorini come direttore del suo giornale. Dal suo lato l'intento del partito era piuttosto quello “pedagogico” di formare le classi subalterne e cercare di cancellare, dopo la fine del conflitto, ogni residuo fascista dagli apparati culturali del Paese. Elio Vittorini invece, se da un lato era un uomo affiliato al partito (si ricordi che restituirà la tessera del PCI soltanto alla chiusura della rivista nel '47), era considerato un convinto antifascista piuttosto che un "fedele" comunista. Il suo intento infatti, se non era quello di mantenere un'alta forma di cultura, restava proiettato verso la creazione di una nuova forma di organizzazione della società, attraverso forme culturali che, se non propriamente di nicchia, non restavano comunque accessibili alle masse. In seguito a questa diatriba con Palmiro Togliatti, Elio Vittorini dovette affrontare anche la progressiva distanza posta da amici e collaboratori della rivista, ritrovandosi solo nella direzione e nella stesura della rivista, arrivando soltanto al numero 39 (in cui compare tra l’altro un saggio di Georg Lukacs, 1885- 1971). Nella primavera del ’48 Elio Vittorini scrive a Michel Arnaud (1907- 1933), suo amico e traduttore francese:

                                                                                                               

266 Il primo numero de «Il Politecnico» uscì a Milano nel settembre del ’45 con il sottotitolo “Settimanale di cultura contemporanea” e con questa veste fu pubblicato fino al n. 28, distribuito il 6 aprile 1946. Il primo maggio dello stesso anno fu trasformato in mensile e con tale periodicità uscirà fino al dicembre del ’47, con il trentanovesimo ed ultimo numero. Redattori del settimanale furono: Franco Frontini, Vito Pandolfi, Albe Steiner, Stefano Terra; il mensile fu edito sotto la responsabilità unica di Vittorini, con Giuseppe Trevisani in funzione di segretario di produzione.

Sono stato costretto, praticamente, a non farlo più. Perché avrei dovuto: o uniformarmi a una linea di attività non culturale (non critica, non scientifica); o lasciarmi spingere verso altre rive per me politicamente immonde. Ed entrambe le alternative sono per me inaccettabili. Il mio comunismo resta serio abbastanza per farmi preferire di tacere, forse anche in quanto ho nei miei libri il lavoro cui tengo di più268.

E con un articolo di risposta del "malizioso" Togliatti dalle colonne di «Rinascita», si chiude non solo l'esperienza editoriale del «Politecnico»269, ma uno dei momenti più significativi e rivelatori del rapporto tra intellettuale e classe politica che da sempre ha cercato di interferire e orientare il pensiero degli intellettuali al fine di creare, attraverso la penna dello scrittore, il maggior numero di consenso intorno alla propria persona.

La polemica è di quelle destinate a durare e, ciclicamente, si presenta sotto forma di dibattito su giornali, riviste o saggi. Uno dei momenti più rappresentativi per comprendere ora la posizione tabucchiana, nasce dalla polemica innescata dalla rubrica «Bustina di Minerva» che Eco scrive sul settimanale «L’espresso»; in uno di questi articoli scrive:

Se li prende per quel che sanno dire (quando ci riescono) gli intellettuali sono utili alla società, ma solo nei tempi lunghi. Nei tempi brevi possono essere solo professionisti della parola e della ricerca, che possono amministrare una scuola, fare l’ufficio stampa di un partito o di una azienda, suonare il piffero alla rivoluzione. Dire che essi lavorano nei tempi lunghi significa che svolgono la loro funzione prima e dopo, mai durante gli eventi270.

Ed è su questa prima posizione che lo scrittore toscano attacca il semiologo piemontese, poiché l’intellettuale, secondo Tabucchi, dovrebbe non solo interrogarsi sul reale, sugli avvenimenti che si sviluppano nella società, ma cercare di incidere attivamente sul proprio tempo. E quando all’interno della stessa «Bustina» Eco scrive: «Badate che gli intellettuali, per mestiere, le crisi                                                                                                                

268 ELIO VITTORINI, Gli anni del «Politecnico»: lettere 1945-1951, Torino, Einaudi, 1977, p. 155.

269 PALMIRO TOGLIATTI, Vittorini se n’è ghiuto, E soli ci ha lasciato!, Rinascita, a VIII, n. 8-9, agosto–settembre 1951., 1951, (firmato con lo pseudonimo di Roderigo di Castiglia). 270 UMBERTO ECO, La bustina di Minerva, Milano, Bompiani, 2000, p. 264.

le creano ma non le risolvono271», Tabucchi risponde che «l’ipotetica funzione dell’intellettuale non sia tanto «creare» delle crisi, ma mettere in crisi272». Lo scrittore toscano inoltre, nel rispondere al profilo dell’intellettuale tracciato da Umberto Eco, si serve delle parole del filosofo Maurice Blanchot (1907-2003), che così lo definisce:

È una parte di noi stessi che non solamente ci distoglie momentaneamente dal nostro compito, ma ci riporta verso ciò che si fa nel mondo per giudicare o apprezzare ciò che vi si fa. […] l’intellettuale è tanto più vicino all’azione in generale e al potere quanto più egli non si immischia nell’azione e non esercita un potere politico273.

A dimostrazione dell’inutilità e dei «tempi lunghi» di cui necessita l’intellettuale per poter elaborare una sua riflessione, Eco richiama due esempi: uno è il loro lavoro superfluo nell’occuparsi dei ragazzi che tirano i sassi dal cavalcavia «perché la salvezza non viene dall’intellettuale ma dalle pattuglie della polizia o dai legislatori274», l’altro è che «l’unica cosa che un intellettuale possa fare quando la casa va a fuoco è chiamare i pompieri». Al contrario Tabucchi insiste sui motivi che indicono i giovani a compiere tali gesti, a porsi domande sulla società civile nella quale vive, per tentare di spiegare le ragioni del malessere che si è impossessato dei giovani.

Su una prospettiva simile si pone lo scrittore Alberto Arbasino (1930- ) che, in un articolo del 1997, accusa gli intellettuali di strumentalizzare le catastrofi, le tragedie, per farsi pubblicità; li accusa di falso buonismo, di finta generosità al solo fine di "apparire", mettersi in mostra, e si domanda ironicamente:

A chi giova il protagonismo delle "starlets" che si fanno pubblicità alle spalle delle grandi catastrofi, col pretesto di "dare visibilità" (coi loro "numeri" futili) alle immagini drammatiche e non certo nascoste di tutte le televisioni?275

                                                                                                               

271 Ibidem.

272 ANTONIO TABUCCHI, La gastrite di Platone, Palermo, Sellerio, 1998, p. 32. 273 Ivi, p. 38.

274 UMBERTO ECO, La bustina di Minerva, op. cit., p. 265.

275 ALBERTO ARBASINO, Albania, le prediche dei guru, «Corriere della Sera», 8 marzo 1997.

Alberto Arbasino sembra dunque concordare con Eco sull'incapacità dell'intellettuale di influenzare, tantomeno modificare l'epoca nella quale vive; il motivo per cui li accusa è di essere autoreferenziali e indirizzarsi soltanto agli operatori dei media, comunicatori, pensatori, maestri, di essere semplicemente un'altra élite. Consiglia loro piuttosto di rivolgersi direttamente «ai veri responsabili del Paese e del Potere: i ministri degli Interni, Esteri, Difesa, Tesoro, Lavoro, Sanità, Bilancio, Trasporti» magari per offrire un contributo concreto, non soltanto una pars destruens, ma qualche consiglio pratico su come migliorare lo status quo. Tabucchi risponde dalle colonne de «La Repubblica276» in primo luogo all'articolo di Arbasino in cui attaccava gli intellettuali che avevano partecipato alla manifestazione tenutasi a Parigi277 il 22 febbraio 1997 contro le tre leggi sull'immigrazione Pasqua-Debré che rendono più semplice la confisca del passaporto e la memorizzazione delle impronte digitali dell'immigrato che fa domanda per il permesso di soggiorno. Sempre sulla questione degli immigrati Tabucchi ricorda un evento accaduto nel venerdì santo della Pasqua 1997, quando una nave militare italiana affonda accidentalmente una motovedetta albanese, la Kater i Rades, nel tentativo di ostruirgli il tragitto: una tragedia durante la quale persero la vita ottantuno persone278. Tabucchi richiama la vicenda per ricordare anche le parole di Emma Bonino (1948-), all'epoca Commissario europeo, che in un articolo accusa gli intellettuali italiani di aver taciuto sulla tragedia albanese279; rispondendo ad Arbasino, Tabucchi afferma: «Insomma gli intellettuali sono responsabili se parlano (come, parlando, affermi tu) e sono responsabili se                                                                                                                

276 «Il tuo obiettivo immediato erano allora gli intellettuali francesi che avevano manifestato, per iscritto o per le vie di Parigi, la loro solidarieta' verso i cosiddetti "sans papiers" (cioe' gli immigrati senza permesso di soggiorno) che il governo francese vuole espellere dal suo territorio nazionale» in ANTONIO TABUCCHI, Intellettuali copritevi, ora piovono pietre, «La Repubblica», 1 aprile 1997.

277 ID, Ma armati di mitra, «La Repubblica», 15 marzo 1997.

278 L'episodio è raccontato nella recente ricostruzione in ALESSANDRO LEOGRANDE, Il

naufragio, Milano, Feltrinelli, 2011. Sul tema della migrazione e della loro non-identità cfr. il

saggio ANTONELLA DAL LAGO, Non persone, Milano, Feltrinelli, 2004.

279 ANTONIO TROIANO, Bonino: Eco e Bobbio, dove siete finiti, «Corriere della sera», 29 marzo 1997.

tacciono. Nel nostro Paese, gira e rigira, la colpa è sempre degli intellettuali, muti e loquaci che siano280». La replica di Arbasino non si fa attendere e arriva puntuale su «La Repubblica» il giorno seguente; in questo articolo lo scrittore lombardo elabora una panoramica generale sulla querelle, scrivendo:

La confusione sugli intellettuali in politica proseguirà per sempre, esibizionistica e inutile. Ma potrebbe ingannare i cuori più semplici, se non provano a riflettere. Le richieste a quella categoria invece che ad altre più efficienti sono infatti irreali e mitomani, a parte l' ostentazione prolungata di se stessi281.

Come nel primo articolo, Arbasino infatti accusa gli intellettuali di essere troppo autoreferenziali, chiusi nei loro messaggi ed indirizzarsi esclusivamente alla loro categoria che è «come predicare la pace ai pacifisti», piuttosto che indirizzarsi a coloro che detengono il Potere e magari possono accogliere, se valide, le loro richieste. Continuando inoltre sull'opportunismo di alcuni intellettuali a strumentalizzare le tragedie per opportunismo o per mera pubblicità, anche in questo articolo Arbasino rincara il colpo scrivendo:

E dunque diffondono un'immagine molto negativa di intellettuali e lettori e spettatori che fingendo di sdegnarsi e di moralizzare in realtà gradiscono e comprano e consumano soprattutto delitti, disgrazie, olocausti, catastrofi, pulp, splatter, e altre forme di brutture deplorevoli282.

Sentendosi chiamato in questione, Tabucchi risponde dalle pagine del «Corriere della Sera» con l'articolo L'albanese sono io; in apertura a quest'ultimo, si ritrova un'ulteriore riflessione su una possibile definizione dell'intellettuale, ed esorta Arbasino a entrare attivamente nella questione e dare una risposta definitiva:

Ma forse quella lì degli "intellettuali", che Togliatti definì "pidocchi sulla criniera del cavallo" e un giudice recente "rozzi buoi" (l'immaginario loro è sempre zoologico), non è né una classe ne' una categoria come vorresti tu. Forse solo una funzione, nel senso della Linguistica, nient'altro. I più (e io fra loro) ci

                                                                                                               

280 ANTONIO TABUCCHI, Intellettuali copritevi, ora piovono pietre, op. cit.

281 ALBERTO ARBASINO, Ma non chiedeteci anche la predica, «La Repubblica», 2 aprile 1997.

stanno solo il tempo necessario per esprimere un'opinione che ritengono urgente, e poi ritornano alle professioni che danno loro da vivere: contratti non ne hanno, non sono iscritti all'ipotetico sindacato specifico, nella loro carta d'identità non c'è scritto "intellettuale", non sono organici283.

Come ha già ricordato altrove, Tabucchi qui sottolinea che nel profilo ideale l'intellettuale, non essendo rinchiudibile in una categoria, è realmente libero di esprimere il proprio giudizio; anzi, è doveroso per lui esprimere e alzare la voce per affermare la sua "funzione". Tabucchi infatti, non credendo nella figura dell'intellettuale organico crede, in chiave gramsciana, che l'intellettuale sia chiunque lavori nel mondo della cultura nel momento in cui si espone pubblicamente per dare una sua particolare visione su un avvenimento dato. Lo scrittore toscano va però oltre, affermando che una volta ritornato alla propria professione, dismette gli abiti intellettuali, cessando di fatto la sua funzione. Tabucchi continua successivamente l'articolo accusando Arbasino di snobismo, o meglio di élitarismo («Vorresti un mondo modellato sulla tua sensibilità e sul tuo buongusto e ti trovi davanti queste macerie») ma, sempre secondo lo scrittore toscano, il compito dell'intellettuale è offrire alle classi meno colte degli strumenti per difendere i propri interessi e i propri diritti. E, se nell'articolo di Arbasino si cercava di sottolineare che i popoli più penalizzati hanno bisogno di beni primari prima di potersi abbandonare ai piaceri della cultura, Tabucchi, riprendendo un articolo di Eco, riafferma l'idea secondo cui è possibile affermare una cultura della tolleranza soltanto attraverso l'educazione. Invita infine lo scrittore lombardo ad intervenire per un dibattito presso l'università nella quale insegnava:

è qualcuno che conosce l'angusta prigione del proprio Io (o Ego) e che cerca di vedere le cose dall' "altra parte". E che attraverso i suoi personaggi si sforza di essere un altro, molti altri, tanti altri quanto è possibile. Anche un albanese284.

E' interessante sottolineare come in questa diatriba anche lo storico e giornalista italiano Ernesto Galli della Loggia (1942- ) entri, se non                                                                                                                

283 ANTONIO TABUCCHI, L'albanese sono io, «Corriere della Sera », 7 aprile 1997. 284 ID, L'albanese sono io, op. cit.

direttamente almeno trasversalmente pubblicando, sempre sul «Corriere della Sera», un lungo articolo proprio sui rifugiati albanesi285. In questo, il giornalista romano analizza lucidamente il caso della forte immigrazione verso l'Italia, vedendo la paura dello straniero, del diverso, come un timore dovuto alla possibile perdita, da parte degli italiani, di quel diffuso senso di presunta tranquillità e benessere dopo decenni, se non secoli, di squilibri. Ma la tesi di Galli della Loggia, in continuità con gli articoli di Arbasino, è che il rifiuto dello straniero proviene, a suo avviso, da quel falso buonismo e dal timore della perdita del benessere da parte del nostro popolo. Gli italiani inoltre, sempre secondo Galli della Loggia, si sentono legati piuttosto da interessi locali che da quelli globali, dall'idea di un “borgo” piuttosto che da quella di nazione, leitmotiv che sembra stare alla base dei primi due romanzi tabucchiani.

                                                                                                               

285 ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA, La nazione che ci manca, «Corriere della Sera», 1 aprile 1997.

3.4